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Come il West mi ha conquistato

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Il lungo processo di fascinazione che ha reso il Western uno dei generi più importanti, vissuto da chi è nato molto dopo la Trilogia del Dollaro

Vorrei poter dire di essere stato uno di quei bambini che corrono nel pomeriggio assolato con un cappellaccio in testa ed in mano una colt di plastica mentre giocano con i suoi amici ad Indiani e Cowboy, ma non è così. In realtà ero quello con gli occhiali seduto all’ombra a leggere Topolino mentre gli altri giocavano a pallone.

Infanzie più o meno idealizzate a parte, la mia generazione, quella che si incammina sulla strada dei 30, non ha subito l’influenza culturale del genere western, almeno non direttamente o consapevolmente.

Il nostro immaginario era fortemente influenzato da quello che passavano i palinsesti pomeridiani di Rai, Mediaset e qualche sfigata rete privata per i coraggiosi che si avventuravano oltre i primi sei tasti del telecomando.

In quell’epoca dalla parvenza civilizzata non era uso esporre giovani menti influenzabili al disinibito utilizzo di armi da fuoco, alcolici e gioco d’azzardo; che io ricordi non c’è mai stato un cartone animato western, a parte Lucky Luke, ma era un prodotto di nicchia rispetto al ben più prolifico Asterix - e anche lì sarebbe interessante analizzare l’influenza che ha avuto sui giovani l’abuso della sostanza stupefacente prodotta dal druido Panoramix, ma non è questo il luogo.

Mio padre invece era un appassionato nel genere e guardava indiscriminatamente tutto, da Sergio Leone a roba discutibile tipo Jonathan degli orsi, disgustosa produzione russa fuori tempo massimo con gli indiani interpretati da cinesi.

Il mio battesimo al genere avvenne, come per molte altre cose, con i Classici del fumetto di Repubblica, la collana antologica che presentava in ordine sparso i più importanti personaggi della storia del fumetto fino ad allora, con qualche interessante volume monografico; il numero 2, nello specifico era dedicato a Tex Willer.

Andavo alle scuole medie, non ricordo che anno, partimmo per un weekend in montagna e non è che avessi chissà quale possibilità di scelta su cosa leggere o fare, così feci la conoscenza di Tex Willer e Kit Carson.

Non ne rimasi immediatamente folgorato. Sì, lo lessi tutto, possibile anche che mi piacque, ma rimasi freddo. Ancora una volta la mia attenzione era orientata verso altro, e come dieci anni prima, erano i supereroi a fare la parte del leone, solo che si era passati dai cartoni animati del sabato mattina a film con attori in carne ed ossa: il Batman di George Clooney, gli X-Men con un magro Hugh Jackman e lo Spider-man di Tobey Maguire.

L’incontro con Tex fu rimandato solo di poco: per cause di ordine e pulizia venne riportata alla luce la storica collezione di Tex di mio padre, comprendente una edizione originale un poco mal messa de La Mano Rossa, lo storico n.1 in formato bonellide. In verità, tra i primi numeri, quelli originali erano pochi sparsi in un mare di ristampe (quelle con i bordi gialli sul dorso). Dato che erano tanti e abbastanza completi, il maniaco completista in erba che era in me si sentì appagato. Così mi misi di impegno e iniziai a leggere Tex con costanza, forse mosso da quel costante e malcelato bisogno di approvazione che avevo in quel periodo.

Fu così che Tex ed io diventammo amici, anche se più che amici intimi il nostro rapporto era più simile a quel caro amico di famiglia con il quale si conversa quando si sta a tavola ma che non vai a cercare per uscire a bere insieme.

Ero ancora giovane all’epoca, ma il richiamo dell’ombra già si faceva sentire; alla vastità del west preferii le nebbie di Londra, al cielo stellato della frontiera un corridoio pieno di mostri, a Lilyth Morgana: diventai uno sfegatato fan di Dylan Dog.

