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Jerusalem: la circolarità del tempo nella magnum opus di Alan Moore

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Non temere di leggere quest’articolo, perché tanto l’hai già letto e lo rileggerai infinite volte, lo dice Alan Moore

Ho finalmente finito di leggere Jerusalem, il monumentale nuovo romanzo di Alan Moore (quasi 1600 pagine molto grandi dai caratteri molto piccoli, tanto per intenderci il doppio del Signore degli Anelli, per un totale di circa 600.000 parole) edito da Rizzoli Lizard nell’ottima traduzione di Massimo Gardella. Perché farmi del male in questo modo? Semplice, perché il bardo di Northampton è in assoluto il mio scrittore vivente preferito (sì, lo so, ha scritto quasi solo fumetti, e allora? Per caso questo non farebbe di lui uno scrittore alla stregua dei grandi romanzieri? Ricordiamoci sempre che Watchmen è l’unico fumetto ad essere stato inserito nella lista di Time dei cento migliori romanzi in lingua inglese dal 1923 ad oggi).

Jerusalem è uno dei dieci romanzi di lingua inglese più lunghi di tutti i tempi, e io ci ho messo molto tempo a leggerlo, decisamente troppo (cinque mesi). Non tanto per la lunghezza in sé quanto per la sua difficoltà. Perché Jerusalem è un romanzo molto complesso: un’infinità di livelli narrativi raccontati attraverso una prosa aulica e pedante, anche se corroborata da un realismo di fondo fatto di slang, oscenità e violenza estreme, continuamente diversificata, incasellata nei tipici esercizi di stile di Moore che cambiano continuamente prosa e registro.

È un romanzo-mondo che tuttavia racconta un fatto molto semplice, ma esplora una miriade di aspetti che stanno dietro a quel fatto. E quel fatto apparentemente banale non è altro che un pretesto per sviluppare una serie di questioni spinose: è insieme una dichiarazione poetica, una denuncia politica, una posizione storica (e un’analisi storiografica), una teoria fisica (e metafisica) e una cosmogonia, ma è anche una lunga saga familiare, una riflessione sul tempo, sui luoghi, sulla nostalgia e molto altro ancora.

Alan Moore ha impiegato quasi un decennio per scrivere quest’opera mastodontica. Dieci anni per descrivere i meccanismi che portano a un evento che poi si manifesta in tutta la sua banalità. E c’è un motivo se ha avuto bisogno di tanto tempo e tante parole per descriverlo: la vicenda si sviluppa su quattro dimensioni, in un universo in cui la quarta dimensione è il tempo (sviluppando all’estremo il relativismo einsteiniano). Ma perché indugiare così a lungo in una vicenda tanto banale? Semplice (anche se di semplice qui non c’è nulla): per riuscire a farci capire i meccanismi che regolano un mondo a quattro dimensioni.

È un concetto complesso che richiederebbe conoscenze di fisica teorica per essere compreso nella sua interezza, ma Moore riesce a infilarcelo in testa a colpi di martello grazie agli eventi che descrive così minuziosamente: ci spostiamo fra le dimensioni assieme ai personaggi talmente a lungo da fare nostra l’idea della quarta dimensione senza nemmeno rendercene conto. Ed ecco che un concetto così sfuggevole, inconcepibile e incommensurabile, diviene normale grazie alla narrazione.

Il romanzo tuttavia non si limita soltanto a raccontarci un evento giocando con le dimensioni. Come dicevo, è tutto un pretesto di Moore per inserire nella storia il suo intero mondo o quasi. Ci sono personaggi storici (legati in maniera più o meno diretta alla città di Northampton) che hanno un ruolo attivo nella vicenda e altri che l’autore menziona sotto forma di omaggi e citazioni più o meno dirette: James Joyce (soprattutto “Finnegans Wake”) e sua figlia Lucia, Samuel Beckett (e il suo quasi omonimo Thomas Becket), Charlie Chaplin, John Clare, Edwin A. Abbott (Flatlandia è a mio avviso l’ispirazione più importante di Jerusalem), John Bunyan, Philip Doddridge, J. K. Stephen, William Blake, Lewis Carrol, Charles Dickens (Jerusalem è un romanzo squisitamente vittoriano), Oliver Cromwell, Steve Moore, Wiliam Shakespeare, George Gordon Byron, Albert Einstein, Jack lo squartatore, Nietzsche, Howard Phillips Lovecraft (l’altro grande ispiratore del romanzo -con cui Alan Moore aveva già fatto i conti nella sua stupenda graphic novel Providence- soprattutto per quanto riguarda lo stile, così prolisso e sovraccarico di aggettivi e avverbi) e un’infinità di altri personaggi che al momento non riesco a rievocare.

