Challengers non è un film sul tennis. Ma è molto altro
La qualità dell’opera di Guadagnino è decisamente alta. Un prodotto interessante: con qualche limite, ma anche molto da raccontare
Bisogna che lo affermi fortemente: Challengers non appartiene al tennis. Se sei un appassionato di questo sport lo capisci dopo pochi fotogrammi del nuovo film di Luca Guadagnino: con il tennis vero, questo lungometraggio ha poco o niente a che fare.
È tutto un pretesto per mettere insieme tre persone giovani, attraenti, in un contesto decisamente competitivo: un ambiente in cui valgono regole quasi hobbesiane, in cui è naturale immaginare una competizione serrata per le risorse, i compagni, la vittoria.
Challengers non è un film sul tennis, e non è neppure un film sul poliamore: non fatevi fuorviare dal trailer. Challengers è però un bel film: che a me ha fatto venire in mente la migliore letteratura della seconda metà del Novecento.
Una Zendaya magnetica
Lo confesso, una grossa fetta delle aspettative che avevo su questo film era legato alla sua protagonista: e devo dire che Zendaya offre una prova da buona attrice, risulta convincente nel suo ruolo di centro di gravità permanente di una storia che ruota tutta attorno alle personalità e ai caratteri dei personaggi protagonisti.
C’è appunto lei nel ruolo di Tashi Duncan, una giovane promessa del tennis juniores. C’è Josh O’Connor che interpreta un tormentato e immaturo giocatore tutto talento e istinto, che va sotto il nome di Patrick Zweig. E poi c’è Mike Faist, che interpreta il più bidimensionale Art Donaldson: una sorta di ruota di scorta al rimorchio degli altri due, che però ha in serbo più di una sorpresa.
Come detto, non è un film sul tennis: è un film sul desiderio, le aspirazioni, le aspettative degli esseri umani per il proprio futuro. C’è il calcolatore, c’è l’edonista, c’è il succube: il triangolo che pure si genera nel corso della storia, e che non è uno spoiler visto che si intuisce pure dall’improbabile trailer, non è neanche legato alla crescita dei personaggi.
Le personalità e i caratteri che conosciamo al principio della storia restano identici fino alla fine: in un certo senso Guadagnino, e il suo sceneggiatore Justin Kuritzkes, prova a convincerci che noi non cambiamo, che restiamo delle bestie prevedibili e con in testa le nostre ossessioni e un modo davvero molto lineare di portare avanti i nostri affari.
Poi c’è un altro aspetto non secondario: la vita non è la sceneggiatura di un film, non è la sinossi di un romanzo, e oltre agli imprevisti della vita (pensate all’infortunio che colpisce Tashi/Zendaya già nel trailer) poi c’è la quotidianità con cui avere a che fare.
Ovvero la noia, il tedio, la passione che si spegne: allora bisogna cercare di trovare nuovi stimoli per andare avanti, a volte occorre scovare un espediente per tirare avanti. Personalmente, credo che questo film sia un meraviglioso affresco postmoderno che deve tantissimo a un libro che incidentalmente è anch’esso ambientato nel mondo del tennis giovanile: sto parlando di Infinite Jest di David Foster Wallace, anche quello un racconto in cui il tennis era solo un pretesto per parlare d’altro.
La musica nella mia testa
Quello che succede nel libro di DFW è un racconto a più voci del disagio: il disagio dell’essere adolescenti cresciuti troppo in fretta, il disagio di dover rispondere alle aspettative sociali che ci circondano, il disagio di rendersi conto di essere un’isola all’interno di un arcipelago che è la vita adulta.
Riuscire a sintetizzare in poche frasi quello che sarà ricordato come uno dei più importanti libri del ‘900 è un’impresa che va al di là delle mie capacità: ma è indubbio che, come nelle pagine del libro, anche nel film di Guadagnino troviamo descritto e raccontato un rapporto disfunzionale di interdipendenza che sfocia inevitabilmente in una spirale autodistruttiva e in taluni casi abusiva.
Poi c’è un altro aspetto che mi ha fatto pensare che Kuritzkes e Guadagnino debbano tanta riconoscenza a Foster Wallace: la colonna sonora, stratosferica, di Trent Reznor e Atticus Ross.
Ovvero, per meglio dire, dei Nine Inch Nails: parliamo di uno dei gruppi musicali più importanti degli ultimi anni, che impreziosisce la narrazione con l’inconfondibile musica di registro a metà tra elettronica e industrial. E che irrompe nella narrazione di botto, a volume eccessivo, per spezzare una narrazione convenzionale che non corrisponde mai a come la vita si sviluppa, che invece finisce per scandire i flashback e flashforward che danno ritmo allo sviluppo della storia.
Il risultato è a tratti spiazzante: ci sono frangenti in cui hai difficoltà a capire cosa dicono i personaggi a schermo tanto è alta la musica. Ma non è forse questo un modo perfetto di raccontare la vita vera? Quante volte il frastuono che ci circonda tende a rendere impossibile ascoltare i nostri stessi pensieri?
