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Predator e Prey, sovversioni e rassicurazioni

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Cosa rendeva spettacolare il primo film e cosa continua a mancare ancora oggi nei seguiti? Cerchiamo di capirlo vedendolo in paragone con Prey

Di solito quando voglio parlare della stratificazione di certe opere pop cito Godzilla, ma a ben guardare Predator se la gioca col lucertolone della Toho nella categoria delle opere di intrattenimento “leggere” ma allo stesso tempo talmente spesse che non le tagli manco con la motosega.

 

Ecco perché quando leggo che Prey, ovvero l’idea di Predator portata nel 1700 con i nativi americani è un film degno del primo e che addirittura ne “riprende i temi originali” mi si accappona la pelle. Ma procediamo con ordine.

 

Prima di devastarsi la carriera facendosi beccare a spiare i produttori di Hollywood e prima del flop (immeritato) con Last Action Hero e imbarazzare il mondo col remake di Rollerball, John McTiernan era uno di quelli con l’occhio giusto per continuare sulla scia tracciata dalla New Hollywood. Non solo ci sapeva fare, ma aveva e forse ha ancora un gusto tutto suo per la sovversione delle aspettative, per andare contro quello che sembra già funzionare. Questo vale per Die Hard, dove prende un attore fino a quel momento incasellato in ruoli abbastanza comici come Bruce Willis e lo trasforma nel nuovo paradigma di action hero sofferente e ironico, ma vale soprattutto per Predator, in cui la figura dell’action hero muscolare e reganiano viene preso per il collo e braccato da qualcuno che gli è superiore in tutto.

 

McTiernan prende l’immagine degli Stati Uniti arroganti sceriffi del mondo e si inserisce nei film che analizzano e criticano l’intervento in Vietnam a modo suo: con uno slasher movie travestito da action movie militarista dove la final girl è un omone grosso e impaurito che deve dimenticare tutto ciò che sa per combattere un nemico imbattibile con le armi convenzionali.

Enter the macho

Sono gli anni in cui Rambo 2 cerca di curare il trauma della guerra mostrando un eroe che torna a salvare i prigionieri, in cui il messaggio strisciante di Aliens due è che il nemico che striscia nei cunicoli e attacca di sorpresa va eliminato con due parole “decolliamo” e “nuclearizziamo”. Predator si inserisce in questo discorso a modo suo, mostrandoci Dutch, un puro, uno che crede di essere dalla parte giusta, uno che agisce senza secondi fini che viene fregato da Dillon, che invece è il disincantato che ha “aperto gli occhi” dopo il trauma del conflitto vietnamita e adesso esegue black op per combattere le forze comuniste, ma che è anche il simbolo delle macchinazioni dell’intelligence che in qualche modo sono viste come responsabili del fallimento e che hanno condotto bravi soldati come Dutch al massacro. L’unico modo per fare ammenda che Dillon ha a disposizione è ovviamente il sacrificio eroico.

 

Seguendo questa lente di analisi il Predator può essere visto come il simbolo, l’ennesimo, delle forze vietnamite.

Pur essendo tecnologicamente avanzato, cosa che di sicuro i vietnamiti non erano, agisce nell’ombra con tattiche di guerriglia e non può semplicemente essere sconfitto con armi convenzionali, facendo tabula rasa e sparando a tutto ciò che fa rumore nella giungla. Per sconfiggere questo avversario non convenzionale servono idee non convenzionali, bisogna pensare come lui, abbandonando l’idea di essergli automaticamente superiori e utilizzando idee di guerriglia. Ecco come si poteva vincere la guerra del Vietnam!
 

L’altra grande sovversione di Predator riguarda il machismo.

 

Gli anni ’80 son gli anni della rivoluzione del corpo, dell’aerobica per le donne e dei muscoli pompati all’eccesso per gli uomini.

I bodybuilder ormai sono sdoganati come nuovo canone estetico grazie quasi esclusivamente ad Arnold Schwarzenegger, che dopo Pumping Iron col suo carisma e la sua determinazione supera il classico utilizzo degli attori muscolosi nei personaggi in stile Ercole o Maciste per diventare il simbolo della politica reaganiana nel mondo. Insomma, non credo di dovervi fare un trattato sul cinema action del periodo, la storia la sapete.

Ben prima che quella figura fosse messa in crisi alla fine degli anni ’80 per diventare qualcos’altro, quel qualcosa che si vede anche in Demolition Man, Mc Tiernan decide di sgretolare il machismo hollywoodiano facendogli credere di essere come lui.

 

La prima parte di Predator è una ode al bicipite oliato, al pettorale sudato, alla loro inarrestabile forza nell’uccidere i nemici della libertà, con tutta una serie di sottotesti omoerotici che rivaleggiano con l’allenamento di Rocky o la partita di beach volley di Top Gun. Minuti e minuti di omoni che maneggiano simboli fallici, che si vantano delle proprie prestazioni sessuali senza che nessuno glielo chieda, Dutch che si comporta con Dillon come quando ritrovi una vecchia fiamma che poi si rivela una grandissima stronza, Mac che piange per Blain con tenerezza e poi viene pervaso da una furia vendicativa degna di Achille dopo la morte di Patroclo.