C’è poi tutta la schiera di personaggi fittizi, dalla famiglia Vernall di cui seguiamo le tracce lungo due secoli abbondanti di storia (fino a culminare con il personaggio di Alma Warren che è l’alter-ego di Allan Moore), ai vari angeli (e demoni) che abitano la quarta dimensione (e che decidono della vita e della morte delle persone giocando un’eterna partita a “triliardo” seguendo un disegno cosmico già scritto), alla miriade di personaggi circostanziali (sia viventi che fantasmi) che hanno una propria storia legata alla città di Northampton nel corso dei secoli, dall’età del ferro a oggi, e che sembrano essere inseriti in maniera casuale qua e là con capitoli a loro dedicati, ma che pian piano trovano il loro posto nell’economia poderosa della storia, risolvendo un gioco narrativo in cui tutto sembra casuale ma in realtà nulla è lasciato al caso.

All’inizio si ha infatti l’impressione che ogni capitolo sia un racconto a sé stante, eppure, procedendo con la lettura, ci accorgiamo invece che tutto torna, incasellandosi alla perfezione in un gioco di scatole cinesi a quattro dimensioni. Ma c’è anche moltissima cultura pop, filosofia, scienza, pseudoscienza, esoterismo, misticismo, storia, storia dell’arte, religione, religiosità, paganesimo e chi più ne ha più ne metta. Tutto questo converge sotto il segno onnipresente dell’Eternalismo (teoria a cui Moore si è ormai convertito del tutto) per cui il tempo presente, passato e futuro coesistono in un unica dimensione, si influenzano tra loro, sono ripercorribili, e noi stessi siamo destinati a ripetere la nostra esistenza infinite volte, perché il tempo è unico, è tutto lì, stratificato, e vederlo o meno è solo una questione di prospettiva.

Secondo il romanzo, dalla nostra prospettiva tridimensionale non possiamo vedere gli strati della quarta dimensione, “sta tutto negli angoli” e solo alcuni privilegiati possono avere la fortuna di “voltare l’angolo” e sbirciare oltre (col rischio però di non riuscire più a tornare sui propri passi): i poeti, gli alcolizzati, i drogati, i pazzi, i sognatori (letteralmente), i membri della famiglia Vernall (incaricati di sorvegliare gli angoli) e ovviamente i morti. Secondo questa teoria quindi noi coesistiamo con Oliver Cromwell e i Mammuth (che infatti sono personaggi del romanzo), solo che non abbiamo l’accesso al punto di vista corretto per poterli vedere.

Jerusalem è un libro che sfida ogni regola della buona narrativa contemporanea

In una visione simile ovviamente il libero arbitrio non è mai esistito, è solo una dolce illusione: il futuro è deterministico, ogni cosa è già accaduta ed è destinata a ripetersi all’infinito, tutto il tempo è già scritto e deciso, tutto, anche la più piccola azione, fa parte di un immenso e complicatissimo disegno cosmico e quindi non esistono buoni o cattivi (“Concludo la pennellata di Louisa Warren con questo ultimo orpello. Osservata da vicino sembra una macchia, una crosta, ma oh, se facciamo un passo indietro per contemplare il disegno di cui fa parte…” dirà l’angelo, o meglio “l’angolo”, Michele in enochiano riferendosi alla banalissima morte di un personaggio).

Ciò che ci aspetta dopo la morte infatti non ha niente a che vedere con l’aldilà cristiano. Non ci sono inferno e paradiso, non c’è giudizio, c’è soltanto il nostro mondo, ma dotato di una dimensione in più a cui finalmente riusciamo ad accedere. Qui cambia la nostra percezione dello spazio e del tempo, gli angoli si mostrano, l’ipercubo si risolve davanti ai nostri occhi come la sfera che si mostra alla linea in Flatlandia, quando la linea riesce finalmente a concepire (ma solo per un momento) la terza dimensione con il suo cervello bidimensionale.

Jerusalem è un libro che sfida ogni regola della buona narrativa contemporanea. È provocatoriamente retrò. Sembra quasi che in questo romanzo Alan Moore abbia messo in pratica l’intento letterario che egli stesso fa pronunciare a Robert Black, il protagonista della sua graphic novel capolavoro “Providence”, facendosi così portavoce di uno stile del tutto nuovo (di genere e dichiaratamente antiaccademico) proprio in quanto erede di uno stile troppo vecchio: “E nonostante la spiccata inclinazione antichizzante di Carver e (soprattutto) di Lovecraft, ho sempre la sensazione che l’artificiosità con cui simulano stili e vezzi del passato sia indicatrice di un nuovo tipo di modernità, se non addirittura di una forma di inquietudine per il futuro. Ogni scrittore degno di questo nome non deve forse essere pronto a seguire i suoi istinti là dove lo conducono, in un sentiero pieno di valore e passione e convinzione, piuttosto che essere schiavo delle convenzioni del momento?

