In the Earth, funghi e folk horror nel nuovo film di Ben Wheatley
Presentato al Sundance Festival, In the Earth è l'ultimo film horror del regista britannico, girato durante la pandemia e intriso di paura.
In the Earth è il nuovo film del regista inglese Ben Wheatley, presentato al Sundance Festival 2021 e ora distribuito in vod. Questo horror è in continuità col resto dell’opera di Weathley, apprezzabile ma non per forza sempre convincente, né per tutti i gusti. Lo stile di Wheatley ha delle specificità che lo rendono particolare e al tempo stesso sfuggente. Uno dei suoi titoli più noti è Kill List (2011), una rilettura del folk horror britannico che ha un’identità autonoma: pur riprendendo il canone, lo esegue con originalità, tant’è che i protagonisti sono due sicari impegnati in una serie di omicidi – e non dei contadini del ’600 o dei borghesi moderni che vanno a visitare le campagne.
Una caratteristica del cinema di Wheatley è quella di raccontare delle situazioni più che delle storie. Non è necessariamente sbagliato come approccio, per quanto i manuali di sceneggiatura affermino il contrario. È un modo in controtendenza con quello che ci si aspetta dal cinema, specie quello di genere in cui Wheatley si muove più di spesso. A volte però può risultare respingente se non addirittura noioso; e non sempre torna la geometria di film come High-Rise (2015) e A Field in England (2013).
E allora, perché guardarlo? Un buon motivo è per liberarsi dalla gabbia creata dalla scrittura più meccanica, quella che funziona ma è sempre troppo uguale a se stessa. A volte sono i film imperfetti ad aiutarci a farlo, più di quelli ragionati allo sfinimento ma mediocri. In the Earth è un low budget scritto e diretto in due settimane ad agosto 2020. Rientra nel solito paradigma di Wheatley, ma questa volta il risultato è più efficace rispetto ad altre occasioni.
In the Earth è nato durante la pandemia, quando Wheatley ha dovuto interrompere l’ingaggio come regista del sequel di Tomb Raider sprofondando nel panico provocatogli dal lockdown. In un certo senso, In the Earth è la storia di un fungo e degli umani che entrano in contatto con esso. Anche nel film c’è una pandemia, ma serve soprattutto a dare il tono iniziale in lugubre connessione col presente: ci mostra subito qualche mascherina e soprattutto la preoccupazione che i personaggi hanno nell’interagire con gli estranei. Questa premessa diventa il pretesto per una storia di isolamento dal mondo contemporaneo, perché l’azione avverrà in una foresta, il luogo dove il fungo abita.
La situazione si svela poco alla volta, dando l’illusione di una vera storia mentre il pubblico riceve le stesse informazioni apprese dal protagonista Martin, interpretato da Joel Fry (già Hizdahr zo Loraq in Game of Thrones). Il cast è ristretto a pochissimi interpreti per non sforare le restrizioni dovute al COVID. Tra loro spicca Reece Shearsmith, volto fondamentale della tv in bilico tra comedy e thriller di Psychoville e Inside N° 9.
In the Earth presenta un alto tasso di folk horror e weird britannici, tant’è che avrebbe funzionato bene nel formato tipico dei Play for Today e di altre antologie della vecchia tv inglese. Come accadeva spesso in quella tradizione televisiva, anche qui c’è un misto di antica superstizione che si ibrida con la tecnologia contemporanea, strumento di chi cerca di studiare un fenomeno incomprensibile – un buon esempio è The Stone Tape e in generale l’opera del suo autore Nigel Kneale.
In the Earth suggerisce il senso di spaesamento dato dal contatto con una forma di vita lontana dall’umano/animale. Essa viene letta come una sorta di spirito della foresta, che spinge la mente dei personaggi a inventare una religione o a riscoprirne di antiche. Ovviamente tutto potrebbe essere il delirio di chi ha inalato troppe spore e il film non vuole dare una risposta univoca alla domanda implicita “ma è reale?”. Come si è detto, non è davvero una storia, è una situazione.
Ci sono momenti gore che costellano l’avventura dei personaggi, scuotendo il ritmo del racconto altrimenti dilatatissimo. Alcune parti sono psichedeliche ma in un modo un po’ sgradevole, con luci intermittenti che possono provocare disagio. Tutta la situazione ricorda un altro piccolo indie di pochi anni fa, They Remain di Philip Gelat (2018), tratto da Laird Barron; l’interpretazione di Wheatley è però più riuscita, proprio per il suo legame con la tradizione inglese.