Non frequentavo il west ma mi concedevo qualche visita turistica in occasioni eccezionali: per mio padre vidi Soldato Blu, Piccolo Grande Uomo, Un Uomo Chiamato Cavallo, Corvo Rosso non avrai il mio scalpo, la Trilogia del Dollaro in VHS… poca roba disordinata a cui preferivo cose più contemporanee; Rete 4 mi fece conoscere Pronti a Morire (The Quick and the Dead, Sam Raimi, 1995), Non è un paese per vecchi mi colpì non poco ma c’era qualcosa che non riuscivo ad afferrare e adorai Quel treno per Yuma, il remake di Mangold del 2007 con Russel Crowe e Christian Bale.

Giravano cose western migliori di queste nei miei primi 18 anni di vita? Non ne avevo la più pallida idea, la mia cultura era figlia dei metodi che avevo per conoscerla e del resto giravamo un po’ tutti a cazzo prima dell’arrivo di Facebook nella ridente provincia campana…

2010: ho 19 anni, l’università non ingrana, non riesco a ricordare nemmeno se avessi una ragazza all’epoca ma ero già un videogiocatore incallito (no, le tre cose non erano connesse) grazie alla mia fedele XBOX360 modificata che abbattendo il valore di mercato dei giochi mi permette di giocare praticamente ad ogni cosa uscita sulla scatola delle meraviglie di casa Microsoft. Red Dead Redemption doveva essere “come GTA ma nel far west” ma si rivelò essere la reinvenzione della ruota. Letteralmente, considerando che pochi anni prima era uscito GTA IV, la pecora nera della famiglia.
Non ho intenzione di dilungarmi su come e perché il gioco sia bello, mi limiterò a dire che è stato uno dei titoli che ho giocato di più per quella generazione e di come il west sia entrato nella mia vita da quel gioco. Nè voglio dilungarmi su ciò che sto provando giocando al secondo capitolo.

Certo, non debbo tutto a RDR ma amo considerarlo il mio punto 0, più di tutte le altre false partenze, perché per la prima volta mi sentivo effettivamente coinvolto da quel mondo, ero affascinato dalle vicende e dalle possibilità di quella ambientazione e il gioco riusciva a farmi sentire parte della frontiera.Il colpo finale lo ricevetti, come al solito, per vie traverse ad opera di John Doe, il personaggio di Bartoli e Recchioni. All’inizio della seconda stagione vediamo John dover sostituire Morte come capo della Trapassati inc. e per assolvere completamente a questo compito si reca dall’unico uomo che Morte non è riuscito ad uccidere, un pistolero invincibile con le fattezze di Tex Willer. Al di là di tutti i giochi meta-testuali tipici della serie, prima dello scontro John si lancia in una digressione culturale (molto recchioniana) di come Sergio Leone con Per un pugno di dollari abbia a tutti gli effetti realizzato un remake de La sfida del samurai di Akira Kurosawa.
E lì la mia testa esplose.

Avevo basato tutta la mia esistenza su degli assunti sbagliati, mi ero sempre fermato alla superficie senza andare a scavare, avevo visto sempre solo una parte della realtà, un mondo nuovo mi si aprì davanti agli occhi.

Dovevo mettere in dubbio tutto quello che avevo visto fino ad ora perché c’è sempre una parte rivelata esteriore e una parte nascosta, sotto il cofano, fatta di personaggi, topoi, che sono ricorrenti e che assemblati insieme più o meno bene danno origine a nuove storie, nuovi mondi, vecchi mondi ma con qualcosa di nuovo da dire, mondi all’apparenza nuovi che in realtà sono qualcosa di già visto e tirato a lucido.
Fu così che iniziai veramente a divertirmi.

Il mio divertimento consisteva nello scomporre e analizzare qualsiasi cosa vedessi per capirne i meccanismi intrinsechi.

In alcuni personaggi e situazioni, il West era presente in maniera evidente, in altri più o meno celata. In altre situazioni il genere western era solo l’immagine di copertina per nascondere le vere intenzioni dell’autore.