In tutto questo Moore trova il tempo (e soprattutto lo spazio) per ripercorrere la storia di Northampton (suo paese natale in cui vive tutt’ora), e si rivela essere probabilmente Il più competente e preparato storico della città (arrivando persino a formulare ipotesi storiche sulla città come origine della moderna economia). In questo senso Moore aveva già fatto i compiti con il suo romanzo precedente “La voce del fuoco”, un bellissimo libro in cui racconta la storia di Northampton attraverso diversi racconti ambientati nel corso di 10.000 anni di storia, utilizzando in ciascuno il linguaggio dell’epoca a cui si riferisce.

In Jerusalem Moore sviluppa quest’idea fino al suo limite: attraverso varie epoche, dal passato più remoto fino ad un futuro lontano miliardi di anni dove il tempo giunge alla sua fine, l’autore delinea gli eventi salienti che hanno contribuito alla formazione della città (o meglio del suo quartiere, Boroughs) in tutti i suoi pregi e i suoi difetti. Il vero protagonista del libro è infatti il quartiere stesso, ed è proprio facendosi cronista della sua stessa città che Moore riesce a sfogare tutta la sua rabbia e la sua frustrazione per un presente così empio.

Il suo leitmotiv preferito (che ricorre per esempio in opere come Watchmen, Supreme, La Lega degli Straordinari Gentlemen e Providence, solo per citarne alcuni), quello della malinconia verso un passato irrimediabilmente perduto, qui trova la sua manifestazione più esplicita, è infatti proprio questo l’autentico tema che si sviluppa nel romanzo, tutto il resto è composto da diversi livelli narrativi stratificati che non sono altro che un pretesto per raccontare il grido di dolore dell’autore verso il mutamento osceno della sua città e quindi del mondo (nel romanzo Northampton è una sorta di centro ideale del mondo, una X messa sul pianeta da un essere superiore che tutto orchestra, un microcosmo attraverso cui poter accedere ai “piani superiori” di “Mansoul”, ovvero l’aldilà quadridimensionale).

Jerusalem è un mastodontico monolite di dettagli che compongono un complesso mosaico cosmogonico

Alan Moore ci mostra come il dolore e la sofferenza siano condizioni eterne di qualsiasi epoca, e anche se il passato era contraddistinto da una maggiore miseria rispetto al presente, la vita era migliore perché gli uomini avevano la speranza. L’autore individua nella prima guerra mondiale lo spartiacque di questo cambiamento. È quello il momento in cui gli uomini sono cambiati, è quella la linea che separa la speranza dalla rassegnazione. Dopo la grande guerra gli uomini si sono arresi allo sfacelo, hanno smesso di collaborare, sono diventati egoisti e squallidi.

Nel romanzo questo cambiamento è descritto minuziosamente ed è rappresentato allegoricamente attraverso il “distruttore”, il gigantesco inceneritore di Northampton costruito dopo la grande guerra, simbolo della decadenza della città, della sua deriva verso il decadimento estetico in favore dell’utilitarismo e del denaro: da quel momento in poi l’immagine caratteristica dell’evocativa città vittoriana viene smantellata pezzo per pezzo per votarsi ad una brutale industrializzazione. Il quartiere di Boroughs viene così sfregiato per sempre, spogliato di tutta la sua umanità per scopi egoisticamente economici, e a poco serviranno i moderni tentativi di riqualificazione e gentrificazione: la Northampton di un tempo è perduta per sempre e con essa le sue tradizioni, i suoi eroi, i suoi artigiani, i suoi pazzi, le sue puttane e le sue streghe.

Il distruttore verrà distrutto a sua volta in questa dimensione, ma nella quarta dimensione resterà lì per sempre, fino ad aver incenerito anche l’ultimo residuo di umanità presente su questa terra privata della speranza. Per fortuna però che nella Northampton a quattro dimensioni il tempo sia ripercorribile a piacimento, sia in avanti che indietro (ma stando fermi nello stesso punto), e credo sia proprio questo il motivo per cui Alan Moore si sia convertito all’eternalismo (o meglio all’idea di eternalismo che si è inventato nel romanzo): per potersi cullare nell’illusione che dopo la morte potrà tornare a fare visita al quartiere com’era una volta, prima che la guerra e il distruttore lo corrompessero per sempre.

