Spoof contro Cinecomic, il tramonto della parodia cinematografica
Un tempo popolarissimo, il genere delle parodie cinematografie e spari piano piano dagli schermi. Un po' è passata la moda, un po' sono i film stessi a farsi la parodia da soli
Superhero – Il più dotato dei supereroi è un film del 2008. Il titolo è un adattamento italiano scollacciato del semplice Superhero Movie originale, tra l’altro non molto giustificato dato che già in Italia andava abbastanza forte la controparte parodia-horror Scary Movie, senza bisogno di particolari aggiustamenti di distribuzione.
È una soluzione – l'originale – piuttosto efficace: un titolo che rimanda al concetto di archetipo, di topos, di luogo comune, elementi che spesso, ribaltati con saggezza, portano proprio all’effetto comico. La riflessione da cui parte tutto è che oggi, specie in ambito supereroistico, l’aspetto comico è insito nel canovaccio del film vero e proprio, nel prodotto generico, e soprattutto vale – ma non solo – per i prodotti di scuola Marvel.
Chiaro che questo atteggiamento fa sì che lo spoof (genere con passato glorioso soprattutto per chi è cresciuto negli anni ’70-’80, tra i vari Aerei più pazzi del mondo, Pallottole Spuntate, Hot Shots e, soprattutto, il seminale e sottovalutato Top Secret, a parere di chi scrive un autentico capolavoro di scrittura demenziale. Perché sì, il demenziale è un genere e richiede abilità e competenza proprio come tutti gli altri) diventi al giorno d’oggi poco necessario, e debba cambiare aspetto e canali di diffusione.
Supereroi autoironici
C’è ancora bisogno di ridere, ma oggi i supereroi ridono di sé. Ed è, probabilmente, uno dei grandi motivi del successo dei cinecomic odierni: Thor e Iron Man pronunciano al cinema le stesse facezie, che prima, grossomodo, uscivano dalla bocca di chi i supereroi li detestava e li derideva . Dalla messa alla berlina dei costumi di foggia pittoresca alle abitudini sessuali o scatologiche dei superuomini e delle superdonne, perché in fondo, si sa, “pure loro di queste cose ne avranno bisogno”. Ieri era per ridere, oggi per “umanizzarli”. Chi voleva l’epica dei fumetti desiste o si adatta, e il carrozzone va avanti, anche con grande successo. E con delle istanze corrette, almeno nelle intenzioni, come ad esempio la parità di genere ed etnia che tanto fa parlare in concomitanza con le ultime uscite (Black Panther, Captain Marvel) e che i lettori di fumetti invece danno per acquisita già da tempo, calcolando che Pantera Nera esiste dal 1966 e che la prima Capitan Marvel donna (e nera. Piglia, incarta e porta a casa), alias Monica Rambeau, fa la sua prima apparizione sulle pagine di Amazing Spider-Man nel 1982.Interessante notare come nel genere parodistico tradizionale le suddette istanze apparissero già da tempo. Pensiamo a Dorothy, il C3-PO femmina di Balle Spaziali, e a quanto di lei si ritrovi nell’agguerrita L3-37 di Solo: a Star Wars Story, che non solo viene corteggiata dal pansessuale Lando Calrissian ma si può permettere pure di “friendzonarlo”, mettendo in luce tutta la sua indipendenza di droide e di femmina. Ma anche, tornando più propriamente al genere supereroistico, proprio al Mr. Xavier di Superhero Movie, interpretato dall’afroamericano Tracy Morgan. Insomma, i fumetti, e la parodia, a certe cose, ci sono arrivati prima. E attenzione, non si trattava di caricature, era il semplice fatto di modificare il genere o l’etnia di un personaggio a risultare un elemento pittoresco, in sostanza, a “far ridere”.
Mel Brooks, con il suo sceriffo nero di Mezzogiorno e mezzo di fuoco, ci ha regalato momenti di grande riflessione che al contempo risultavano sinceramente esilaranti. Oggi nessuno ride di fronte a Miles Morales, lo Spider-Man afro latino, ed è giusto così. Ma Miles Morales non è “il Peter Parker nero”, così come John Henry Irons, aka Acciaio, venuto fuori con l’ondata di Supermen alternativi che si sostituirono a Clark Kent dopo al sua morte per mano di Doomsday negli anni ’90, non era “Il Superman nero”. Sono due personaggi dalla pelle nera che indossano un’uniforme con dignità e classe, come tutti possono indossarla.
