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Che cultura pop vorremmo nel 2024?

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Una riflessione mentre si spalancano le porte del 2024 su cosa voglia dire "cultura pop", su come la stiamo comunicando e su quello che ci piacerebbe vedere sempre di più.

Mamma mia che strazio quel periodo tra Natale e Capodanno, eh? Quando sei un freelance poi non sai mai se devi lavoricchiare un po’, per evitare un gennaio infame, oppure provare a riposarti: a volte invece, semplicemente, non ti puoi riposare perché t’hanno messo una scadenza l’otto, quando tornano a lavoro quelli col contratto. E che dire degli ultimi scampoli prima della Befana, quando in un attimo gli alberi addobbati passano dall'essere festa a presenza vagamente malinconica?

Ma perché le cose che ti piacciono da bambino diventano fastidiose da adulto e viceversa? Sono diventato uno che adora settembre e mal sopporta Santo Stefano.

E quindi inevitabilmente la testa o va indietro, a ricordare e a fare i bilanci, o avanti a fare buoni propositi: due attività che inconsciamente ci piacciono tanto, perché crediamo nel potere magico di un giorno in cui si è arbitrariamente deciso che si volta pagina. E allora voltiamola questa pagina e pensiamo a cosa ci piacerebbe vedere nel 2024: che potrebbe essere un esercizio di speranza, ma anche un clamoroso baratro di cinismo.

Parlando di cinismo, credo di avere iniziato questo pezzo almeno cinque volte e ogni volta veniva fuori un lamento continuo su tutto ciò che non mi piace del settore che abito da qualche anno.

Superficialità, sessismo, gente senza intelligenza emotiva che si nasconde dietro la parola “black humor”, rapporto parasociale con i creator che vengono osannati e difesi anche quando sbagliano e assurti a unica fonte di verità incontrovertibile, perché mettere in discussione chi segui o ciò che ti piace sembra ormai diventato mettere in discussione sé stessi.

Un settore sempre più stretto, più arroccato su piccoli gruppetti che si tirano la volata, con una utenza incattivita, aggressiva, militarizzata, con realtà editoriali senza scrupoli perché “oh alla fine devo far quadrare i conti”, con aziende che se possono saltare la stampa e parlare direttamente al pubblico per bocca di un creator non ci pensano cinque minuti. Per non parlare dell'utilizzo delle IA, che come ogni strumento ci darà tante soddisfazioni ma farà sentire tanta gente in diritto di scrivere ancora più banalità.

Ecco, vedete? Ci sto cascando di nuovo.

Forse perché mi piacerebbe che il rapporto che abbiamo con la cultura pop cambiasse nel 2024: tra l’altro, questa parola ormai è diventata più una categoria merceologica che uno spunto di approfondimento e condivisione. Tutti a spiegarti l'ultima serie, nessuno che ti parli dei 70 anni della RAI (neanche noi per ora, ma ci arriviamo). Credo però che sia l’inevitabile deriva a cui è soggetta qualsiasi cosa diventi improvvisamente argomento comune.

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Dai su, ok, tutto è cultura popolare: ma se parli solo di roba Marvel o manga non stai parlando di cultura pop, stai parlando di una parte di essa, quella parte che giustamente trova il favore del tuo pubblico. Poi, suvvia, piazzare là qualche riferimento geek tirato per i capelli, o dirmi chi sono in base all’anime che guardo, non è “parlare di cultura pop”.

E, inoltre, parlare di cultura pop non è fare cultura pop: così come scrivere della guerra non è fare la guerra, o scrivere di politica non è fare politica.

Per dare un contributo sostanziale alla crescita della cultura pop, non ci si può limitare ad essere cronisti-spettatori. Fammi vedere i tuoi approfondimenti, l’analisi sui personaggi, lo studio di autori e autrici, fammi vedere la tua passione per le storie, non solo per le statistiche di Instagram.

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Approfondisci, esercitati nella critica, costruisci un contenuto che dia forma e sostanza a un complesso universo che spazia su molteplici media, che attinge a molteplici culture: che, anzi, ha posto e pone oggi ancora le basi per quella mescolanza tra culture e società che è funzionale alla crescita di una cultura e di una coscienza collettiva globale.

Così facendo, spunteremo anche le armi retoriche di chi si ostina a voler considerare la cultura “alta” qualcosa di lontano e più valido della cultura pop: negli ultimi 50 o 70 anni sono stati i media come cinema, TV, oggi le piattaforme di streaming e i fumetti, a plasmare la società nel suo complesso più di tomi paludati e saggi accademici. L’impatto di Raffaella Carrà, di recente raccontata per l’appunto in un documentario su Disney+, è stato paragonabile a quello di un’importante figura politica: ha sdoganato linguaggi, liberato costumi, ha consentito ad intere categorie di individui di sentirsi finalmente rappresentati. Quanti statisti, o sedicenti tali, possono dire di aver consegnato alla storia un'eredità analoga? (ma del suo documentario e della sua figura parleremo poi)

Poi, naturalmente, c’è anche contenuto e materiale che non sposta in avanti l’asticella: non tutto quanto viene prodotto sotto l’ombrello della cultura pop è destinato a essere ricordato per sempre, o a lasciare il segno. Figurati se non ci piacciono i meme, il cazzeggio, il post scemo.

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Ma saremo noi, se avremo un rapporto sano con questo mondo, ad avere gli strumenti per poter distinguere l’ago nel proverbiale pagliaio: se privilegeremo il contenuto alla FOMO, se daremo spazio alla riflessione invece che alla rincorsa del clickbait, allora cambieremo in meglio il nostro rapporto con la cultura pop e costruiremo spazi migliori in cui possa essere raccontata, analizzata, criticata o quando appropriato esaltata.

E infine concedetemi un ultimo messaggio al pubblico, a chi legge, a chiunque si troverà davanti agli occhi questo messaggio: nonostante le pastoie della SEO, dei social, dei link bloccati dagli algoritmi e dalla voglia di fruire contenuti visivi rapidi e non tutto questo testo. Non siete stanchi di essere presi in giro dal clickbait, da chi punta a farvi arrabbiare, da chi vi tratta come scemi a cui bisogna spiegare anche il finale più banale, da chi punta più al piacere a Google o agli inserzionisti che a voi?

Alla fine sarete voi a scegliere: certo, spesso non è facile perché siamo tutti bombardati di spazzatura, roba che ci prende alla gola e punta ai nostri istinti più bassi. Il buffett è pieno di cibo spazzatura, ma siete voi alla fine che potete dare spazio a quello che per voi conta, a qualcosa che sia migliore. Gli algoritmi e tutto il resto possiamo decidere di educarli, di guardare altro, di dare spazio a qualcosa che valga, che sia stato creato con passione, emozione e non solo perché c’è stata una ricerca su Google Trends.

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Le risoluzioni di inizio anno falliscono quasi tutte, perchè dopo le parole manca la motivazione: manca un piano. Falliscono un po’ meno, secondo le statistiche, le volte in cui non si dice “vorrei fare questo”, ma si cerca di capire perché fare quella cosa, che tipo di persona si vuole essere.

Che tipo di persone volete essere? Che tipo di content creator vorreste essere? Che tipo di contenuti vorreste?

Sto di nuovo partendo col rant del vecchio ormai fuori dai giochi, vero?

 

P.S.

Questo articolo è stato completato grazie al fondamentale apporto di Luca Annunziata, che siccome ama rimanere defilato cito apertamente.

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