Star Wars: La nuova arte della Forza
Un viaggio nella nuova direzione artistica di Star Wars, partita con il Risveglio della Forza e riverberata in un ogni prodotto successivo.
Nelle nostre avventure artistiche qui su N3rdcore ci siamo spesso confrontati con interi universi creati da zero, passando dalle città dei Kaiju fino al medioevo fantasy. Del resto il compito di una qualsivoglia illustrazione è quello di creare un’altra realtà, una meraviglia immaginifica che tiene incollati gli occhi di chiunque passi ad osservarla. Quando si parla di Star Wars però, il concetto è molto più diverso e profondo. Come tutti, anche il marchio di George Lucas è passato tra bozze e bozzetti, anzi molte scene della trilogia originale sono perfino interamente disegnate a mano e sono comparse sullo schermo proprio come se fossero riprese dalla telecamera. Un lavoro di fino che doveva compensare quello che oggi si riesce a fare con la tecnologia e che ha indubbiamente gettato le basi per quello che sarebbe poi diventato uno degli universi artistici più ispirati.
Da Tatooine a Crait, Star Wars ha praticamente creato una sua unica corrente artistica, talmente originale da aver ispirato le successive opere sci-fi in termini urbanistici, geografici e meccanici. Tutti noi possiamo infatti riconoscere qualsiasi elemento di Star Wars perfino fuori dal suo contesto, come droidi, blaster o veicoli del franchise. Anche quando ce ne presentano di nuovi o inediti, uno sguardo è più che sufficiente per capire che fanno parte dell’immaginario di Guerre Stellari. Questo anche grazie all’enorme talento di artisti come l’intramontabile Ralph McQuarrie, curatore originale dei primi film.
Per tale ragione parlare in generale di tutta l’arte di Star Wars richiederebbe uno sforzo accademico enorme e diverrebbe più un libro che un articolo da leggere nella pausa pranzo. Perciò, per questo appuntamento specifico, vogliamo concentrarci solamente su alcuni aspetti di quello che è Star Wars oggi, focalizzandoci sull’estetica dell’ultima trilogia come rappresentativa di ciò che Star Wars è nell’era moderna. Del resto, prima dell’uscita del Risveglio della Forza avevamo a disposizione solamente la trilogia prequel come esempio “moderno”, ma lo stile di quest’ultima rappresenta un mondo a metà tra quello che sarebbe poi diventato lo scenario iconico di Star Wars e i dettami della Vecchia Repubblica. Può sembrare un’affermazione banale, ma a livello di progettazione artistica sono punti estremamente diversi tra loro come lo sono le correnti pittoriche più note.
La nuova trilogia dunque, a prescindere da quanto possa piacere la sua storia e lo sviluppo dei personaggi, rappresenta la vera eredità di Star Wars proiettata in una chiave fresca, dove l’ambientazione della trilogia originale diventa una base su cui poter costruire numerosi pianeti, eserciti e costumi. Un processo apparentemente semplice se si considera che alle spalle ci sono decenni di lavori sul marchio, ma che in realtà si rivela essere ancora più complesso rispetto all’inventare da zero una galassia. Bisogna rispettare ciò che i fan hanno amato sul grande schermo, accompagnare i toni della musicalità di Williams, assecondare la particolare regia di Star Wars, creare design che possano essere realizzati concretamente attraverso costumi e lavoro di scenografia, capire come gestire le location e via dicendo.
Premesse che molti di noi neanche tenevano a mente quando ci siamo seduti al cinema per vedere il Risveglio della Forza, un film attesissimo col compito di riportare nelle sale una delle saghe più famose dell’universo attraverso una nuova storia. E come viene introdotta l’eroina di questa trilogia? Su un pianeta desertico, intenta a depredare uno Star Destroyer schiantato in una delle scene più belle ed evocative di tutto Star Wars, quasi come un parallelo “decadente” di Luke che guarda il tramonto binario. In quel preciso istante, accompagnati dal “tema di Rey” composto dal maestro Williams, sentivamo di trovarci di nuovo a casa, pronti per vivere nuove avventure. Non nascondo che fu principalmente questa scena a vendermi direttamente “The Art of Star Wars: The Force Awakens”, il quale noterete sarà al centro delle righe che seguono.
