Intrattenimento in streaming: un'emozione da poco
Film, serie TV, musica, libri e ogni altra forma di intrattenimento non sono un diritto: sono un privilegio. E per godere di questo privilegio occorre che l’industria sia sostenuta da tutti. Pagando il giusto, quando è necessario.
Alla fine del 2023 è terminato uno degli scioperi che ha fatto più notizia negli ultimi anni: quello degli attori di Hollywood. Parliamo di uno sciopero durato oltre 100 giorni e a cui hanno preso parte tutti: grandi star, volti emergenti o sconosciuti, tutti insieme hanno smesso di andare sul set, di presentarsi alle conferenze stampa, di promuovere film e serie a cui avevano lavorato nei mesi e anni precedenti. Parecchi film e serie, di conseguenza, hanno visto slittare la propria data di uscita: è successo per Dune Parte 2 di Villeneuve, per Challengers di Guadagnino, e parecchie altre opere che in queste settimane hanno fatto o faranno il loro debutto.
Spieghiamo un attimo perché è nata questa protesta. In passato i compensi prevedevano degli extra per la messa in onda delle repliche di film e serie dopo la prima uscita. Ogni nuovo passaggio prevedeva un pagamento: tutte cifre azzerate con lo streaming, diventato quindi il centro delle rivendicazioni degli attori. Protesta che si è conclusa con successo: paghe più alte e compensi aggiuntivi se si riscuote un certo seguito sulle piattaforme streaming, una sorta di ridistribuzione degli utili che vede maggiore peso per gli interpreti della settima arte. Stessa rivendicazione portata avanti dagli sceneggiatori: in quel caso lo sciopero si era concluso dopo quasi 150 giorni, qualche settimana prima, esattamente con lo stesso risultato.
Al centro di tutto sempre lo streaming e i compensi a esso collegati: nelle ultime settimane se ne è tornato a parlare anche in Italia.
Il giorno in cui morì la musica
Attori e sceneggiatori hanno posto un problema significativo: prevedere un equo compenso per tutti i soggetti che prendono parte alla catena di montaggio dell’intrattenimento è indispensabile per garantire la creazione di opere di alta qualità.
L’alternativa sono prodotti realizzati da professionisti sottopagati: senza contare che gli introiti, che pure ci sono, si sposterebbero verso i detentori delle piattaforme, attribuendogli il potere di esercitare un controllo fin qui inedito. Ma se tutto questo non vi avesse ancora convinto, c’è un altro settore dell’intrattenimento che può fare luce su quanto aspetta l’audiovisivo se non comprendiamo le reali cifre in gioco. La musica.
Oggi la produzione musicale è un affare complicato, per la stragrande maggioranza dei musicisti in perdita o quasi. Gli emergenti se la vedono davvero brutta, anche i big lamentano compensi insufficienti: almeno questi ultimi possono contare sulla monetizzazione di concerti e merchandising, ma per chi oggi si affaccia alla ribalta nell’era del jukebox celestiale, del contatto pressoché diretto tra ascoltatori e artisti, la faccenda è tutt’altro che incoraggiante.
Non c’è mai stato un pubblico così grande per la musica, ma i guadagni continuano a calare. Tutto perché il concetto di musica in streaming si è trasformato in commodity: la diamo praticamente per scontata e non prendiamo neppure in considerazione l’idea di pagare più di quanto facciamo oggi.
Per cinema e serie si presenta ora la stessa questione: diamo per scontato che per pochi euro al mese ci venga messo a disposizione un catalogo sterminato, perennemente rimpinguato di novità. Ma non ci preoccupiamo di come tutto questo possa restare sostenibile e come possa anche prevedere per tutti gli addetti ai lavori un compenso adeguato. Una questione tornata d’attualità dopo che nelle ultime settimane è montata una polemica, per la modalità con la quale una piattaforma in particolare ha scelto di monetizzare i propri servizi.
Prime Video ha cambiato le carte in tavola
A partire più o meno dalla metà del mese di aprile, sui social serpeggia un certo malumore per via di alcuni cambiamenti apportati da Amazon al suo servizio Prime Video. Non ci sono stati stravolgimenti particolari, solo una piccola modifica: ora la visione di film e serie ospitate sui server dell’azienda di Seattle può essere inframezzata da annunci pubblicitari. Parliamo di spot veri e propri, che durano al massimo una manciata di secondi, e che Amazon promette non saranno invasivi come in TV o su altre piattaforme concorrenti.
Una delle argomentazioni ricorrenti di chi polemizza sul nuovo regime di Prime Video è legata al cambiamento attuato in corso d’opera. Mentre Disney+ e Netflix hanno introdotto dei piani con inserti pubblicitari che gli utenti hanno potuto scegliere di sottoscrivere, Amazon ha invece preferito il meccanismo di opt-out: gli spot ci sono per tutti, ma chi lo desidera può sempre pagare un’aggiunta di 2 euro al mese al prezzo base per eliminare la pubblicità. In altre parole: dalla metà di aprile il servizio ha cambiato le sue condizioni base di funzionamento.
