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Lan Party, il libro che ti ricorda cosa erano internet e i videogiochi alle soglie del 2000

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Bevande energetiche, goffo machismo, computer beige e un sacco di gente che voleva solo stare assieme grazie ai videogiochi, prima che il mercato si prendesse tutto.

Te li ricordi i Lan Party? Forse se hai più di 30 anni sì. Io ricordo birre scadenti, gente che si passava i porno, i primi AMV di Evangelion, persone che abitavano a mille km di distanza e che probabilmente non parlavano da settimane che improvvisamente diventavano grandi amici.

C’è stata un’epoca in Internet la potevi quasi misurare tutta, in cui a volte era così piccola da rimanere confinata in una stanza, lo spazio finito di una serie di cavi, un router e uno switch.

C’è stata un’epoca in cui la gente si ritrovava e giocava perché i videogiochi glielo permettevano senza problemi, anzi era previsto che i giocatori potessero mettere su i loro server privati e non c’era il costante controllo di società, servizi esterni, soldi da pagare per poter giocare online. Un’epoca in cui alle cose non ti abbonavi, le possedevi e le usavi come ritenevi più giusto.

La possibilità che qualcuno staccasse i server e condannasse un gioco e la sua community, seppure piccola, all’oblio, non esistevano (e infatti, per fortuna, con alcuni vecchi titoli è ancora così).

Lan Party è un libro scritto da Merritt K ed è edito da Read Only Memory, casa editrice pregiatissima che ci ha dato anche volumi dedicati ai Bitmap Brothers, a Street Fighter II, Final Fantasy VII, al BritSoft, agli sviluppatori giapponesi e tanto altro.

È un libro prevalentemente fotografico, zeppo di foto con quei bei colori saturi che venivano fuori con le prime macchinette digitali (ma migliorate per la stampa grazie alla IA) che documentano in maniera perfetta e senza filtri dei primi anni di internet e di un settore che stava diventano sempre più grande, sempre più globale, sempre più competitivo.

E come tutti i libri di questo tipo c’è il rischio che diventi mera nostalgia di una presunta epoca d’oro, ma la verità è che l’occasione è ghiotta proprio per raccontarci come nasce una subcultura e cosa la muove prima che diventi un prodotto da vendere a tutti.

L’epoca dei Lan Party è fatta di gente che si sobbarcava ore di viaggio con un monitor che pesava come un monolite e computer tutt’altro che pieni di neon e cavi colorati per ritrovarsi in scantinati, palazzetti, case, salotti e giocare assieme. Spesso bestemmiando per connettere tra di loro PC e far funzionare protocolli di rete che non erano assolutamente pensati per questo. Le pagine del libro ci portano dunque alle origini di un nerdismo che era lontano dall’essere estetizzato, pur avendo già un suo codice visuale ben preciso fatto di felpacce, magliette metal, scatoloni grigi.

Un nerdismo che era tale non solo perché ti piaceva qualcosa, ma perché eri disposto a sobbarcarti una serie di difficoltà pur di fare quella cosa. Un po’ come Arrakis tempra il fedele, così tutti i casini che dovevi fare per imbastire una lan rendevano quel momento speciale.

Metto le mani avanti: non voglio dire che “ora son tutti i nerd” e fare del vile gatekeeping, sto solo sostenendo che il nerdismo è fatto proprio da quelle persone che vanno avanti nonostante tutto. Chi negli anni ’70 cercava nei negozietti di dischi un vinile inglese introvabile, chi scandagliava libreria per un manuale di GDR quando non li trovavi accanto alle commedie romantiche, chi si comprava un gioco giapponese in importazione parallela e quindi anche chi impazziva per configurare una scheda di rete su un PC dei primi anni 2000. Il nerdismo è ossessione, anche fastidiosa, non è una felpa, non è manco il nozionismo o la foto di un fumetto che ti sei comprato. Il nerdismo è selezione, quella che ti separa dalle persone forse un po’ più sane di testa di te.

