Perché non ho bisogno del Joker di Joaquin Phoenix
Ovvero: come la mancanza di informazioni su un personaggio sia spesso parte fondamentale del suo fascino e della costruzione di un mito.
Come si sa già da qualche tempo, Joaquin Phoenix interpreterà il Joker in un film interamente dedicato al cattivo più famoso e amato di Batman, quello più complesso e interessante, quello che nel corso della storia ha assunto una infinita di maschere che oggi tendono tutte verso una sorta di allegoria del caos più completo.
Sul casting di Phoenix, c'è poco da dire, sembra l’uomo giusto al momento giusto. Ha negli occhi quella scintilla di pazzia necessaria per il ruolo, lo sappiamo dai tempi de Il Gladiatore, il volto e le espressioni adeguate per interpretarne l’ironica follia. Oltretutto, è un attore con esperienza e un carisma assolutamente adeguati a portarsi sulle spalle il film. Insomma, onestamente dovrei attendere il film con una certa eccitazione, ma c’è una parte di me che invece preferirebbe che un certo tipo di film non diventassero di moda, parlo dei film che devono per forza spiegarti tutto.
Il fascino del mito si basa spesso sull’ignoto, sul non sapere. Non fraintendetemi però, ci sono figure potentissime del nostro immaginario di cui sappiamo come sono nate e come si sviluppano e in cui il processo di genesi è necessario per empatizzare con loro e creare un legame. Questo vale per la maggior parte dei supereroi, che spesso devono spiegare i loro poteri al lettore. La morte dei genitori di Batman, il morso del ragno di Spider-Man, l’esilio di Superman e così via. La tragedia forgia gli eroi (oppure crea i cattivi) da sempre, tuttavia le figure più affascinanti sono quelle che arrivano sulla scena senza rendere conto a nessuno, lasciando che sia la testa dello spettatore a riempire i buchi.
In questo, i primi Star Wars sono maestri: Darth Vader arriva all’improvviso, col suo respiro meccanico e la presenza imponente, senza doverti spiegare niente e da subito ne rimani stregato. Lo stesso vale per Han Solo, che vive della fama generata dalla sua spacconeria e dalle voci che girano su di lui. Non parliamo di Boba Fett, a cui è bastata un’armatura e poco altro per diventare quasi inspiegabilmente uno dei personaggi più amati della saga.
I personaggi misteriosi sono un po’ come una mappa in cui non hai ancora scoperto tutto, sono come guardare il panorama di un mondo alieno cercando di scoprire cosa ci sarà in quella città misteriosa. Sono fighi nel pieno del loro potenziale, perché dovrei volerli vedere prima che lo diventino? Il piccolo Bruce Wayne mi interessa giusto nei pochi secondi che seguono l'omicidio dei genitori.
Purtroppo, Star Wars è anche l’esempio negativo: spiegare la genesi di Darth Vader e la sua corruzione lo rende senza dubbio più umano, ma meno affascinante (per quanto possa essere “meno affascinante” uno dei personaggi più famosi degli ultimi quarant’anni). Mostrarci le prime spacconate di Han Solo è interessante, ma adesso che so cosa ha fatto durante la famigerata rotta di Kessel la mia immaginazione non serve più a niente. Per anni Star Wars ha progressivamente smantellato il fascino de suoi miti e per quanto sia felice di vedere nuove storie ambientate in quell’universo narrativo qualcosa si indebolisce con ogni nuova pellicola. Fra poco faranno anche vedere i cantieri della Morte Nera dalla prospettiva di un operaio.
Secondo lo stesso principio gli xenomorfi di Alien sono affascinanti e inquietanti senza alcuna spiegazione, tutta la saga di Prometheus non fa che annacquare il loro fascino primordiale.
Il vero mito non si spiega, si contempla. È un po’ come il mistero della fede.
È un po’ come quella storia delle battute e delle rane: spiegare una battuta è come dissezionare una rana, alla fine sai come è fatta una rana, ma quella è morta. Con i miti e con le storie che li spiegano funziona un po’ allo stesso modo. Ci piace sapere come è nato Han Solo, ma alla fine sacrifichiamo sull’altare della nostra voglia nerd di conoscenza la fascinazione quasi infantile dell’ignoto.
D’altronde la spiegazione, l’easter egg, il raccontarti tutti i riferimenti che ti sei perso in un film, in un trailer, in un videogioco sono tendenze che vanno alla grandissima nel mondo della cultura pop e dei creatori di contenuti. Una sorta di gara al nozionismo in cui conta molto più ciò che sai di un’opera rispetto a come ti senti quando ne fruisci. Una gara resa possibile dall’abbondanza di fonti moderne che in passato distingueva il curioso dall’appassionato, ma che oggi tutti possono fare. La sete di conoscenza c’è sempre stata, ma una volta riempivi gli inevitabili vuoti con l’esperienza personale e l’interpretazione. Non c’era solo l’opera e ciò che diceva l’autore, ma anche ciò che pensavi l’opera dicesse. Oggi invece il mondo de pop è diventato una sorta di grande caccia al tesoro organizzata da chi gestisce le proprietà intellettuali, per dirla come il saggista Jacopo Nacci.
Tornando al Joker, il bello della versione di Nolan è che non sapevi come era nato, ogni volta cambiava versione perché non era importante saperlo, contava solo il qui ed ora. Forse era una provocazione contro questa attitudine a voler sapere tutto, forse no. Il punto è tutto qua: non ho bisogno del passato del Joker, non ho bisogno della sua diagnosi clinica, come non avevo bisogno di sapere perché Hannibal Lecter è diventato un cannibale. Ho bisogno del fascino archetipico di una follia ben raccontata. Datemi nuovi film sul Joker, ma non quelli che vogliono spiegarmelo.
Si potrebbe obiettare che in Killing Joke, opera monumentale a cui questo film del Joker dovrebbe ispirarsi, l’origine del mito viene raccontata eccome, il classico banalotto espediente del del comico traumatizzato dal lutto che cade nella vasca di componenti chimici. Ma Alan Moore mica è un genio a caso, e infatti lascia la porta aperta verso il mistero del mito, facendo dire al Joker “A volte lo ricordo in un modo, a volte in un altro… se proprio devo avere un passato, preferisco avere più opzioni possibili”.