The Cell, l’inconscio surrealista e Jennifer Lopez
The Cell è il film del 2000 di Tarsem Singh. Fantascienza, horror e un immaginario dark patinato come i video anni '90, con Jennifer Lopez.
Riguardare The Cell di Tarsem Singh dopo molti anni è emozionante. È un cimelio di gioventù che si porta dietro il ricordo di me ventenne sul divano di casa di mia madre, la videocassetta che guardavamo con gli amici dopo qualche serata. Ora non ci sono più né mia madre, né la casa, io di anni ne ho 40 e il film è approdato su Netflix.
Superato l’impatto della nostalgia, mi rendo conto che The Cell mi suscita ancora le stesse sensazioni di vent’anni fa: senso di meraviglia misto a un grosso disagio. Succede perché è un film particolarissimo, visionario, ma allo stesso tempo è anche figlio “del suo tempo”, il 2000. Si tratta di un periodo in cui in un certo cinema di genere – thriller, prima ancora che horror – trionfava un’estetica dark ma patinata, spesso pervasa da quella misoginia che estetizza i corpi nudi di donne morte.
Ma misognia a parte, l’estetica di riferimento di The Cell è quella dei videoclip anni ’90 di Mark Romanek e Floria Sigismondi, come Closer dei Nine Inch Nails e The Beautiful People di Marilyn Manson. Singh a sua volta veniva dal mondo del videoclip, avendone diretto qualcuno come Losing My Religion dei REM. Se nei video anni ’90 il flirt con l’arte contemporanea era evidentissimo, Singh lo ufficializza con il suo esordio al cinema. In The Cell costruisce un immaginario citazionista, ispirato a numerose opere del periodo, a partire dai famigerati animali sezionati di Damien Hirst.
Nonostante la sua bellezza clamorosa, esagerata, The Cell crea disagio perché è un film pieno di contenuti perversamente violenti. Prima parla di un serial killer, mostrandone il modus operandi. Poi gli entra nella mente, rivelandone l’inconscio. Sono contenuti estremi per un film mainstream e penso che difficilmente ne rivedremo mai di simili; sia per la natura un po’ folle del film, sia per il tipo di violenza rappresentata – per fortuna negli ultimi anni è passata quell’ossessione morbosa alla CSI per i cadaveri femminili.
Io però rivendendo The Cell nel 2021 l’ho apprezzato di nuovo, anche se penso che per amarlo davvero sia necessario scontornarne alcuni aspetti, dimenticarseli un momento o quanto meno accettare le sue contraddizioni.
Come sapete già, è un film che parte da uno spunto fantascientifico: esiste una tecnologia che consente alla psicologa Catherine, interpretata da Jennifer Lopez, di entrare nella mente dei pazienti in coma. Lì dentro Catherine si confronta col loro inconscio e con le rappresentazioni simboliche che lo popolano, fornendo l’apparato surrealista del film. Ma quella cifra la ritroviamo anche nella sezione “conscia” della storia, che nel primo atto mostra i complicati rituali del serial killer Stargher (Vincent D’Onofrio). Le due vicende convergono, portando la psicologa nella mente dell’assassino, per scoprire un’informazione essenziale a salvare la prossima vittima.
Si tratta dunque di una struttura che riprende Il silenzio degli innocenti travasandolo in un contesto visionario, in cui la fantascienza è soltanto l’innesco di quello che è in realtà un film dell’orrore prima ancora che un thriller.
Il rewatch mi ha dato lo spunto per alcune riflessioni riguardo alla rappresentazione che fa dell’abuso e della malattia mentale. The Cell contrappone al serial killer un secondo personaggio maschile, il poliziotto interpretato da Vince Vaughn, rendendo esplicito come entrambi abbiano subito abusi sessuali da bambini. A un certo punto, il poliziotto dice alla psicologa che chi è sopravvissuto a un abuso non si trasforma necessariamente in una persona violenta. Questa è la chiave: analizzando gli equilibri della storia, il suo personaggio è lì proprio per dimostrarlo.
