

Dune: Parte 2. Il meglio della fantascienza al cinema
La seconda puntata di quella che sarà la trilogia di Denis Villenuve sui libri di Frank Herbert. Più emozioni, meno effetti speciali. Un passo avanti verso la trasformazione dell’immaginazione in realtà.
Ci sono film, libri, manga o anime su cui non puoi essere davvero obiettivo: vuoi perché il contenuto finisce per toccarti profondamente, vuoi perché ti affezioni ai personaggi, oppure ancora perché la tua vita è legata al ricordo di quell’opera che hai letto in gioventù. Per me, Dune costituisce un ostacolo di quest’ultimo tipo: è probabilmente il mio libro preferito letto durante l’adolescenza, poi riletto tante volte in età adulta, per questo sono legato all’idea stessa che mi sono fatto della saga fantascientifica che conta ormai più di 50 anni dalla sua prima uscita in libreria. Nel tempo ho letto e visto tutto quanto ho potuto su Dune: l’idea che Denis Villeneuve avesse deciso di farne un film, mi aveva galvanizzato. Dopo la prima visione del primo lungometraggio, ero esaltato. Oggi, con l’uscita del secondo capitolo, sono felice di vedere che il progetto prosegue. E che Villeneuve prosegue nella propria, esaltante, crescita cinematografica.
Dove eravamo: Dune
Avevamo lasciato Paul Atreides, erede di una casata da generazioni in lotta con Harkonnen e con l’imperatore dell’universo conosciuto, al centro di un complotto per ucciderlo e cancellare il ricordo della sua stirpe dalla storia: esiliato nell’alto deserto sul pianeta Arrakis, l’unico luogo dove la spezia geriatrica cresce e viene raccolta (l’unica sostanza in grado di consentire di viaggiare nel cosmo), si trova davanti a una scelta tra la vita e la morte. La sua, quella di sua madre, quella dell’intera umanità se dobbiamo dare credito alle sue visioni. Il secondo capitolo inizia esattamente da qui: Paul è nel deserto, coi Fremen, e deve sopravvivere. Come, in che modo e a quali condizioni, è una questione tutta nelle sue mani.

A differenza del primo film, in Dune: Parte 2 si viaggia molto meno fuori dall’atmosfera del pianeta deserto: il cuore della storia è tutto lì, tra le sabbie, dove impariamo a conoscere la storia, la religione, le fazioni politiche e le abitudini dei Fremen. Qualche capatina su Giedi Prime sarà inevitabile, è essenziale per come il regista (che è anche sceneggiatore insieme a Jon Spaihts) decide di concepire il racconto e di evolverlo in questo capitolo: ci sono ancora più politica e più riferimenti al fanatismo religioso, in una storia che tuttavia si fa decisamente più intima nel corso del secondo atto, senza per questo rinunciare alla magnificenza dello scenario naturale incredibile che il deserto offre come palcoscenico per il racconto.

Villeneuve si prende parecchie libertà rispetto al racconto originale, con l’evidente scopo di rendere più leggibile e comprensibile la storia allo spettatore: ciò nonostante, la durata di questo secondo capitolo arriva a superare le due ore e mezza, segno inequivocabile della quantità di momenti che è necessario mettere in fila per far comprendere il significato e la portata di quanto Frank Herbert aveva messo su carta negli anni ‘60, ‘70 e ‘80 del secolo scorso. Un racconto di ecologia, politica, religione, che aveva avuto il merito di cambiare il modo stesso in cui si concepiva un’opera fantascientifica (meno tecnologia, più emozioni): un lavoro enorme che si era allungato in sei volumi, privi di una conclusione nel settimo capitolo a causa della morte dell’autore.
Dove siamo oggi, Dune: Parte 2
Come detto, la storia riprende esattamente dove si era interrotta. A cambiare è solo il modo in cui Denis Villeneuve decide di attuare la messa in scena: memore dell’esperienza maturata col film precedente, getta sul piatto un’impressionante sequenza di primi piani strettissimi e di colori vividi (merito anche del direttore della fotografia: Greig Fraser, già incontrato nel primo capitolo e che porta avanti un percorso iniziato con Rogue One in questo genere), che amplificano la performance del cast di prima qualità che è riuscito ad assemblare. Il risultato, come anticipato, è aumentare il tono intimo del racconto: si approfondiscono il carattere e le motivazioni che muovono ciascuno dei personaggi, mentre si assiste alla crescita di Paul Atreides che da ragazzo è costretto a diventare uomo. Deve andare incontro al proprio destino, ineluttabile, deve affrontare ciò che la vita gli ha messo davanti: l’amore, la guerra, le scelte che possono determinare la sopravvivenza o la morte di persone che gli sono care e di miliardi di altri individui.

