A Highland Song mi ha messo di fronte alle mie paure
Inkle ritorna a distinguersi nel panorama indipendente con un gioco capace di colpire nel segno. Bastano pochi minuti ad A Highland Song per mettere sul piatto un’esperienza in cui fare i conti con sé stessi, affrontando le montagne scozzesi.
Può un gioco portarti ad affrontare vecchi timori e inquietudini? Con A Highland Song la risposta, per me, è sì.
Quand’ero bambino mi sono perso.
Oddio, forse “perso” è un’esagerazione ma è così che mi sono sentito quando, in mezzo a un piccolo giardino, ho smarrito mia madre. La cosa buffa è che mi sarebbe bastato fare qualche passo indietro per ritrovarla ma, al contrario, ho proseguito nel mio cammino attorno al palazzo, prolungando la mia angoscia. Nel mentre piangevo tutte le lacrime che avevo in corpo.
La paura di perdermi l’ho riprovata d’improvviso, anni dopo, una sera durante il ritorno a casa e da una zona, per me nuova, della città. Quella volta avevo sbagliato curva e direzione, immettendomi in una circonvallazione da cui non c’era ritorno.
Vorrei omettere la parte in cui tentai di tornare indietro, piano piano, contromano, ma è una parte importante del racconto. Soprattutto perché fui fermato da due poliziotti che, gentilmente, minacciarono di “sciogliere” la mia patente sul posto. Forse si impietosirono solo davanti ai miei singhiozzi e alla mia paura che, in quell’istante, stava per esplodermi in petto.
Delle indicazioni per tornare che mi diedero, sarò onesto, non ci capii un granché, sconvolto com’ero. Il risultato fu quello ovviamente di perdermi, questa volta in una strada tre volte più buia e che puntava dritta dritta fuori dalla città, verso paesini sconosciuti. Il tutto condito da quello che era ormai un attacco di panico da manuale.
Se oggi vi racconto queste vicende significa che a casa ci son ritornato, ma a quale pro menzionare questi aneddoti conservati nel mio personale cassetto della memoria? Perché A Highland Song mi ha messo di fronte a quella stessa sensazione di smarrimento, costringendomi ad affrontarla una volta e per tutte.
Coraggio
Il gioco ruota interamente attorno a Moira McKinnon, giovane ragazza che non ha mai visto il mare, e che un giorno riceve la lettera dello zio. Nella missiva, un invito a raggiungere il faro in tempo per vivere la festività del Beltane e per una speciale sorpresa. Alla protagonista non serve altro che un po’ di coraggio per avventurarsi tra le montagne scozzesi in cui vive e per dirigersi verso l’ignoto.
Ad Higland Song non serve altro per imbastire la sua idea ludica: che sia per picchi montani o caverne oscure, bisogna raggiungere il traguardo in tempo. È questo tutto quello che serve sapere, insieme a un piccolo tutorial su come orientarsi nelle lande scozzesi.
La meccanica principale si basa sulla raccolta di mappe, bozzetti o stralci di brochure, con dentro dei piccoli rimandi ai dintorni e ai sentieri da seguire. Raggiungendo un picco qualsiasi, è possibile confrontare il proprio raccolto con l’ambientazione, puntando a percorsi e sfide differenti.
Si tratta di una struttura pensata proprio per favorire la replay value del gioco, dato che è fisicamente impossibile conoscere tutti i dintorni alla prima run. Inoltre, all’epilogo tutto l’inventario e le scoperte fatte vengono registrate per puntare a nuove partite, arricchite da una maggiore coscienza. Quello che mi ha personalmente colpito e messo a confronto con una piccola parte sopita di me stesso, è stata però la prima partita.
“Sam. Raggiungimi al faro”
Non importa quanto abbiate compreso del tutorial e quanto ne capirete proseguendo. A Highland Song vi farà sentire smarriti, persi e talvolta persino intimoriti dall’ambiente circostante. Questo è quello che ho provato io, in svariati momenti: la prima volta che ho compreso quanto la pioggia rendesse scivolosa ogni arrampicata, oppure quando Moira mi ha impedito di lasciare una zona, perché era ormai calata la notte e la strada era troppo buia per proseguire oltre.
Come un bambino che muove i primi passi, ho appreso che ogni caduta non controllata erode un po’ di energia vitale, e che la neve invece attutisce ogni capitombolo. Ho ringraziato il cielo di aver trovato un giaciglio al riparo dal vento per dormire, e amato ogni cerbiatto, simbolo di un mini-game in cui attraversare grandi vallate a tempo di musica, macinando strada e progressi.
Ho sentito soprattutto l’inquietudine di sentirmi disperso, senza punti di riferimento e con un leggero senso di panico che mi portava a non ragionare. Durante la mia prima partita, per esempio, ho gettato una giornata intera alle ortiche perché il mio occhio semplicemente rifiutava un sentiero in cui avrei dovuto saltare tra rocce appuntite a diversi metri da terra. A Highland Song mi ha fatto sentire allo scoperto, come se la strada di Moira fosse la mia.
Il meccanismo si è rotto quando, calcolando male un salto, ho fatto un mortale balzo nel vuoto. In quel momento le conseguenze sono state nulle, dato che si riparte con l’energia vitale al massimo e un po’ di tempo della giornata perso (un ciclo giorno/notte scandisce tutto). È stato in quell’istante che l’inquietudine si è spezzata, portandomi a una scelta drastica, ma doverosa: resettare la partita.
Ho ricominciato da capo, stavolta meno sprovveduto e più agguerrito; nonostante il gioco non avesse registrato i miei progressi, era la mia concentrazione ad essere cambiata, la mia percezione dei dettagli circostanti. Alla fine ho raggiunto il faro, il mio traguardo, e la tranquillità di dire che non è mai troppo tardi per cambiare pagina. Per affrontare una vecchia e “imbattibile” paura che, alla fine, è solo un eco distorto e ingigantito di un piccolo sconforto.
Per tutte queste ragioni, per questo rapporto così intenso con l’ambientazione, vero perno del gameplay (quasi fosse Death Stranding), non posso che consigliarvi la conoscenza di Moira, delle montagne scozzesi e del mare. Se riuscirete a vederlo con i vostri occhi.