Come per ogni processo creativo che si rispetti, il viaggio del Risveglio della Forza fu molto lungo e in costante tensione tra il dovere di proporre qualcosa di nuovo e il raccontare che fine avessero fatto gli eroi del passato dopo così tanto tempo. Guardando i primi bozzetti potremmo notare un film completamente diverso da quello che poi è arrivato nelle sale, a partire da come l’identità dei protagonisti fosse estremamente legata ai loro luoghi di appartenenza. Questo è forse l’aspetto che più di tutti è evaso dal cestino e pervenuto a noi spettatori, specialmente quando si analizza la genesi di Rey e il suo luogo di partenza molto significativo per la visione di Abrams. Non è un’esagerazione affermare che una buona metà del lavoro dietro il Risveglio della Forza è stato fatto unicamente sulla creazione di Jakku, sia a livello di concept che nella realizzazione pratica nel set allestito negli Emirati Arabi, uno dei più difficili e impegnativi per la troupe insieme a Skellig in Irlanda.
Fin dai primi momenti era importante che Rey (inizialmente chiamata Kira) venisse fuori come una rottamatrice in continua lotta esistenziale all’interno di un pianeta fatto di spazzatura stellare, accompagnata dal desiderio di fuggire tra le stelle. Tale impegno richiama la voglia di costruire sopra la tradizione, di far vedere come la galassia sia tutt’altro che un posto pacifico dopo la sconfitta dell’Impero e di far passare l’eroina del racconto come una persona qualunque che parte dal basso, caratteristica che crea un legame con lo spettatore e poi messa da parte in l’Ascesa di Skywalker con un lignaggio, come dire, pindarico.
Non a caso, la scelta del “luogo delle origini simile a un cimitero spaziale” è condivisa sia dal Risveglio della Forza che dal recente Star Wars Jedi: Fallen Order, di cui abbiamo discusso qualche settimana fa. Anche Tatooine, sia per Luke che per Anakin, potrebbe essere associato a un pianeta rottame, considerando che in effetti il riutilizzo delle parti meccaniche è l’attività principale sia delle popolazioni esterne che di quelle indigene come i Jawa. Perfino Nevarro di The Mandalorian rientra in questa catalogazione, anzi quasi tutti i pianeti che visita il mandaloriano lo sono. Tale impostazione, per quanto possa sembrare un elemento stabile di per sé, funziona solamente quando è opposta all’architettura brutalista e fredda dell’Impero, la quale è ovviamente l’esatto opposto della cultura multi-razziale che si può ritrovare nella galassia, a prescindere che si guardi l’ispirazione indiana di Tatooine/Jakku o le metropoli di Coruscant. Lo abbiamo visto anche nell’Ascesa di Skywalker, che ritorna al deserto e ci accompagna in un festival dal sapore arabo.
La creazione delle nuove forze militari del “lato oscuro” del Risveglio della Forza sono partite esattamente in concomitanza con il delinearsi delle avventure di Sam (Finn) e Kira (Rey), girando intorno alla misteriosa figura del Jedi Killer che oggi conosciamo come Kylo Ren. Più che nell’individualismo che si può osservare nella genesi di Rey, e che quindi crea sostanzialmente un pianeta intorno alla sua figura, quando si parla di Kylo Ren si deve tenere in considerazione un processo praticamente spezzato, diviso. Da un lato abbiamo tutto il lavoro di design dietro all’armatura, durato anni e concentrato sul tentativo di creare un aspetto che fosse simile a Darth Vader e al contempo estremamente distaccato da esso. Dall’altro invece il nuovo Primo Ordine abbisognava di uno stile che richiamasse l’Impero mostrandocelo però in un’inedita versione migliore, più militarizzata e fredda, capace di comunicare anche solo dall’estetica quanto avesse imparato dagli errori del passato.
Il risultato è una subdola trasformazione dello stile imperiale, calcando ancora di più sul rosso e prendendo ancora una volta ispirazione dalle Guerre Mondiali per temi, design e caratterizzazione. Di certo non una novità per Star Wars, insieme a tutte le influenze asiatiche per l’anima visiva e gestuale dei vari personaggi su schermo. In particolar modo Luke, Leia e Han Solo rappresentavano la vecchia guarda sparsa per la galassia, dove Luke all’inizio doveva essere molto più turbato di quello che abbiamo visto nella trilogia, al pari di un vecchio samurai in esilio. Lo vediamo immerso nella sabbia, con uno sguardo senz’anima e la paura di Vader ancora in corpo, motivo per cui la direzione voleva che Jedi Killer indossasse una maschera simile a quella del pupillo di Palpatine. Doveva confondere, spaventare e farsi temere perfino dalla leggenda Jedi, dando quindi man forte all’ascesa dei Rey come cambio della guardia impavido, capace di affrontare i fantasmi del passato (letteralmente, si pensava di far tornare Anakin come fantasma con una faccia a metà tra Vader e Padawan) e iniziare una nuova era in lotta contro le nuove forze oscure.