Il film esamina la mente del killer incarnandone le fasi evolutive in personaggi differenti. C’è il bambino buono e innocente, ma c’è anche l’uomo adulto, già assassino. Il fatto interessante è che l’adulto non è rappresentato come completamente corrotto. Sembra semmai guidato dalla creatura che diventerà, l’imperatore barocco e mostruoso che caratterizza la seconda metà del film. Tutto è già successo, però: questa non è la storia di una pecorella smarrita che può ancora essere salvata sul piano fisico della realtà. Il personaggio è in coma irreversibile, sospeso in un limbo. Ha già commesso gli omicidi. Il suo arco di redenzione può finire soltanto in un modo.
In questa rappresentazione non è l’uomo stesso a essere cattivo. Gli abusi che ha subito, mostrati nel suo mondo mentale, hanno partecipato alle condizioni che lo hanno reso mostruoso, tra le quali c’è anche una rarissima malattia neurologica. Ma non è un singolo elemento a rendere il serial killer tale, non è nemmeno la malattia da sola: è la complessità della sua situazione.
Una serie di sfumature piuttosto rare al cinema, dove si dà per scontato che una storia non sia scritta bene se ne contiene. Ai corsi di sceneggiatura ti impongono di scegliere: il tuo personaggio è diventato così per questo motivo o per quest’altro? Se rispondi “tutti e due”, ti diranno che non va bene. Ovviamente, ne consegue che il cinema che guardiamo è fatto di storie in cui i personaggi sono spinti da un solo desiderio e hanno un solo obiettivo, un solo difetto fatale e così via. Non so se riflettete mai su quanto questo tipo di struttura ci influenzi psicologicamente nella vita quotidiana, nelle aspettative che abbiamo verso noi stessi e il mondo circostante.
Nonostante una certa sensibilità, The Cell ha vari punti controversi. Finisce comunque per dipingere un quadro che demonizzerà la malattia mentale. D’altra parte, presenta anche un’insolita pietà per il killer, senza rendere per questo meno orribile quello che ha fatto. Il film continua a intervallare la storia con le immagini disperanti della sua nuova prigioniera, che attende la morte nella gabbia da lui costruita. È un contrappunto che ci ricorda continuamente il dolore causato dal personaggio, e lo fa con un corpo vivo, non con quei cadaveri spersonalizzati trasformati da lui in bambole (si potrebbe sospettare che il killer avesse studiato arti visive). Sul lato controverso, va detto che l’assassino è anche abbastanza queer coded, e non di certo in un senso positivo, visto che si rappresenta un kink estremo come parte del rituale di morte.
SEGUIRANNO SPOILER SUL FINALE
La trama prende uno strano bivio nell’ultimo atto. Il poliziotto entra nella mente del killer per salvare la psicologa bloccata lì, ma alla fine lei si salva da sola, aiutata da lui. La storia poliziesca in stile Silenzio degli innocenti prosegue poi con il poliziotto, che salva la ragazza prigioniera. La trama della nostra protagonista principale, Jennifer Lopez, a quel punto prende la sua piega decisiva. L’obiettivo della psicologa è “liberare” parti della mente del killer (il bambino, ma anche l’uomo) dall’imperatore tiranno che ne governa l’inconscio.
Nello scioglimento della vicenda assistiamo a una Jennifer Lopez bella come la Madonna – letteralmente – che tenta un nuovo metodo sperimentale. Ha successo e la “guarigione” del paziente avviene annegando il bambino. È un momento simbolico di purificazione, morte e rinascita; ma alla fine, se ci pensate bene, è solo morte. Il killer completa l’arco di redenzione nel modo più tradizionale e violento possibile. Non è prevista gioia per lui nel limbo del coma, la magnificenza del suo impero decadente è fatta a pezzi dalla protagonista. The Cell riesce a essere peculiare anche in questo: l’uccisione di un ragazzino diventa il gesto eroico di un personaggio interpretato dalla pop-star più un voga dell’epoca.
Insomma, è un film assurdo, pieno di bellezza e disagio. Tra noi penso che ci siano tante persone che l’hanno amato per la sua natura fortemente lisergica. Io senza dubbio sono tra quelle. Rivedendolo oggi, mi colpisce quanto sia improbabile che un film mainstream abbia tutte insieme le caratteristiche di The Cell: oggi non avrebbe molte chance di essere prodotto così com’è. È un caso più unico che raro, sembra incredibile persino che sia stato realizzato.