Il ritmo e il tono del racconto sono molto diversi dal precedente film: la scena è stata già allestita, conosciamo già Dune e i suoi abitanti, così come conosciamo l’insieme di delicati equilibri che tiene in piedi l’impero di Shaddam IV della Casa Corinno. Il regista sceglie di investire quasi due terzi del film a raccontarci la cultura, la società, le usanze dei Fremen: il racconto sembra quasi rallentare, stagnare, per poi ripartire di colpo nel terzo atto quando gli eventi iniziano a precipitare. In un certo senso è un po’ un limite della pellicola: si prende il tempo che serve per approfondire il carattere di Chani, interpretata da Zendaya, o per comprendere la fede di Stilgar (Javier Bardem), col risultato che gliene rimane poco per dare spazio a Florence Pugh nel ruolo della Principessa Irulan, o a Lady Fenrig che sullo schermo ha il volto di Lea Seydoux.

Una nota di merito va senza dubbio a Dave Bautista, capace di essere completamente credibile nel ruolo di Beast Rabban, così come molto convincente è l’interpretazione che dà Austin Butler di Feyd-Rautha. Il Barone Harkonnen, Stellan Skarsgard, è magnifico. E poi c’è un cammeo di Anya Taylor-Joy, che anticipa senz’altro quanto vedremo nel terzo capitolo: è certo, a questo punto, che Villeneuve si spingerà fino alla storia di Messia di Dune (il secondo libro) per dare corpo a una vicenda che tra l’altro prende decisamente la strada di un racconto al femminile. Lo fa con naturalezza, nella ricostruzione di una società che evidentemente non fa distinzioni tra uomini e donne - successione sul trono imperiale a parte. Una società che vede confrontarsi lo spirito di sacrificio dei Fremen col lusso della nobiltà, quella che per 10.000 anni ha dominato l’Universo conosciuto dopo la fine della jihad butleriana.
Dove andremo domani: aspettando il messia
Se la lunghezza e il ritmo possono costituire un limite per alcuni spettatori (vi garantisco che non lo sono davvero: il film scorre molto piacevolmente), bisogna dare atto a Villeneuve di aver fatto dei passi avanti importanti nell’irrobustire il comparto tecnico: gli effetti speciali sono parecchio più convincenti, fatto salvo un momento o due durante alcune battaglie, ma si vedono al cinema strutture e macchine degne del lavoro di HR Giger per quello che sarebbe dovuto essere il Dune di Jodorowski. Il budget è aumentato (sfiora i 200 milioni questa volta, a confronto con i 150 circa del precedente), ma soprattutto sembrano chiarite le idee nella testa del regista rispetto a dove portare la storia e la sua rappresentazione di Dune. Limiti della rappresentazione che sono ormai soltanto i limiti imposti dal medium: per quanto il film sia stato girato in IMAX (versione presentata alla stampa, in lingua originale), superare quanto è allo stato dell’arte è impossibile persino per questo regista.

Quello a schermo è un universo, inteso come formato da pianeti e galassie, realmente credibile: gli appassionati del libro vedranno rimandi a quanto hanno letto, chi invece si è appena avvicinato alla storia vedrà un immaginario traslato nel mondo fisico che ha paragoni solo in un paio di altri casi nella storia del cinema (su tutti: Star Wars). Ciò che colpisce è il disincanto con cui Villeneuve si spinga a sposare il personaggio creato da Frank Herbert, con lo spirito con cui l’autore l’aveva scritto: Paul Atreides è un messia riluttante, a tratti potremmo quasi pensare a lui come un anti-eroe, che cerca di ribaltare le attese di chiunque lo circondi e persino il destino stesso che lui è in grado di vedere grazie ai suoi poteri soprannaturali. Un altro piccolo limite è la presenza scenica di Timothee Chalamet: forse un po’ troppo delicato nell’aspetto per restituire la crescita di Paul e il suo indurirsi nel tempo, ma al contempo comunque capace di portare a schermo il turbamento di chi si ritrova suo malgrado eletto a salvatore di un popolo. Il film rifugge comunque dall’essere un semplice romanzo di formazione, in un certo senso cerca di scavalcare anche lo stereotipo del viaggio dell’eroe: prova insomma a fare a modo suo.

A noi non resta che raccomandare a chiunque di trovare la miglior sala della zona, con il miglior schermo e il miglior audio possibile (la colonna sonora, ancora affidata ad Hans Zimmer, è sempre molto suggestiva), per godersi il secondo capitolo, Dune: Parte 2. La strada tracciata da Villeneuve, il suo sentiero dorato, lo condurrà probabilmente al tradimento della trama originale: ma è una ottima rappresentazione di cosa si debba fare, o si debba evitare di fare, quando si porta al cinema una storia nata sulla carta.