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We Are The World – La notte che ha cambiato il Pop

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Una quarantina di star incredibili riunite in una stanza per incidere una canzone nello spazio di una nottata, un progetto che poteva naufragare mille volte e invece miracolosamente va in porto. Arriva su Netflix un bel documentario sul dietro le quinte di We are the world, che racconta il volto umano di personaggi che hanno fatto la storia della musica.

Ci sono momenti particolari nella musica pop internazionale che hanno fatto semplicemente la storia: per esempio il concerto di Freddie Mercury al Live Aid, o il primo moonwalk di Michael Jackson, passando per lo smascheramento di finti artisti come i Milli Vanilli.

Non nascondo che in questi frangenti si attiva una parte ben precisa della mia curiosità, perché di solito pensiamo solo a fruire della musica tralasciando tanti aspetti, umani, artistici o banalmente logistici, che possono fare la differenza tra successo e fallimento.

Cosa accade dentro la sala di registrazione? Cosa passa per la testa di un cantante mentre intona qualcosa che sta ancora prendendo la sua forma finale? Di solito per comprendere un certo tipo di esperienza bisognerebbe provarla in prima persona, oppure consumare tutte le documentazioni disponibili.

Tra le più recenti in tal senso c’è l’ottimo documentario We Are The World: La notte che ha cambiato il Pop, approdato nel catalogo Netflix, in cui scoprire la genesi e la registrazione del brano pubblicato per l’associazione benefica Usa for Africa.

La canzone nata per raccogliere fondi e far fronte alla carestia della popolazione etiope. Oltre il nobile scopo dell’operazione, ecco le ragioni perché questo documentario è un prodotto senz’altro prezioso.

Effetto farfalla

Considerando che We Are The World è stato inciso alla fine del 1984 e pubblicato nei mesi successivi successive, questo dicembre saranno ben 40 anni dalla riuscita di un’operazione senz’altro complessa da architettare.

Come il documentario chiarisce, il primo tassello di tutto si muove in realtà in Inghilterra, grazie al supergruppo britannico Band Aid creato da Bob Geldof, che registra la canzone “Do They Know It's Christmas?” per la crisi in Etiopia.

Tra gli artisti coinvolti semplicemente i più grandi: da Bono Vox a Phil Collins, passando per Paul McCartney e George Michael; quest’ultimo ha provato emozioni contrastanti a vedere il singolo balzare al primo posto, precludendogli un perfetto poker che si sarebbe chiuso con la ormai sempiterna Last Christmas (proprio quella del Whamaggeddon).

Una storia che potreste approfondire con il documentario Wham sempre del catalogo Netflix.

Tornando negli USA, è l’artista afroamericano Harry Belafonte, attivissimo sul fronte politico, a sentenziare un “dobbiamo salvare la nostra gente”. Ispirandosi alla Band Aid, l’obiettivo è ripetere l’iniziativa con artisti del mercato a stelle e strisce.
We Are The World
La macchina organizzativa parte rapidamente, e vengono subito coinvolti i migliori a disposizione: Quincy Jones come produttore e Lionel Richie, sulla cresta dell’onda della sua carriera solista post-Commodore, per la scrittura del brano insieme a Stevie Wonder. Quest’ultimo, però, non risulta raggiungibile per giorni, e il nuovo indiziato diventa subito Michael Jackson, capace di incantare tutti con Thriller.

Lasciati gli artisti della Motown al loro processo creativo, è tempo di scegliere luogo e data della registrazione. Trovare però un punto di incontro tra tour e calendari pieni di impegni per i mesi a venire è impossibile, a meno che tutti non siano riuniti in un posto per un particolare motivo.

La fortuna sorride a Belafonte e i suoi, dato che quel motivo è rappresentato dalla dodicesima manifestazione degli American Music Awards, prevista a Los Angeles da lì a poche settimane.

I migliori sono quasi tutti presenti: da Dionne Warwick a Tina Turner, passando per Steve Perry dei Journey e Cyndi Lauper. Il piano è quello di far spostare tutti gli interpreti alla sala di registrazione dopo le premiazioni. L’impresa è fattibile, ma c’è una sola notte per riuscirci.

Ego

Non volendomi dilungare troppo nelle anticipazioni, è chiaro che il punto forte del documentario sono proprio gli eventi attorno alla registrazione effettiva del brano, che viene completato, ripulito e registrato durante l’arco di una manciata d’ore, di notte.

Il tutto con le tecnologie del periodo e con una stanza piena di star dal carattere potenzialmente esplosivo, soprattutto se non approcciate per il verso giusto. Come se non bastasse, all’interno dello studio c’erano anche cameran e tecnici delle luci per registrare il videoclip del singolo.

