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Final Fantasy VII Remake - nonostante tutto, è amore

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Final Fantasy VII Remake è come il piatto che ti preparava tua madre, ma adesso in cucina c'è uno chef stellato, nel bene e nel male è come il piatto che ti preparava tua madre, ma adesso in cucina c'è uno chef stellato, nel bene e nel male

Ho riscritto questo articolo tre volte, come lettere degli innamorati, perché con Final Fantasy VII cos’altro può esserci? È il primo gioco che mi ha fatto piangere, il primo che ha preso un sedicenne tutto Amiga e sala giochi e gli ha mostrato cos’altro si poteva fare con questo linguaggio.

Ed è assurdo pensare che all’inizio il gioco neanche mi piaceva, non ricordo neppure perché lo comprai, probabilmente perché ogni rivista dell’epoca gridava di farlo. Quell’incipit brusco, in cui sei un tizio biondo di cui non sai niente, catapultato in un mondo sconosciuto, tutte quelle nozioni… diciamo che non ero pronto per gli inizi in media res.

Ma dopo aver infornato le mie emozioni per circa sessanta ore ero cotto a puntino, ero uno dei tanti che Cloud, Tifa, Barret, Aerith e soci se li sono portati nel cuore, come un libro caro, come la canzone che ti risollevava nei momenti brutti, come il film della vita. Se la mia generazione ha amato così tanto i videogiochi una delle ragioni si chiama Final Fantasy.

E dunque dopo due anteprime che mi avevano ingolosito arriva il momento, faccio partire il gioco ecco le note del tema principale, la Buster Sword piantata nel terreno, Aerith che mi guarda negli occhi e bum, fregato. Sento le pupille che si dilatano, le mani che stringono il pad e in un attimo sono tornato per un millisecondo un bambino senza ansie, dolori, paure e incombenze. È una sensazione brevissima, ma potente, è la droga a cui torniamo tutti dopo una certa età, in teoria è andata ma… è destino che la storia si ripeta.

Nonostante un dispiegamento di forze impressionante, nonostante la grafica incredibile… le prime ore di Final Fantasy VII Remake mi hanno infatti lasciato freddino. Tutto ciò che non era combattimento (e quanto cavolo è bello, spettacolare e profondo il combattimento!) mi appariva rigido, estetizzato, quasi impagliato. Midgar pareva in una teca che non potevo sfiorare, obbligato a seguire il corridoio immaginario di un museo dei miei ricordi restaurati e arricchiti.

E poi c’è la questione delle parole. Adesso Cloud parla ed appare definitivamente per lo scemo, freddo e distaccato che è (e mi sta molto più antipatico di vent’anni fa), Barrett ha un entusiasmo contagioso e spaccone, Tifa appare sempre calma, rassicurante e pronta all’azione, Aerith… Aerith a un certo punto dice “merda” quando le si rompe una scala!

È un po’ come vedere l’adattamento di un libro, se prima certe sfumature erano suggerite adesso è tutto palese, privo di filtri, non c’è più spazio per la voce del giocatore, resta solo quella dell’autore… o dei pazzi che hanno gestito il doppiaggio inglese stravolgendo ogni tanto la personalità dei protagonisti senza alcun motivo. Ovviamente va benissimo, si guadagna qualcosa, si perde qualcosa.

Non chiamatelo remake
Mentre giocavo mi son chiesto: ha senso chiamare “remake” un’operazione che va oltre il semplice raccontarti di nuovo una storia, ma la stende, la allarga, la definisce e la modifica, soprattutto nel finale? È un po’ come prendere un piatto della tradizione preparato sul fornello della cucina di nonna e passarlo in mano a uno chef stellato che ha disposizione materiali di prima scelta e tecniche moderne. Più che “remake” dovremmo parlare di “rivisitazione”, solo che invece di trovarci nel piatto qualcosa di piccolo e rifinito ecco una pietanza enorme e tutta da gustare.

Le prime ore insieme a Final Fantasy VII Remake le ho passate assieme a un vecchio amico che torna a trovarti e non vede l’ora di raccontarti che vita incredibile ha avuto, quanto sono belli i suoi vestiti e tu all’inizio sei felice di vederlo ma poi lui parla, parla, parla e tu non trovi più spazio all’interno di quella relazione per te stesso.

L’unica cosa che riuscivo ad apprezzare erano i combattimenti, fin da subito esaltanti anche col più scemo dei mostri, per quel misto di azione e strategia che mi aveva già esaltato a Los Angeles (ah i bei tempi in cui si viaggiava per provare videogiochi), per il resto molte parole, poco “gioco” e tante passeggiate e intermezzi, alcuni bellissimi, altri noiosetti.