Se nei bozzetti si vedeva Kira tagliare uno Star Destroyer a bordo di un caccia con la sola Spada Laser, scena che non vide mai la luce, nel film si è infine optato per un cammino più mansueto, dove Luke non compare mai su schermo e rimane solamente un cameo di fine pellicola. L’incontro con Han Solo, inizialmente programmato su un pianeta esotico pieno di cacciatori di taglie e di pub spaziali, diventa così una sorta di meet-up tra una fangirl e il suo idolo, idea totalmente diversa rispetto alla bozza iniziale della pellicola. Han Solo doveva infatti essere il corrispettivo di un personaggio di Sergio Leone in Star Wars, una canaglia dalla barba incolta e dal blaster facile, ridimensionato per metà della pellicola fino all’invasione della base Star Killer, dove effettivamente assume un ruolo più rilevante.
Questo perché il pianeta ghiacciato del Primo Ordine, che ora sappiamo essere Ilum, aveva una rilevanza pari a quella di Jakku sempre per il discorso che la caratterizzazione dei due lati della forza va di pari passo. Mentre si studiavano i castelli di rottami che Kira doveva riparare a inizio film, altri artisti si focalizzavano sulla location finale tra le foreste innevate di un pianeta remoto, dove una base militare si erigeva nella sua architettura minacciosa e senza emozioni. Questo generò un limbo di idee che suscitò molte riflessioni riguardo l’equilibrio nella Forza, arrivando perfino a proporre l’idea di una spada laser a doppia lama che comprendesse entrambi i colori. Come abbiamo visto però, il dualismo della Forza è rimasto intatto in un racconto di tensione e conversione, cercando ovviamente di far predominare il lato Chiaro attraverso la potenza dei nuovi eroi.
Per molti versi il Risveglio della Forza, a livello visivo almeno, ha dato il via alla nuova corrente artistica di Star Wars ed è evidente come le sue scelte abbiano influenzato (e siano state a loro volta influenzate) tutte le altre pellicole successive. L’artbook del Risveglio della Forza poi è stato forse il primo vero e proprio prodotto editoriale curato in questa maniera e legato alle pellicole di Star Wars, considerando che dietro c’erano archivisti ed esperti unicamente dedicati a esso. Prima di questo volume, le pubblicazioni erano legate essenzialmente a raccolta di bozzetti e illustrazioni, che sì rappresentavano comunque uno sguardo approfondito, ma che erano ben lontani dall’essere un viaggio cronachistico del processo creativo dietro i film di Lucas. Analizzare i prodotti artistici prima del Risveglio della Forza è sicuramente possibile oggi, grazie anche al preziosissimo contributo che gli archivi di Skywalker Ranch hanno dato ai curatori di queste iniziative editoriali. Tuttavia più che guardare al passato, vedere ciò che è avvenuto dopo il Risveglio della Forza può dirci molto di più su quella che è oggi l’anima di Star Wars, la stessa che filtra ogni volta attraverso i nostri occhi.
Partendo da quanto è stato fatto con il design delle fattezze del Primo Ordine, analizzando i bozzetti presenti su The Art of Rogue One: A Star Wars Story è possibile vedere come il brutalismo della nuova caratterizzazione si sia insinuato anche nel periodo storico dell’Impero, trovando nei colori scuri e nelle architetture geometriche ancora più forza di prima. Per quanto di imperiale ci sia ben poco nel corso delle avventure di Jyn Erso e compagnia, scene come quella del castello di Vader su Mustafar o delle sequenze nella base nemica nella conclusione del film ci raccontano un Impero estremamente crudele e molto militarizzato, al massimo della sua potenza e pronto a sferrare i suoi attacchi più devastanti. Rispetto alle pellicole della trilogia originale, è evidente come si sia optato per un approccio più moderno e simile a quanto fatto visivamente ne il Risveglio della Forza, riempiendo le scene di silenzi, campi lunghi, fumo e alchimie tra rosso e nero. Molta attenzione è stata data anche alla presenza visiva delle truppe d’assalto, specialmente memorabili nella sequenza d’apertura. Perfino il design di K2SO riflette i dettami stilistici a metà tra le idee maturate con il Primo Ordine e quelle del passato, trovando nelle forme tonde (richiamanti la novella Morte Nera) il perfetto contrasto con le linee dure dell’Impero.