L’esempio più lampante sono le due opere più recenti di Quentin Tarantino.
Django Unchained fu venduto a tutti come un omaggio del maestro del cinema postmoderno al genere degli spaghetti western ma non è nulla di più falso; sotto la maschera è a tutti gli effetti un appartenente al genere della blaxploitation.

The Hatefull Eight è ancora meno western del precedente, essendo più simile ad un dramma teatrale a la Dieci piccoli indiani che strizza l’occhio a Carpenter.

Tasselli. Pezzi che si andavano ricomponendo nella mia mente a formare un quadro ben preciso secondo il quale il potere delle storie è più forte di un genere o di una ambientazione e chi sa veramente farlo può raccontare qualsiasi storia in qualsiasi modo.

Per la cronaca, l’unico vero western di Tarantino è Kill Bill.

E ancora, Carpenter: Distretto 13 è un chiaro remake di Assalto a Fort Apache e chiunque lo omaggi con una situazione di stallo dove “buoni” e “cattivi” sono bloccati e costretti a collaborare a causa dell’assedio dei “cattivissimi” fa un western. Sì, anche l’ultima puntata della sesta stagione di Coliandro.

Banshee, per la quale stravedo, parte dallo stesso presupposto di Lo chiamavano Trinità, e ci sono anche gli Amish.

Westworld: la prima stagione è molto migliore della seconda perché nonostante sia venduto come un prodotto di fantascienza, la componente western era quella che funzionava meglio e faceva scorrere il prodotto meglio nonostante alcune incertezze nello svolgimento della trama che facevano restare perplessi.

Un ragionamento che si può operare su diversi prodotti, a diversi livelli, ma se lo sto facendo sul western c’è un motivo: il western prima non mi piaceva perché non lo capivo, non era abbastanza evasivo, non provavo affinità con le tematiche, con i personaggi, l’ambientazione per quanto esotica mi lasciava indifferente ma il ribaltamento di prospettiva è stato un mezzo shock; per dire, ho portato mio padre a vedere il remake de I magnifici sette, inutile dire che lui era entusiasta mentre io ero solo contento che si fosse divertito lui; ho trovato insopportabile la posa da western crepuscolare data a Logan perché mi sapeva di finto; nelle mie notti solitarie madrilene con un poke del giapponese sotto casa e una birra per conforto guardai I Magnifici Sette (l’originale stavolta), Winchester ’73, Shane… Mi sono commosso su Shane nonostante volessi far tacere quel cazzo di bambino.

E ancora, il western contemporaneo di Taylor Sheridan, Hell or High Water.

Mi sono ritrovato un tipo da western e non me ne sono nemmeno reso conto al punto tale da prenotare la più costosa delle collector’s Edition di Red Dead Redemption 2 il giorno 16 agosto appena ritornato dal mare, e sto aspettando il 26 di ottobre pianificando attentamente film, serie televisive e letture appositamente per sentire maggiormente il mood del gioco. Dubito mi fosse mai successo.Perché in fin dei conti il west non è un posto come, non so, la Terra di Mezzo o la Galassia Lontana Lontana, non possiamo nascondere il nostro essere sotto un archetipo che lo camuffi, come ci insegna (la parte buona di) Westworld, man mano che ci addentriamo la nostra vera natura esce fuori e diventa tutto molto collegato a quello che ammettiamo di noi stessi e a quanto siamo disposti a scendere a compromessi con ciò che siamo realmente.

Il mio percorso per apprezzare il western è stato verso una consapevolezza maggiore verso un po’ tutto quello che leggevo e guardavo, un progressivo maturare il mio senso critico e liberarlo dalle imposizioni dei dictat. Il fatto che il primo Red Dead Redemption sia stato il punto di partenza di tanti ragionamenti mi fa aspettare con molta ansia questo sequel, nella speranza che mi faccia compiere un ulteriore passo in avanti verso una più profonda comprensione del variopinto affresco di umanità che mi circonda.

Male che vada, sarà solo un altro bel gioco.

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