

David Fincher e la teoria del male liquido
La lezione del cinema di David Fincher, da Se7en a Mindhunter, da The Game a Gone Girl è che il male è ovunque e tutti ne siamo toccati
Sembra pedante doverlo ripetere nuovamente, ma non esiste una storia valida senza un cattivo degno di questo nome. Ce lo ha insegnato Christoper Vogler nel Viaggio dell’eroe, che con i suoi archetipi ha delineato la struttura portante e le coordinate della narrazione, qualsiasi narrazione. Quella che Vogler definisce Ombra è l’antieroe, cioè quella figura che si contrappone all’eroe la sua nemesi. Dopo più di un secolo di cinema, dopo secoli di narrazioni in svariate forme (dal fumetto alla narrativa passando per i poemi) appare ovvio come lo spessore e il peso di una storia è direttamente proporzionale a quello del cattivo. Curioso: l’eroe sembra scontato, talvolta banale. L’antieroe nasconde ancora sfumature dalla strabordante potenzialità.
Nel corso del tempo questa dicotomia ha preso nuove e interessanti strade. Ad esempio, la Pixar, per un lungo periodo, ha quasi del tutto eliminato la figura del cattivo, mettendo al centro l’eroe e le sue idiosincrasie, come se il buono non potesse essere tale in senso assoluto e quindi indagare quelle sfumature di oscurità permetteva di deflagrare in storie in cui l’immedesimazione era molto forte.
Certo, i cattivi quando sono fatti bene elevano l’opera in modi imprevisti. Rimanendo nell’ambito cinematografico, quanto ha pesato la figura di Hannibal Lecter in Il silenzio degli innocenti (o in Manhunter, quel gioiello di Michael Mann che ne è prequel)? Che film sarebbe stato Il cavaliere oscuro senza la complessità che Heath Ledger ha donato al personaggio di Joker (e il discorso può valere per quello interpretato da Joaquin Phoenix)?
Partendo quindi da questo presupposto, mi sono chiesto in che modo, dove e quando la figura del cattivo è stata deframmentata fino a diventare irriconoscibile eppure intrinsecamente presente nelle maglie della storia. La risposta mi è arrivata durante la visione della seconda stagione di Mindhunter, che mi ha permesso di ragionare in questi termini relativamente al cinema di David Fincher.
Nella seconda stagione di Mindhunter si rafforza la tesi portata avanti nella prima: il male è un concetto troppo difficile per essere incasellato. Se notate bene, in Mindhunter e nella storia dei due detective che hanno contribuito negli anni Settanta a creare la “profilazione” dei serial killer, il cattivo è una figura sfuggente. O è ben noto grazie alle interviste portate avanti dai due oppure è un personaggio che attraversa le immagini senza mai rimanervi abbastanza per diventare tale. È un fantasma, un riflesso.
E soprattutto sono i buoni a rispecchiare quegli elementi inquietanti e oscuri dei cosiddetti cattivi. Da questo punto di vista c’è promiscuità: buono e cattivo sono categorie, in Mindhunter, che tendono a sovrapporsi e spesso a fondersi. È la bellezza di questa serie: il male come valore assoluto, come elemento cardine delle nostre società, delle nostre esistenze. Il male come elemento implicito, che passa per osmosi ovunque si posi.
A ripensarci bene, tutto il cinema di Fincher è fondato su questo elemento che potremmo definire male liquido, per rifarci a un termine ben utilizzato da Zygmund Bauman. Senza stare a esaminare ogni singolo film, è facile notare come il suo corpus cinematografico sia una complessa fotografia del male come concetto liquido, come fattore che tutto permea e tutto forma. La tesi stessa portata avanti da John Doe in Seven è dimostrata nella straziante sequenza finale, dove il buono non fa che provare come il male sia in grado di penetrare ovunque, anche dove meno te lo aspetti. Già in Seven, ma a dirla tutta anche in Alien3, le categorie buono e cattivo erano completamente saltate, frantumate.
L’ombra si insinua da una categoria assodata a quella che dovrebbe risultare pura: da John Doe al detective Mills in Seven, da Alien a Ripley che in Alien3 addirittura ha il male nel suo ventre. In The Game questa separazione di categorie si fa ancora meno ovvia e sfuggente. Chi è il cattivo in The Game? Qual è il suo scopo? Ovvio che tutto il percorso intrapreso dal miliardario Nicholas Van Orton (Michael Douglas) ha una sola meta: rivelare la dimensione oscura e malvagia di un uomo che l’ha soppressa per troppo tempo. E finalmente liberarsene. Espellerla, con un salto da un grattacielo. Il male siamo noi. Ed è in Fight Club che questo concetto si fa assoluto perché il protagonista è uno e doppio: il bene e il male, la luce e l’ombra, il buono e il cattivo in un corpo che si sdoppia per poi tornare a essere uno.
È particolarmente curioso pensare al fatto che, in Fincher, il cattivo assuma forme intriganti nelle sue opere più strettamente legate al genere thriller. Zodiac, che per certi versi è l’antitesi di Seven, propone un cattivo che è talmente invisibile e impercettibile nella sua presenza fisica che, con il tempo, diventa immanente. In pratica diventa un concetto. In L’amore bugiardo - Gone Girl la verità si deforma, la realtà muta e alla fine lo spettatore non sa più chi sia il buono e chi sia il cattivo. E così il male non ha più forma, non ha più corpo, non è più un personaggio ma, appunto, diventa liquido, inondando le immagini e permeando tutto e tutti.
Non c’è cattivo, nell’opera di David Fincher. E forse questo è ancora più spaventoso: il male, da queste parti, è il riflesso di noi stessi.
Questo articolo fa parte delle Core Story di N3rdcore di Settembre