Come le vituperate Ghostbusters di Paul Feig possono indossare la loro, dato che sono preparate e toste come i predecessori uomini di un altro universo (tra l’altro, nei fumetti i due gruppi incrociano spesso i destini, e i flussi, ed è bellissimo come al cinema non lo vedremo mai). E, sì, naturalmente, come Carol Danvers può indossare il costume di Capitan Marvel, senza essere Mar-vell. Anche se… no, fermiamoci, stiamo andando fuori tema. Il punto è che non fa ridere, né in un senso né in un altro, né c’è l’intenzione di far ridere, in questo caso.
Ma in quello stesso universo cinematografico un personaggio che in origine è tinteggiato come serioso e autorevole, il Doctor Strange, si mette all’improvviso a parlare di gelati con Hulk nel bel mezzo dell’Apocalisse, per spezzare la tensione.
Tra ironia e parodia
In molti casi l’ironia è insita nella trama. È, diciamo, un elemento “diegetico”. C’è un personaggio ironico e quel personaggio può fare battute, così come un chitarrista in un film può mettersi a suonare e noi sentiamo quello che suona. Pensiamo a Spider-Man, che è sempre stato caratterizzato da questo suo atteggiamento fintamente scanzonato (si tratta, in verità, come confessa spesso nelle storie a fumetti, di un modo per esorcizzare il suo terrore quando si trova faccia a faccia col nemico). Ma anche ad Han Solo o ai siparietti tra droidi della trilogia classica di Star Wars. Elementi che ci sono sempre stati, dati per acquisiti e anche apprezzati dal pubblico, da sempre. La parodia è un genere diverso. Viene dall’esterno. È l’occhio del regista, e con lui quello dello spettatore – se la accetta, ma non è obbligato – a guardare le cose da una prospettiva diversa, e a scatenare la risata.https://www.youtube.com/watch?v=W9Hqv4ALmHI
Come ad esempio quando un motore di astronave, una volta allargata l’inquadratura, si rivela essere semplicemente un ferro da stiro . Una trovata che non avrebbe sfigurato proprio in Balle Spaziali, e che tuttavia Rian Johnson inserisce con nonchalance all’interno del suo dissacrante Episodio VIII, Gli ultimi Jedi, insieme a mille anticlimax – uno su tutti, Luke che si getta la spada laser offerta da Rey come fosse immondizia alle spalle proprio nel momento in cui ci aspettiamo che invece che reagisca in maniera drammatica, potente e significativa.Il tutto senza alcun commento sonoro di sorta, come se fosse una commedia slapstick – e mandando su tutte le furie gli appassionati più tradizionalisti. Gli stessi, in molti casi, che invece ridono quando ad Iron Man si smonta l’armatura “nel momento culminante del finale travolgente”, per citare Raffaele Cutolo. Perché? Viene da chiedersi. Una risposta possibile è il livello di “sacralità” con cui un franchise viene percepito dal grosso del suo pubblico. E il pubblico è quello del cinema. Che con Star Wars ci è cresciuto, lo ha amato, lo ha idealizzato, culturalizzato, interiorizzato.
Su Star Wars, insomma, non si scherza (se non in separata sede e con i dovuti accorgimenti.
Balle Spaziali, infatti, è sempre molto apprezzato, quando tutti sanno che si tratta di un "fuori canone" e che non è da considerarsi come parte integrante del corpus mitico). Sui fumetti, invece, via libera alla risata. Perché il pubblico del cinema – la sua grande maggioranza, si intende – i fumetti li ha letti poco, e sempre considerati come roba poco seria , per bambini, con cui trastullarsi e a cui attribuire il significato di un semplice passatempo.