Come altre piattaforme anche Amazon si è resa conto che in principio, forse, aveva fatto male i conti: magari a Seattle speravano che più persone si abbonassero al loro servizio, magari pensavano di riuscire a far calare alcuni costi di esercizio. Tutti i gestori di piattaforma negli ultimi anni hanno alzato i prezzi: a noi, che nel frattempo ci siamo abituati a questo enorme serbatoio di intrattenimento, il più delle volte non resta che accettare.
Secondo coloro i quali criticano la decisione, Amazon ha quindi scelto di peggiorare l’offerta senza aver lasciato agli spettatori altra alternativa che accettare o pagare. Amazon cambia le carte in tavola, dicono i critici: per avere quanto era stato pattuito, ovvero video senza interruzioni, pretende da me 24 euro l’anno in più. E questo si unisce a quanto già si paga per Amazon Prime: 49,9 euro l’anno.
La richiesta extra di 2 euro al mese, 24 euro l’anno, è bastata a far partire una ridda di commenti velenosi sotto i post di Prime Video su Instagram o altrove (non si tratta di una questione solo italiana). Eppure, nell'opinione di chi scrive, si tratta di un passaggio inevitabile e anzi necessario: le polemiche sono frutto di una incomprensione di come questo mercato dell’intrattenimento si sostiene e come potrà continuare a farlo in futuro. Dovremmo quasi essere felici di pagare qualche euro in più: almeno se vogliamo continuare a guardare tutto quanto oggi abbiamo a disposizione, magari con l’aggiunta anche di qualche altra buona novità negli anni a venire. Il rischio è di veder sparire non solo queste produzioni, ma più in generale l’intrattenimento come lo intendiamo oggi.
Il costo (reale) dell’intrattenimento
Facciamo qualche calcolo. Prendiamo il costo di Netflix, che non prevede abbonamenti annuali: 5,49 euro al mese il prezzo della versione con gli spot ma risoluzione limitata a FullHD (1080p) e qualche piccola limitazione sul catalogo - se si desidera l’alta risoluzione UHD bisogna spendere 17,99 euro al mese (e si eliminano anche le pubblicità). Per il nostro esempio, opteremo per la versione intermedia: 12,99 euro al mese, risoluzione FullHD e niente spot. Circa 150 euro l’anno (sarebbero circa 66 euro per il piano con advertising).
Per Disney+ vale un discorso analogo. Il costo dell’abbonamento con inserti pubblicitari è di 5,99 euro al mese e non esiste una versione annuale di questo piano (alla fine si spende circa 72 euro l’anno), ma in questo caso si può optare con facilità per la versione intermedia e fare a meno degli spot. Disponibile c’è un piano FullHD da 89,9 euro l’anno. Se però non potete fare a meno dell’UHD e dell’HDR, preparatevi a sborsare 119,9 euro l’anno.
Torniamo a Prime Video: avete sborsato 49,9 euro per l’abbonamento Prime, di conseguenza avete a disposizione l’intero catalogo in risoluzione UHD e HDR (se film e serie in questione lo prevedono). Vi toccano però gli inserti pubblicitari. Arrotondiamo la cifra a 50 euro l’anno: la quota comprende anche le spedizioni veloci e gratuite, Photos per lo storage illimitato delle foto dello smartphone, una versione ridotta di Amazon Music, un catalogo di ebook gratuiti (non sempre sono capolavori, va detto), Prime Gaming (che offre titoli gratuiti da riscattare per PC o console), la possibilità di sottoscrivere l’abbonamento a un canale Twitch (per sostenerlo e seguirlo senza pubblicità) e persino uno sconto sulle consegne del cibo a domicilio se ordinato tramite Deliveroo. Se decidete di aggiungere 1,99 euro al mese per fare a meno degli spot su Prime Video, il costo totale sarà di circa 75 euro l’anno. Anche con l’extra, Prime Video costa meno degli altri servizi: in più, ci sono gli altri bonus appena descritti.
Ma non è questo il punto.
Quanto vale un’emozione?
Immaginiamo di sottoscrivere gli abbonamenti intermedi di Netflix e Disney+, poi ci lanciamo sul Prime Video senza spot: sfioriamo i 320 euro l’anno. Tutto questo per un catalogo di film e serie TV che va soggetto a continui ricambi e rimescolamenti ma che, sempre più spesso, ospita anche produzioni originali che in alcuni casi sono di buon livello: basti pensare al più recente successo proprio di Amazon, la serie basata sul franchise Fallout rilasciata su Prime Video, che da sola sarebbe costata la bellezza di 150 milioni di dollari per la prima stagione. E non è l’unica novità di rilievo in tempi recenti: sempre su Prime possiamo citare Reacher, Invincible, The Boys, La ruota del tempo, Gli anelli del potere, Jack Ryan, film come il remake de Il duro del Road House o Air, le varie produzioni nazionali di reality come LOL o Celebrity Hunted.
