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Unbreakable. Quando il fumetto era infrangibile, nel 2000.

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Unbreakable di Night M. Shyamalan, apparso nel fatidico 2000, ha rappresentato una nuova visione del supereroe al cinema.

 

Unbreakable è da sempre stato uno dei film che più mi hanno affascinato. In questo 2020 che raddoppia, graficamente, il 2 e lo 0 che segnano questo nuovo inizio di millennio, Nerdcore torna a ragionare sul 2020. Cosa resterà di questi anni zero?

Unbreakable
, finora, è restato. Tanto è vero che, in questo scorcio di anni '10 appena conclusi, ha dato vita a una tardiva trilogia. Prima con Split (di cui ho scritto qui), poi con Glass nel 2019 (ne ho scritto qui).
Una trilogia quasi fuori tempo massimo, con uno iato di diciassette anni tra il primo e il sequel.
Una trilogia scalena: il secondo episodio si rivela un sequel solo nel finale a sorpresa (il marchio di fabbrica di Shyamalan). Il terzo trae - per ora - le fila con uno sviluppo che scarta subito dalle possibili attese. Il finale - a sorpresa, è ovvio - apre a nuove complicazioni e possibili continuazioni (salvo valutazioni sul botteghino, chiaramente).

In quell'anno 2000 ero un giovane neolaureato in lettere, svolgevo il servizio civile presso la Biblioteca della mia città in attesa di affrontare il lungo percorso per l'insegnamento. Già allora mi caratterizzava la passione per il fumetto, italiano in particolare, ma non solo. E quel film che parlava di supereroi non passò inosservato.

Di M. Night Shyamalan, giovane promessa del cinema americano di origini indiane, conoscevo - come tutti - l'exploit dell'anno precedente, Il sesto senso (1999), che aveva ottenuto un notevole successo. L'avevo apprezzato moderatamente: buone atmosfere, ma che avevo visto come una buona esecuzione di numerosi topoi di storie di fantasmi. Anche il "finale a sorpresa" (che non sapevo ancora essere la scelta stilistica dell'autore) non mi aveva colpito così tanto, facendo parte della tradizione del genere fin dai suoi esordi ottocenteschi. Molti ci vedono una ripresa di "Il giro di vite" (1898) di Henry James, che però punta più a un clima di indeterminatezza non risolto, e quindi più perturbante. Non a caso, nel 2001 sarebbe stato a sua volta liberamente adattato in The Others.

Unbreakable

Di Unbreakable sapevo solo essere un film di supereroi. In italiano non era stato tradotto - consuetudine che si andava consolidando in quel periodo. Però, indizio della natura non ancora completa della scelta, si era affiancato un "Il predestinato", che avrebbe potuto mettere in discussione l'idea di un film supereroico aproblematico. Fortunatamente non colsi l'indizio, e la sorpresa fu quindi notevole. Bruce Willis, infatti, sebbene già protagonista del precedente film, e là in un ruolo "fuori del suo umore", qui tornava apparentemente alla sua parte congeniale, di stampo muscolare: quello dell'indistruttibile supereroe David Dunn.

Muscolare di qualità, spesso: come in alcuni dei miei film preferiti, allora e oggi, da Die Hard all'Esercito delle 12 scimmie, fino a Il quinto elemento. Qui invece il Willis muscolare, naturalmente (super)eroico veniva decostruito radicalmente. E l'antagonista Elijah Price, interpretato da Samuel L. Jackson, era un personaggio che mi affascinava profondamente. Era quello che avrei voluto diventare nei miei sogni. E iniziavo a comprendere che non c'era molto margine realistico per renderlo una professione. Un critico. Un critico di fumetti. Un critico di fumetti con una visione esoterica.

Unbreakable

"I've studied the form of comics intimately. I've spent a third of my life in a hospital bed with nothing else to do but read. I believe comics are our last link to an ancient way of passing on history. The Egyptians drew on walls. Countries all over the world still pass on knowledge through pictorial forms. I believe comics are a form of history that someone somewhere felt or experienced. Then of course those experiences and that history got chewed up in the commercial machine, got jazzed up made titillating, cartooned for the sale rack."