Non sto dicendo che usare memmaker sui 386 per far girare dei videogiochi mi ha reso più degno di un ragazzino che oggi con Game Pass si trova una pletora di videogiochi a portata di click. Ma è inevitabile che quella difficoltà abbia formato il mio modo di informarmi e sbattermi sulle cose. Probabilmente lui troverà altre ossessioni (tipo i bambini che su Minecraft fanno cose incredibili).

Ma c’è anche altro. Le pagine del libro mostrano immagini piene di bevande gassate, cavi sparsi, adolescenti che non sanno cosa sia l’igiene personale, pochissime donne. Non c’è il glamour, non c’è la voglia di diventare un brand, non c’è lo scatto instagrammabile. Erano gli albori utopici di una internet che ci avrebbe connesso e fatto divertire, in cui avremmo potuto dire la nostra, sovvertire gli equilibri che fino a quel momento avevano dominato i media e l’informazione. Uno spazio di espressione non mediata, con tutti i pro e i contro del caso, non un luogo in cui ogni tuo singolo interesse o opinione viene analizzata, digerita, inscatolata e venduta. Sembra passato un secolo, ma sono appena vent’anni fa.

Sfogliando le pagine di Lan Party ti ricordi che la tecnologia non è solo qualcosa di asettico, di commercializzabile, ma è soprattutto caos, innovazione, divertimento, confronto. O almeno così dovrebbe essere. E quindi il messaggio del libro non è solo nostalgia, è ricordarti che la tecnologia dovrebbe servirti e non dovresti servivla e che dovresti avere diritto alla "tua" internet, che non sia in manmo all'ennesimo techbro che a un certo punto si mette a spingere teoria complottiste in nome della libertà di espressione.

Bevande energetiche, goffo machismo, computer beige e un sacco di gente che voleva solo stare assieme grazie ai videogiochi, prima che il mercato si prendesse tutto

Sembra però anche una gigantesca festa del liceo in cui quelli che normalmente stavano seduti ai margini hanno improvvisamente conquistato la scena. Che è una cosa bella ma anche no. Il brodo di coltura non solo di un mondo che poi sarebbe stato preso, sfruttato e monetizzato, ma anche purtroppo di un certo tipo di humus arretrato, maschilista, perennemente adolescenziale, cameratesco. Dove l’educazione sessuale e sentimentale avveniva a colpi di porno sgranati e gente che valutava la propria mascolinità in base alle kill. Ogni tanto compare qualche ragazza, ma almeno dalle nostre parti, erano di solito le “compagne di” che passavano un pomeriggio di noia. Mi piace pensare però che all’estero la situazione fosse un po’ diversa, ma vista la considerazione generale per le donne che ha il videogiocatore medio mi sa che è una pia illusione.

Ma a parte tutte queste cose belle e brutte, Lan Party ci ricorda una cosa: che al di là di quello che pensa la maggioranza della gente il videogioco è connessione, non quella dei cavi RJ45 ma quella tra persone, tra simili, tra gente che era persa e si è ritrovata in uno scantinato umido, dentro un palazzetto, in un’aula universitaria.

Ricordo benissimo i miei lan party, le serate di risate, birre e deathmatch con gente che fino a poco tempo prima era solo un nome su uno schermo. I videogiochi erano un volano e il cuore, ma anche una scusa per stare assieme, parlare anche d’altro, farsi passare a vicenda un doposbronza dopo aver dormito su brande improvvisate. Erano quei bellissimi momenti in cui ti sentivi fuori dal mondo, dove quello che ti piaceva aveva un valore, una nicchia che ti eri scavato in un mondo che di solito ti guardava dall’alto.

Ogni generazione ha i suoi momenti così, ogni generazione dovrebbe vivere momenti così, gli spazi che ti ricavi fuori dalle musiche già suonate. Chissà quali sono oggi quegli spazi, spero che ci siano, perché ognuno di noi ha il diritto di sentirsi improvvisamente al centro di qualcosa che prima non c’era.

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