Che ci siano piaciute o meno, parliamo di investimenti cospicui: sommando tutto insieme, la cifra di un anno di prodotti originali su Prime Video supera agilmente il miliardo di euro di costi di produzione. Opere che per anni abbiamo potuto vedere solo su canali a pagamento (vedi l’offerta Sky, che prevede comunque inserti pubblicitari sia sulla TV lineare che on demand), che sulla TV in chiaro sarebbero farcite di spot. Cercare nuovi flussi di cassa che garantiscano la sostenibilità di questo sforzo è inevitabile. Lo stesso vale per Netflix (che pure sta cambiando politica in questi anni, dopo alcuni scivoloni), lo stesso vale per Disney+ e per tutte le altre piattaforme. E non abbiamo incluso in questo ragionamento Apple TV+ (che pure offre ottimi prodotti), Crunchyroll, Paramount+ e i vari Tim Vision, Now/Sky, Mubi, Mediaset Infinity eccetera.
A questo poi si aggiungono i costi per l’acquisto dei diritti degli altri film e serie che troviamo disponibili sulle piattaforme: non è un meccanismo perfetto, troppo spesso ci sono titoli inspiegabilmente fuori catalogo ovunque. Di sicuro non possiamo sottoscrivere ogni abbonamento in circolazione: ma se ci limitassimo ai 320 euro l’anno di cui sopra, per tre abbonamenti che offrono un catalogo molto ampio, parleremmo dell’equivalente di 16 serate al cinema per una coppia.
La resa dei conti
Due biglietti da 10 euro a testa, per 16 serate, equivalgono a 320 euro. Immaginiamo però che la nostra coppia riesca ad approfittare di qualche cineforum, di sconti infrasettimanali e di qualche altro beneficio, e arriviamo a 20 film. Facciamo pure che i film siano 25: praticamente al cinema in coppia ogni due settimane. Diciamolo subito: il 97 per cento degli italiani va al cinema molto meno di così (lo dice il Ministero della Cultura). Comunque la si veda, per quanto io ami la sala e vorrei che tutti ci andassero più spesso, è un confronto impari quello con lo streaming. La maggioranza di film e serie oggi viene fruito in quella modalità: quanti film abbiamo visto nell’ultimo anno su quelle piattaforme?
Le piattaforme hanno già oggi un potere enorme sul nostro intrattenimento: ci siamo spostati su Internet per gran parte delle nostre serate, complice anche la pandemia del 2020. Ricordiamolo, queste piattaforme sono una distorsione: abbiamo rinunciato al concetto di possedere la musica, i film, a favore di una scelta più ampia e della comodità di poter guardare e ascoltare tutto ovunque.
Il problema conseguente è che quei cataloghi non ci appartengono: in qualunque momento possono essere bloccati, chiusi, dobbiamo continuare a pagare l’abbonamento o potremmo perdere accesso a quanto abbiamo già pagato. Non stiamo parlando di un’ipotesi: è già successo. Dobbiamo trovare il modo di far rispettare i nostri diritti: ma le proteste devono basarsi su argomentazioni solide, non sulla semplice pretesa di avere sempre di più e pagarlo sempre di meno.
Paradossalmente, ci spaventano 2 euro in più al mese ma in altri casi non ci facciamo problemi a spendere anche molto di più per sostenere uno streamer con abbonamenti, bits, sub regalate a perfetti sconosciuti. Certo, in quel caso entra in funzione un meccanismo psicologico differente: percepiamo il creator o la creator come una persona a noi vicina, un amico, interagiamo direttamente con lui o lei e dunque ci sentiamo moralmente motivati a sostenere il suo lavoro.
Hollywood la percepiamo come un mondo distante, fatto di lusso e magari anche di qualche spreco di troppo: ma la stragrande maggioranza dei professionisti del cinema, o della musica, sono persone non troppo diverse da quanto siamo noi. (Gente che tra l'altro se non viene pagata con le royalties finisce in mezzo a una strada - ndLorenzo)
Sta a noi far sì che non si ripeta per il cinema quanto già capitato con la musica. Se vogliamo continuare ad ascoltare canzoni e guardare film, dobbiamo anche convincerci che questi contenuti hanno un valore: la cultura si fa coi soldi. Che non ci sono in ballo solo i cachet delle star, ma pure il salario e la sopravvivenza di un'intera filiera. Dobbiamo stabilire quanto vale per noi l’emozione di un nuovo album dei Pearl Jam, o di un nuovo film con protagonista il nostro kaiju preferito, e ricordarci che per realizzarlo ci sono decine o centinaia di lavoratori coinvolti: se il loro lavoro e il piacere di fruire del risultato vale meno di 24 euro l’anno, quanto ci chiede oggi Amazon per eliminare la pubblicità da Prime Video, allora il mondo dell’intrattenimento ha un serio problema.