 

L’ipermascolinizzazione e i sottotesti omoerotici, sommati al tono parodistico della prima parte del film culminano nel momento in cui epico e ridicolo si mescolano: quando l’intero gruppo scarica centinaia di proiettili nella giungla per poi sentenziare “abbiamo colpito il nulla”. Una grande risata alla faccia del machismo militarista. Subito dopo arriva la parte più slasher, quella in cui il Predator, un po’ come certi horror dopo Halloween, bracca e ammazza una ad una tutte le sue prede, trasformandole in trofei, fino a trovarsi di fronte alla final girl: Dutch.

 

Vista la stazza di Schwarzenegger di solito i suoi avversari sono o personaggi che possono contare sulla propria intelligenza e parecchi tirapiedi o suoi pari che inevitabilmente devono soccombere alla prova fisica. In Predator l’uomo più grosso e famoso del cinema action degli anni ’80, dopo aver lanciato la sua sfida con un urlo primordiale viene sollevato di peso, preso a schiaffi, braccato, costretto a strisciare via tutto sporco di sangue (anche qua, prove generali per John McClane) in un finale che è praticamente un film muto (ottima idea se vuoi ottenere il massimo effetto drammatico da un attore con un pesante accento austriaco) dove alla fine a spuntarla non è il fisico, ma il cervello.

Da predatore a preda

Adesso facciamo un lughissimo fast forward fino al 2022, Prey, film che per molti “torna alle origini di Predator e quindi alla caccia”. Io non sono molto concorde con questa affermazione, o almeno, non credo che il cuore di Predator stia solo nella caccia, ma anche nella sovversione, nella sorpresa, nel propormi un film d’azione muscolare che diventa presa in giro del genere all’occhio raffinato, ma che puoi goderti anche senza scendere nei layer.

 
Ecco, tutto questo io in Prey non lo trovo. Non c’è sovversione, non c’è satira, non c’è un secondo livello.

L’unico gesto controcorrente, in teoria, sarebbe quella della protagonista femminile, che rifiuta le convenzioni della sua tribù per diventare cacciatrice, ma è un gesto anticonformista perfettamente calato nella giusta e sacrosanta narrazione dei personaggi femminili degli ultimi 20 anni. E tutto viene sottolineato col pennarellone grosso, con lei che va letteralmente in direzione ostinata e contraria rispetto alle altre donne e che ci ripete ogni cinque secondi che lei vuole cacciare. Può sembrarti una provocazione solo sei uno di quelli che mugugna non appena ci sono personaggi femminili pensa veramente che i giovani si offendano per tutto mentre passa il suo tempo a offendersi per tutto.

Non c’è in Prey alcuna voglia di stupire, di satireggiare, di andare contro uno status quo. La protagonista è chiaramente troppo debole per lo scontro fisico con il Predator, anche se sa usare ogni arma, anche quelle che vede la prima volta, come se fosse un personaggio di Assassin’s Creed. Dopo pochissimo sappiamo che sarà uno scontro basato sull’astuzia, dopo metà film si intuisce che non si baserà sulle sue doti di cacciatrice, ma sulla capacità di utilizzare un’arma a puntamento laser che avrebbe dovuto farle venire le convulsioni per lo shock culturale. 

 

Tutto va esattamente come deve andare, ricalcando in qualche modo lo schema del primo film, come se bastasse. Anche il brevissimo momento di contestazione delle sua aspirazioni da cacciatrice, ad opera del gruppo di bulli scorre innocuo, così come la prigionia ad opera dei francesi (bella operazione per lavarsene le mani, visto che queste erano cose che spesso facevano gli inglesi). Sappiamo fin dal primo momento che lei vincerà, sempre perfetta, sempre efficace, sempre in grado di fare la cosa giusta, sempre col trucco da guerra che non si lava mai via. Certo, lo sapevamo anche di Schwarzy, ma non avevamo idea di cosa avrebbe dovuto fare per trionfare, qua tutto fila dritto, senza intoppi né scossoni.

Certo, c’è l’elemento della caccia, dello scontro uno contro uno con l’astuzia che trionfa, ma manca tutto il resto, manca il vero cuore di Predator, manca la voglia di creare qualcosa che lasci il segno e che non mi sia dimenticato dopo mezz’ora, manca il senso vero di un film che era già così perfetto di suo che ha dannato tutti i possibili seguiti alla mediocrità. Perché Predator è calato nel suo tempo ed è pronto a giocare con i temi che lo circondano. Prey no, li asseconda, li conforta e conforta gli spettatori e le spettatrici che volevano una cosa carina, splatter ma motivazionale. Ci mostra una (super)eroina coraggiosa, senza scossoni, donandoci alcune scene molto belle, splatter degno e un gran bel design per un Predator più primordiale (e scemo), ma nulla di più. Posso capire che vi sia piaciuto, sono sempre felice quando qualcosa piace, però trovo certe lodi forse un po'... eccessive?

 

Predator è una saga che è stata gestita malissimo al cinema e molto bene nei fumetti, quindi è facile dire che Prey è meglio di tutti i film di Predator recenti (anche del 2, no) e considerarlo un buon film. Se sei abituato alle piscine anche un laghetto pare il mare, ma metterlo a paragone col primo è come dire che una cover band vale quanto l'originale solo perchè cerca di suonare la stessa musica.

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