Poi che è successo? Succede che la magia si è in qualche modo ripetuta.

Final Fantasy VII è un gatto che sale sul tuo letto di nascosto e prima che tu possa infastidirti si è già accoccolato per farti le fusa vicino al cuore. 

Proseguendo ti accorgi che il gioco inizia timidamente ad schiudersi, non solo nell’architettura, ma anche nella storia. Personaggi una volta secondari ti aprono, letteralmente, la loro casa per dare ancora più senso alla lotta ecoterrorista della Avalanche e alla distruzione del Settore 7, sezioni una volta appena accennate diventano un lungo scambio di battute per rifinire il carattere dei personaggi, il corridoio si fa un intrico di strade che uniscono luoghi magici, come il Mercato Murato, forse la sezione che, giustamente viene maggiormente esaltata dall’opulenza visiva del gioco e che rappresenta il punto di snodo in cui inizia ad accelerare, inciampando solo nella sezione del cimitero dei treni, lasciandosi alle spalle difetti che si fanno sempre più piccoli in lontananza.

 

Su tutto aleggia comunque una bizzarra sensazione di amore/odio, probabilmente legata ai gusti che sono un po’ cambiato dal 1997. Di sicuro a causa delle missioni secondarie, abbastanza blande, se non per gli scontri che puntualmente ti aspettano alla fine, e tutto sommato neanche molto interessanti dal punto di vista narrativo, e poi per un ritmo che a volte si strozza da solo alternando epicità a "oddio un'altra cutscene".

Prendiamo come esempio il secondo incontro tra Aerith e Cloud, quando lui piomba dentro la chiesa e poi insieme tornano verso il Distretto 7. Ho odiato ogni secondo di quel passeggiare lento e macchinoso, fatto di passaggi obbligati, scalette e strettoie (dio quanto odio le strettoie di questo gioco), ma allo stesso tempo ho apprezzato i dialoghi tra i due e la scelta di dargli un momento per respirare tra un Firaga e una Megapozione. Però che fatica, però anche che potenza visiva ogni volta che ti guardi attorno.

Sì perché in Final Fantasy VII non c’è un angolo che non ti regali un dettaglio e un motivo per fermarti un attimo a guardare. Certo, tutto è ancora estremamente rigido, con personaggi che ripetono le stesse frasi all’infinito, esplorazioni impacciate, ogni tanto becch sfondi cartonati, qualche texture così così, e muretti invisibili in cui basta una cassa per impedirti di passare, visto che nessuno salta però... funziona, nonstante tutto. Ma poi vogliamo veramente chiedere a una rinarrazione nostalgica di reinventare un genere congelato come i JRPG, in cui anche i più creativi, come Persona 5, si allontanano con cautela dal solco tracciato proprio da Square molti anni fa?

Anzi, ci sarebbe di gioire, perché il bisogno di rendere la trama più compatta e quasi autoconclusiva anticipa determinati meccanismi narrativi dell’originale e la centralità di Sephiroth (che in questo remake appare ancora più terrificante, androgino, bellissimo e divino, considerata l’origine del suo nome) stravolgendo completamente la partenza dai Midgar, sostituendo per esigenze di ritmo un blando addio con un vero e proprio gran finale.

Quindi se da una parte questo remake allunga il brodo, spesso con ottimi motivi, dall’altra compatta le fila del racconto. Il risultato finale è che la Midgar che giochiamo oggi è decisamente più interessante di quella del passato.

Quando finalmente faccio i primi passi fuori dalla città il conto ore ha superato le 50 e non faccio neanche più caso ai momenti in cui mi è venuta la pelle d’oca e in cui ho tenuto gli occhi ben spalancati per cercare di assimilare il più possibile. Di solito quando voglio immediatamente tornare a giocare dopo la parola fine è segno buono e questa volta è successo al primo nome dei titoli di coda.

Final Fantasy VII Remake è la degna celebrazione di un titolo che è ancora in grado di incantare, di metterci sulle sue ginocchia e raccontarci una fiaba fatta di ecologia, coraggio e sacrificio che non ha età. Questa volta è riuscito a commuovermi ancor prima dell’originale, quindi non oso immaginare cosa succederà coi prossimi capitoli.

Siamo di fronte alla dimostrazione che ci sarà sempre spazio per raccontare le belle storie, finché ci sarà qualcuno pronto ad ascoltarle.

Adesso però… come faccio fino al prossimo capitolo?

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