Il resto è tipico di un film di Luca Guadagnino: una bella fotografia, la già citata bella colonna sonora, e una serie di trovate registiche che oscillano tra il genio puro (mi sono piaciuti parecchio primi piani in rallenty che sono volgari nel come sono girati, ma che restituiscono tante delle emozioni che pervadono i personaggi) e la baggianata che ti fa domandare come sia possibile che tu stia guardando lo stesso film di 30 secondi prima. Però tutto funziona: Challengers è un bel film.
Cosa non funziona in Challengers
Non è la prima volta che il campo da tennis diventa il terreno di scontro di una liason amorosa. Con toni diversi l’avevano usato come espediente per mettere in moto l’azione il trascurabilissimo (ma adorabile) Wimbledon di Loncraine del 2004, e il più cupo Match Point di Allen del 2005.
Erano film completamente differenti da questo, ma in comune avevano appunto il pretesto: il tennis come espediente per parlare d’altro, ovvero d’amore nel caso della romcom e della moralità nel thriller. Ma quelli erano film con una struttura differente: con ambizioni e produzioni altre da questo Challengers. Che prova a fare molte cose diverse, e in cui qualcuna funziona meno di altre.
Innanzi tutto, il tennis: quello che vedrete a schermo non è tennis, è altro, non posso stancarmi di ripeterlo. Se state per andare al cinema sulla scia del successo di Jannik Sinner nel circuito ATP, sappiate che rimarrete molto delusi. Poi ci sono delle trovate con cui le partite vengono mostrate a schermo: non vedevo una roba simile in un film occidentale da molti anni.
Guadagnino prova a rendere il dinamismo di uno scambio a due con delle trovate acrobatiche che non sono per niente riuscite: la cosa peggiore del film sono queste soggettive dal punto di vista della pallina che si muove avanti e indietro, seguendo traiettorie improbabili, con un risultato abbastanza discutibile sul piano estetico.
Ultima critica, la rivolgo proprio alla finitura patinata di quest’opera: c’è fin troppo product placement, fin troppe divise e abiti perfetti, per un mondo che senz’altro è quanto di più cool c’è in circolazione ma che nella realtà è fatto di molto più sudore e polvere di quanto si percepisca a schermo.
Quel che pare a me, da appassionato di tennis di lungo corso, è che lo sceneggiatore si sia fermato un po’ in superficie rispetto a quanto c’era da sapere e scoprire sul tennis: il circuito è sicuramente un mondo pesantemente contaminato dal marketing, ma rispetto alla celebre frase “image is everything” attribuita ad Andre Agassi (in realtà frutto di una campagna pubblicitaria) nel frattempo siamo andati molto più avanti.
Proprio l’attualità ci racconta di un tennista, Jannik Sinner, che fa della normalità il suo colpo vincente.
Parliamoci chiaro, i costumi sono molto belli: ma mi risulta difficile associare alla realtà tanta perfezione, a cominciare dagli outfit di Zendaya (niente di meno che selezionati da JW Anderson) per finire alle sue acconciature e al suo trucco perfetto.
Forse l’obiettivo di Guadagnino era trasformarla nella seduttrice suprema, nel mostrare una donna potente che fa quel che vuole quando vuole: se così fosse, allora c’è riuscito alla grande - ma non posso non vederla come una vulnerabilità del complesso di un film decisamente più spesso di così.
Un film molto poco italiano
C’è un tormentone del giornalismo italiano, non solo di quello legato al mondo dello spettacolo, che punta sempre a scovare qualcosa che arriva dal Belpaese in ciascuna vicenda: che sia un terremoto, un film di successo, una partita di calcio, l’estensore e il titolista di turno proveranno sempre a trovare un po’ d’Italia nel caso balzato agli onori delle cronache.
Inevitabilmente, anche in questo caso ci sarà chi proverà ad attribuire la patente di italianità a Challengers: ma non vi tragga in inganno che il suo regista sia nato a Palermo, o che viva in Italia. Challengers è altro, è un film che nasce e viene sviluppato negli Stati Uniti da un regista che ormai è fortemente incardinato in quel ecosistema.
A mio parere è anche un bel passo avanti nella carriera di Guadagnino, non tanto per la qualità assoluta del film in particolare ma, piuttosto, per quello che ci dice in termini di sua capacità di sviluppare un prodotto di questo tipo.
Challengers non è un capolavoro: ma è una bella produzione firmata da un regista che al momento pare in rampa di lancio, con molti progetti in uscita nel prossimo futuro e che ha nella sua filmografia già diverse opere che hanno fatto parlare di sé, con attori protagonisti che se non sono già famosi sono sul punto di diventarlo.
Sarà che sono rimasto stregato dalla musica e dal ringhio di Zendaya: ma Challengers è un film che m’ha convinto, di cui non posso che parlare bene.