Giocare d'anticipo
Ben venga dunque che ci sia ironia, perché altrimenti, dai, “il superuomo non sarebbe credibile”. Quindi applausi a scena aperta sia di fronte all’umorismo più raffinato (Thor che specifica che il suo fratello cattivo Loki è adottato, per prendere le distanze dal suo nefasto operato) che a quello di grana più grossa (le varie minzioni nell’armatura di Iron Man o defecatio maleodoranti del terribile villain Mandarino, presentate quasi fossero il suo misfatto più esecrabile). Finché non arriva Thor: Ragnarok, che dello spoof fa una bandiera ed è figlio diretto di quegli applausi. Con la colonna sonora eurodance ad accompagnare la fuga in astronave dall’”ano del diavolo” – come viene definito un corridoio dimensionale interplanetario nel film –verrebbe quasi da pensare a un cinepanettone dei nostri se non fosse improbabile – ma non si può mai dire – che il regista Taika Waititi ne abbia mai visto uno. In Ragnarok è tutto chiaro, evidente e in un certo qual modo onesto: se dobbiamo fare cazzate, facciamole col botto . Colori accesi e stile camp – come nei Batman di Schumacher, che pure facevano largo uso dell’ironia ma anche in grande anticipo sui tempi, cosa che risultò traumatica e indigesta per chi veniva dalla visione a tinte fosche di Tim Burton – ritmo pepato, macchiettismo, parolacce, scemenze. C’è di tutto. E paradossalmente funziona perché siamo proprio al confine con la parodia, mettendo in luce tra l’altro il poco considerato – se non proprio nel Ghostbusters al femminile di cui sopra – talento comico di Chris Hemsworth . Un bello che fa ridere è cosa rara, e in questo senso viene in mente proprio il Val Kilmer di Top Secret e di Batman Forever. Ebbene, Ragnarok ha diviso il pubblico, eppure è la linea di demarcazione. È evidente, ormai, che per la parodia pura non c’è più spazio. Lo fa la Disney stessa prima che lo faccia qualcun altro. Prevenire è meglio che curare e d’altro canto è un modo per tutelarsi dalla possibilità che qualcuno, appellandosi al diritto di satira, sostanzialmente faccia soldi con materiale proprietario altrui nell’unico modo possibile (e i vari Scary, Superhero ed Epic movie le sale le riempivano anzichenò, verso la metà degli anni 2000).Cosa resta delle parodie?
Dove va, allora, lo spoof, per sopravvivere? Cambia pelle e si adatta, ibridandosi con il film per bambini e il cartoon (Lego Batman e, parzialmente, anche Spider-Man: un nuovo universo, che però ci piazza qua e là anche delle svolte drammatiche inaspettate e proprio per questo efficaci). Questo apre un nuovo scenario, perché l’umorismo, secondo una certa accezione, è quasi automaticamente legato al mondo dei ‘Toons (pensiamo a Roger Rabbit e all’assurdità di essere dei cartoni animati in un mondo reale), anche se tutti sappiamo bene che prodotto d’animazione non corrisponda affatto, e non esclusivamente, a prodotto umoristico. Quel che fa ridere dei cartoni è che, proprio come i supereroi, possono fare delle cose che le persone di carne non possono fare . Cadere da grandi altezze spiaccicandosi senza morire, sottoporsi a incidenti potenzialmente invalidanti senza subire grossi danni, far uscire gli occhi dalle proprie orbite. Un cartoon può fare tutto quello che vuole. Oggi ci sembra niente di che, visto che con la cgi (da The Mask in poi) questo è possibile anche per un attore umano.Ma per Sam Raimi, che alla sua serie di culto La Casa ha aggiunto gradualmente – a partire dall’horror sanguinolento del primo capitolo per cui l’unica forma di risata poteva uscire da una catarsi per accumulo di tensione – elementi da commedia proprio ispirandosi a personaggi come Wile E. Coyote e Bugs Bunny, oltre che a Buster Keaton e ai maghi della comicità corporea. Riuscirci è stato un bel dilemma risolto abilmente a suon di protesi e trucchi prostetici.
E la mano mozza di Ash, posseduta da un demone kandariano, che si ribella al suo possessore facendogli il dito medio diventa leggenda.
Ma soprattutto, la parodia va in rete, con i mezzi della rete (rimontaggi, rielaborazioni, ridoppiaggi) come dimostrano canali parodistici seguiti come i vari “Honest Trailer” o semplicemente i molti fan film – di solito cortometraggi – che si dedicano specificamente alla presa in giro di blockbuster famosi. Dalle sale alla rete con una strada, per certi versi, simile a quella del porno.
Mondo che, tra l’altro, ha notato l’analogia e non ha tardato a inglobarla: tra le parodie più apprezzate dei film di supereroi ci sono proprio quelle pornografiche del “genio” Axel Braun, che tra l’altro denotano una conoscenza del mondo dei comics e soprattutto una scelta di fedeltà – ad esempio nel design dei costumi, ma anche nel carattere dei personaggi e nella costruzione dei poteri, sebbene sempre finalizzati a un immaginabile, unico scopo – che spesso manca ai cinecomic ufficiali. Dopotutto i due generi sono finalizzati a un medesimo traguardo: tenere alto il buonumore dello spettatore.