"Ho studiato a fondo il fumetto come forma espressiva. Ho passato un terzo della mia vita in un letto di ospedale senz'altro da fare che leggere. Ritengo i fumetti il nostro ultimo legame con una maniera antica di tramandare la storia. Gli egiziani disegnavano sui muri. C'è ancora nel mondo chi tramanda la conoscenza attraverso forme pittoriche. I fumetti potrebbero essere una forma di cui qualcuno in qualche luogo ha avuto percezione o esperienza. In seguito quelle esperienze e quella storia stritolavano la loro macchina commerciale e sono state resi avvincenti, vivacizzate, trasformate in vignette per la vendita."

Il parallelo nobilitante con gli antichi Egizi affiorava spesso nel fumetto, rifiutato da alcuni, difeso da altri. Fino a che una pietra miliare come Understanding Comics (1993) di Scott McCloud - riprendendo in modo più sistematico alcune intuizioni di Will Eisner - metteva definitivamente in discussione l'idea di Yellow Kid come "primo fumetto", alle soglie del suo centesimo compleanno. In qualche modo, Shyamalan - soggettista e sceneggiatore qui, oltre che regista - intesseva la sua storia sugli archetipi con uno dei pilastri della rilettura del medium, che entusiasmava gli appassionati in quegli anni (uno sviluppo ripreso, in certo modo nell'ultimo film).

Per tale ragione, il rovesciamento finale di Unbreakable - in sé abbastanza attendibile - mi colpì con più forza di quanta, narrativamente, ne abbia, essendo in fondo un semplice avverarsi del tropo precisato all'inizio, la simmetria di eroe e antagonista nei comics.

Hooded Justice

Forse lo trovai un po' deludente proprio in quel suo inverarsi di un meccanismo "automatico" che, in altre opere, divenne talvolta la condanna di un autore interessante, condannatosi a questa cifra stilistica non sempre riuscita. Il vero finale a sorpesa, in Shyamalan, sarebbe l'assenza di finale a sorpresa. Ma forse Unbreakable era riuscito anche a cogliere il me stesso ventitreenne con la guardia abbassata, e parte del dispiacere derivava dalla speranza di un finale più positivo per un personaggio così seducente.

Non ero nuovo, ovviamente, alla decostruzione del supereroe, che avevo conosciuto tramite i "sacri testi" del 1986, il Watchmen di Alan Moore (inauguratore del discorso, con V for Vendetta e Capitan Britannia) e il Cavaliere Oscuro di Frank Miller, che avevo letto in biblioteca nei primi anni '90 nella edizione della Milano Libri. E forse, nel finale, l'eroe incappucciato che appare poi sui giornali ricorda un po' Hooded Justice, il primo supereroe dei Watchmen. Mi affascinava però vederla affermarsi anche nell'ambito filmico, che ritenevo precluso a discorsi metanarrativi complessi nei cinecomics (che ancora non esistevano, e poi sarebbero divenuti legione, con gli sviluppi della computer graphic e le insicurezze post-11/9/2011 bisognose di compensazioni fantastiche). Michele Medda, sceneggiatore che apprezzavo e apprezzo molto, fu ai tempi, ricordo, molto critico con questa visione "cupa" dell'eroe (che tuttavia aveva sviluppato, a suo modo, in Nathan Never, certo però non superomistico) in un bel pezzo critico che ipotizzava il ritorno di una visione più solare dei supereroi. In verità, negli anni a venire le due linee si sarebbero alternate; e, al cinema, si sarebbero incarnate nei cupi film DC contro i colorati film Marvel, semplificando all'estremo (qui un notevole pezzo sul concetto attuale di supereroe).

Così, ancora oggi, a distanza di tempo, Unbreakable mi pare un punto importante nel discorso sul superoismo fumettistico al cinema e non solo, che perfino Shyamalan, nelle sue opere susseguenti, non ha superato.

 

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