Jerusalem è un mastodontico monolite di dettagli che compongono un complesso mosaico cosmogonico. Come dice il traduttore, è un romanzo che “va studiato più che letto per coglierne le sottigliezze, è certo un libro dal riverbero ritardato, che ha bisogno di tempo per entrare sottopelle ma alla fine lascia tracce indelebili. È un romanzo, se proprio vogliamo trovare un pubblico più indicato, per lettori tenaci e cerebrali, abituati a sopportare le esagerazioni dell'ego autoriale sulla pagina perché certi che prima o poi si imbatteranno in un brano memorabile”. Non è certo letteratura da svago, non si avvicina nemmeno all’intrattenimento, non crea quell’irrefrenabile bisogno di voltare pagina, ha un suo scopo e lo centra lentamente perché è l’unico modo possibile per andare a segno senza perdere niente per strada. Dopotutto Alan Moore ci dà una definizione del suo stesso romanzo in un momento di metanarrazione: “Mick era ormai certo che il bombardamento di illustrazioni scollegate di Alma raccontasse una specie di storia, forse talmente lunga e complicata che avrebbe necessitato una dimensione matematica in più  per essere narrata”.

Ho l’impressione che Jerusalem sia un romanzo davvero importante, oserei quasi dire epocale. Per quanto mi riguarda non mi vergogno di definirlo, in termini di importanza e dignità letteraria, come il “Guerra e pace” degli anni 2000, e credo che un giorno verrà insegnato nelle scuole (o quanto meno, mi auguro, si studierà il suo autore). Alan Moore con questo libro si è come sempre superato, completando un’opera ambiziosa, poderosa e impossibile, consegnando così se stesso all’Olimpo dei più grandi scrittori di sempre.

Alan Moore negli anni 90 si è autoproclamato mago, dando il via ad una serie di percorsi iniziatici per raggiungere una nuova comprensione. Secondo lui la magia ruota attorno alle parole, è una grammatica che può dominare il mondo attraverso il linguaggio, e questo è quanto mai evidente in Jerusalem, un romanzo che è un immenso rituale magico in cui il linguaggio domina il mondo intero ben oltre la nostra dimensione e la nostra percezione dello spaziotempo.

Jerusalem è la dimostrazione fisica dei reali poteri magici di Moore

Jerusalem è la dimostrazione fisica dei reali poteri magici di Moore, e mi piace credere che quell’altrove a quattro dimensioni descritto in Jerusalem non sia una sua mera invenzione letteraria: preferisco pensare che, durante uno dei suoi rituali esoterici, Moore sia riuscito a sbirciare attraverso questa dimensione per vedere cosa ci attende dall’altra parte, e che sia riuscito a ricordarselo (cosa che secondo lui non avviene quasi mai) per potercelo poi raccontare tramite questo libro, esattamente come succede al suo protagonista Michael Warren. Solo così riesco a spiegare la complessità e la lunghezza di questa storia.

Solo credendoci ciecamente si porta a compimento il suo rituale magico, che mira, come sempre, a farci raggiungere una nuova comprensione delle cose, per poterci consegnare finalmente alla morte senza più paure, perché tanto il passaggio temporale non è che una mera illusione. Ma lo sviluppo della nostra percezione non è la sola magia che Moore compie nel romanzo: certo, ci ha insegnato che il tempo è un’illusione e che dopo la morte ci attende una dimensione geometrica non euclidea in cui potremo recuperare il passato perduto, ma è anche vero che in questa realtà tridimensionale la sua città è condannata. Ed ecco allora che l’autore mette in atto la seconda magia: la sua arte, la sua grammatica dominatrice, si richiude in una formula letteraria romanzesca per salvare il suo quartiere ormai perduto.

Moore riesce anche in questo, dimostrando così tutto il potere della sua magia e consegnando all’immortalità una Northampton destinata alla distruzione (in questa dimensione). “Ho salvato Boroughs” dirà il suo alter-ego Alma Warren al fratello Michael, “ma non come si salvano le balene o il servizio sanitario nazionale. L’ho salvato come si conservano i galeoni in bottiglia. È l’unico sistema efficace. Prima o poi, tutte le persone e i luoghi che amiamo cesseranno di esistere, e l’unico modo per preservarli è l’arte. È la sua funzione, recuperare ogni cosa dal tempo.”

P.S. Non esistendo un’edizione critica del testo, alcuni prodi lettori (che sono più fan di me del bardo) hanno aperto un sito di esegesi https://alanmoorejerusalem.wordpress.com/ per aiutarci nella comprensione. Ode a loro!

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