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Quel Bushi di Frank Miller

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Rileggere oggi il Ronin di Frank Miller per apprezzarne ancora di più la furia iconoclasta, il gusto citazionista e il genio di un autore unico

La via del samurai è la morte. La via del ronin è il disonore. La via di Frank Miller è il segno e la parola. Unite insieme in un solo colpo di spada.
Nel 1982 Frank Miller è un autore di venticinque anni che ha appena messo sotto la cintura una straorinaria run di storie sulla testata Daredevil in cui si è divertito a sperimentare un'ardita commistione tra il noir, il supereroistico e i film di arti marziali (di ninja, in particolare, che in quegli anni sono di gran modo negli USA) e tra il fumetto classico americano (quelle di Will Eisner, per capirsi), quello di supereroi, e (cosa assolutamente inedita per il periodo) il manga.

Miller, infatti, in quegli anni è incappato in un capolavoro del fumetto giapponese, quel Kozure Ōkami che poi sarò conosciuto in tutto il mondo come Lone Wolf & Cub. Non lo può leggere, Miller, perché i volumi di cui è in possesso non sono tradotti, ma questo non gli impedisce di capire lo straordinario portato della narrativa per immagini messa in scena da Kazuo Koike e Goseki Kojima (i due autori dell'opera) e rimanerne travolo. Ma non basta. Perché proprio come tutti i giovani incazzati e di talento, Miller è affamato e onnivoro e oltre che agli Usa e al Giappone, il suo sguardo spazia anche verro l'europa, dove incappa nelle straordinarie pagine di Moebius e Hugo Pratt.

Così, quando Jim Shooter propone a Miller di realizzare una graphic novel per la Epic, linea adulta della Marvel, l'autore ha già in testa un'idea precisa di cosa gli piacerebbe fare: una storia ambientata tra i Giappone feudale e il futuro, disegnata a mezza via tra il manga, il fumetto francese e quello autorale italiano. Il tutto deformato e fatto esplodere alla maniera dei comics USA.

Una provocazione artistica e culturale, un fumetto d'autore sabotato dalla cultura pop e sparato a tradimento contro il lettore di supertizi in calzamaglia. Consapevolmente o meno, il progetto che Miller inizia delineare è un'opera che concettualmente somiglia in maniera pericolosamente eccitante a quanto fatto pochi anni primi dai i mostri sacri del fumetto mondiale sulla rivista Métal Hurlant. È qualcosa che nel bigotto, noioso, perbenista, panorama del fumetto americano dell'epoca, non si è mai vista. Qualcosa che, forse, non è adatta per la Marvel di quegli anni ma che è perfetta per la DC, che all'inizio degli anni '80 sta iniziando a fare interessanti esperimenti in ambito editoriale e che con la miniserie Camelot 3000 ha dato il via alla pubblicazioni di miniserie più o meno lunghe, edite in edizioni di particolare pregio (per quegli anni in cui i fumetti erano stampati su carta di pessima qualità).

Miller viene quindi sedotto dall'illuminata editor Jenette Khan (la stessa mente che, pochi anni dopo, darà il via per opere come il Ritorno del Cavaliere Oscuro dello stesso Miller, per il Watchmen di Alan Moore, per l'Hellblazer di Moore-Delano e per il Sandman di Neil Gaiman) e si mette al tavolo da disegno.
È una lavorazione anomala per Miller che si impone di lavorare come fanno gli europei, scrivendo l'intera sceneggiatura vignetta per vignetta, non limitandosi a quel grosso plot riassuntivo tipico del metodo all'americana reso celebre da Stan (Lee) e Jack (Kirby).

Con la stessa tecnica di sceneggiatura, Miller scriverà tutte le sceneggiature più importanti (e più solide) della sua carriera, dal già citato Ritorno del Cavaliere Oscuro a Batman: anno uno).
Una volta completato lo script, si passa ai disegni. E qui Miller si diverte e si lascia andare. Da una parte porta coerentemente avanti il discorso già iniziato su Daredevil, sviluppando la narrazione su vignette a tutta fascia sovrapposte, frammentando l'azione in mille dettagli e dilatando i tempi narrativi (forte, in questo senso, l'influenza del fumetto orientale). Dall'altra parte, è sul segno che Miller sperimenta di più.

Non dovendo più sottostare alle chine violente (ma bellissime) di Klaus Janson, l'autore si permette il lusso di andare in direzione opposta e contraria, lasciandosi influenzare dai tratteggi ordinati e ossessivi di Moebius, dal feroce intreccio di linee di Kojima ma pure dalla rappresentazione femminile di Crepax, dal bianco e nero di Pratt e dalla costruzione della gabbia ideata da Steranko per il suo Atmosfera Zero (opera che poi Miller saccheggerà tanto per Sin City, quanto per 300).
In particolare, forse per l'unica volta nella sua carriera di artista, Miller cerca il semitono, la sfumatura, il grigio.

Il risultato è interessante ma discontinuo. Evidenti e a tratti mal digerite le influenze, alcune pagine di Ronin hanno però un'efficacia e una visionarità che mai più si riscontrerà nell'opera del sindaco di Sin City. E' comunque nella pura e semplice narrazione per immagini, negli attimi che l'autore decide di mostrarci e nel modo in cui questa serie di attimi si legano l'uno all'altro, che l'opera trova la sua eccellenza. In quello e storia, che è bizzarra, originale e ardita, e che rappresenta all'interno del corpo dell'opera milleriana quasi un elemento alieno.
In sostanza, Ronin è, al tempo stesso, la meno e la più rappresentativa delle opere di Frank Miller.

Una lettura indispensabile per chi lo ama. Una possibile grande sopresa per chi lo odia.

Prima di chiudere, mi permetto una curiosità:
provate a confrontare la scena di quando il ronin protagonista della storia di Miller si risvegli, entra nel rigattiere, ritrova la sua spada e poi entra nel bar e fa una strage con la scena del film Pulp Fiction in cui Bruce Willis si arma per andare a fare fettine di Zed e dello storpio. Poi guardate le date delle due opere.

C'è una ragione per cui Frank Miller è Frank Miller. Non scordatevelo mai.

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