Il resto del film, dal lato della resistenza, riflette invece il concetto del “pianeta rottame” esplorato qualche paragrafo prima, possibilmente in un’accezione ancora più forte considerando che l’Impero è alla sua massima ascesa e la galassia si trova sotto il giogo della sua stretta tirannica. Anche in questo caso, tutti gli eroi della squadra di Erso sono reietti o personaggi con un passato tragico come quello dei loro mondi d’appartenenza, elemento necessario soprattutto in Rogue One per far passare il messaggio che la più grande arma contro l’Impero verrà fornita proprio da un manipolo di emarginati uniti solo dal desiderio di rendere la galassia un posto migliore. A differenza degli altri film però, il design di Rogue One si dimostra nettamente più grezzo per via dell’intento registico di creare una storia senza Jedi, Sith o personaggi iconici della saga, dimostrando di conseguenza una cura nel far venire fuori la galassia che combatte lontano dall’ombra degli Skywalker. Non a caso, questo è uno dei motivi per cui Rogue One ha colpito di più rispetto a Solo, senza ovviamente nulla togliere alla pellicola sulla canaglia, nonché speranza che gli estimatori de Gli Ultimi Jedi volevano vedersi avverata nell’immagine di una Rey senza alcuna relazione agli eroi/cattivi della saga.
Parlando di storie senza Jedi, chi veramente diverge dalla linea della trilogia e abbraccia il feeling di Leone è The Mandalorian, il nostro show di Disney + preferito. Il bello di questa serie è che chiunque di voi può vedere i bozzetti di ogni puntata semplicemente continuando attraverso i titoli di coda, i quali ci mostrano quanto il lato artistico della serie di Star Wars sia totalmente incentrato più sui suoi personaggi che sul mondo che li circonda. Certo, c’è l’Impero e i soliti cattivi militarizzati, ma non vedremo mai loro basi o astronavi, anzi lo spazio è visitato solamente in una singola puntata.
Per il resto del tempo il mandaloriano vive avventure a terra, risolte nello spazio di una o due puntate e focalizzate o su di lui o sui personaggi principali della zona. Ampio spazio a deserti e a città abbandonate, in pieno stile western, dove il protagonista appare come un elemento a metà tra la dissonanza e la mimetizzazione. Prima era il poncho, ora è l’armatura di beskar, i tempi si evolvono ma gli ingredienti artistici del vecchio west rimangono gli stessi anche se si sostituiscono i revolver con i blaster. Al momento la serie è appena finita e il quadro completo ancora è lontano dalla pubblicazione, tuttavia è evidente come lo stile di The Mandalorian si discosti negli intenti dalla filosofia estetica del nuovo Star Wars, aggrappandosi fermamente al sentimento della prima trilogia come base per le sue decise unicità.
In un modo o nell’altro, a prescindere dal vostro prodotto preferito, la direzione artistica degli ultimi anni di Star Wars si è dimostrata una vera manna del cielo per il franchise, affermandosi come unico ponte tra la modernità del cinema e l’universo immaginato da George Lucas tanti anni fa. Al centro di questa corrente c’è il Risveglio della Forza e l’enorme sforzo durato anni per far sì che le nuove idee possano congiungersi con l’importante tradizione alle loro spalle, perfino quando ci sembrano totalmente distaccate. Al netto di quanto abbiamo vissuto con Gli Ultimi Jedi e L’Ascesa di Skywalker molti di noi avrebbero sicuramente fatto qualcosa di diverso, iniziando magari con il decidere un’identità registica univoca e che non cerchi di correggere la pellicola precedente per tutto il resto del film.
Luke che getta la sua spada nel mare, Rey che passa da signor nessuno a essere di nobile lignaggio, nemesi ridotte a cloni malriusciti e altre scelte infelici sono diventati elementi di discordanza narrativa che chiunque ha percepito, portandoci a rifugiarci nell’unico elemento rimasto immutato nel nuovo corso: la bellezza dell’universo. Per questo, oggi più che mai, approfondire l’arte di Star Wars è importante: essa ci permette di guardare oltre le parole, trovando nei bozzetti le risposte e la meraviglia perdute nella fretta della conclusione. E se la guida visiva di L’Ascesa di Skywalker svela una marea di dettagli importanti sul film, forse non abbiamo neanche tutti i torti a rifugiarci tra le pagine illustrare.