Le possibilità di errore erano altissime ed è qui che emerge con più chiarezza il talento di Quincy Jones nel gestire con pazienza ogni cosa: per esempio coinvolgendo il creatore di Band Aid, Bob Geldof, per ricordare lo scopo del brano e le emozioni che ogni artista doveva mettere in quelle ore.

Il gesto passato agli annali è però il foglio scritto da Jones, e appeso nella sala di registrazione, che recitava il monito “lasciate l’ego fuori da questa stanza”.

We Are The World

Il punto di questo messaggio non era tanto quello di evitare i comportamenti eccessivi o stravaganti da primadonna di un solista (il documentario stesso accenna giusto un paio di episodi limite, ma nulla più), quanto stimolare l’accettazione non scontata a comportarsi da gregario per chi vive le luci della ribalta.

Per esempio, Stevie Wonder, rimasto escluso dalla composizione del brano per puro caso, proverà a fare delle proposte di modifica durante la registrazione stessa, scatenando un banco di discussione confusionario. Per capire quanto la più piccola delle osservazioni potesse portare tutto alla deriva, risulta chiave un’espressione di Lionel Richie:
L’unica cosa da non fare è rispondere a una domanda con ‘non saprei, tu cosa ne pensi?’. Con 44 artisti in una stanza, avrei avuto 44 versioni diverse di We Are The World”. (Altro momento assurdo, Wailon Jennings che se ne va sulle osservazioni di Wonder o Prince che decide di non venire e Sheila E. che si accorge quindi che era là solo come esca per farlo salire a bordo ndLorenzo)

Lorenzo Fantoni
Da amante dei dietro le quinte e dei processi produttivi ho adorato questo documentario, sia perchè mi ha permesso di sfiorare l’enorme mole di tensione, dettagli e organizzazione necessari per creare questo piccolo miracolo, sia per l’umanità di uno stardom senza senso ma anche per ritrovare quell’ingenuo senso di positivismo degli anni ‘80. Quando si pensava realmente di poter fare la differenza, quando nessuno si sarebbe mai messo in testa di dire a degli artisti che dovevano stare fuori da questioni politiche come la fame nel mondo, quando pensavamo che in qualche modo tutto si sarebbe risolto nel futuro. In tutto questo poi amo tantissimo la figura di Huey Lewis, che se la fa sotto a cantare dopo Michael Jackson e tira fuori una performance da brividi.

Le origini di un meme

Oltre le ragioni legate alla produzione, penso che la curiosità verso certi prodotti sia mossa anche dal vedere come si comporta un artista quando messo sotto pressione.

In tal senso, il momento più emozionante riguarda Bob Dylan, carico delle aspettative di tutti i partecipanti al progetto, data l’aura leggendaria che lo circondava. Dylan, come giustamente rimarcato dal documentario, è “l’artista impegnato” per eccellenza, eppure in quella sala appare come il simbolo stesso del disagio, anche a causa del talento canoro degli altri partecipanti.
We Are The World

In rete circola un meme abbastanza divertente in cui si scherza sull’espressione perennemente basita di Dylan, visibile durante le incisioni del coro che avvengono praticamente all’inizio della celebre notte.

Nonostante la sua mente sia stata in grado di partorire Knockin’ On Heaven’s Door e Blowin’ In The Wind, Dylan appare come il porta borracce di una squadra di football americano durante la foto per l’annuario scolastico.

Totalmente fuori dalla sua comfort zone, Dylan non riuscirà ad emettere dei suoni validi neanche durante la registrazione delle fasi soliste, ed è qui che interviene la straordinarietà di Stevie Wonder, il quale interpreta l’intera canzone imitando perfettamente la voce del cantautore.

Vorrei rimarcare per bene questo messaggio: in We Are The World sentiamo Bob Dylan che, dopo ore di mutismo, riesce a cantare perché imita Stevie Wonder che imita Bob Dylan. Se ciò non fosse di per sé meraviglioso, allora basta accontentarsi di vedere i sorrisi del cantautore quando finalmente riesce ad approcciare il brano “con il suo stile” e completare la sua parte. Perfino un futuro premio Nobel riesce a trasmettere una tenerezza a dir poco emozionante.

In conclusione, è proprio grazie a questi momenti che il documentario targato Netflix riesce a trasmettere una deliziosa genuinità, impreziosita non solo dalla nobile ragion d’essere di un brano storico, ma anche grazie all’umanità dei suoi interpreti.

Cantanti che si sono trovati insieme, lasciando da parte le individualità di un mercato già competitivo negli anni ‘80, e che hanno dato vita a qualcosa in grado di sopravvivere alla prova del tempo.

 

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