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Non abbiamo più gli amici che avevamo a 12 anni, ma avremo sempre Stand By Me

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Il film tratto dal libro di King rappresenta uno dei punti più alti di quel genere che parla di estate, ragazzi e momenti di crescita

Fu nell'estate del 1959, molto tempo fa. Ma solo misurando il tempo in termini di anni. Questa frase, pronunciata dal protagonista Gordie Lachance all’inizio di Stand by Me - Ricordo di un'estate, esprime meglio di ogni altra il senso più intimo e profondo del film di Rob Reiner, tratto dall’altrettanto straordinario racconto di Stephen King Il corpo. Siamo infatti di fronte a un’opera totalmente svincolata dal tempo, che a ogni visione ci offre una nuova chiave di lettura per una storia particolare e allo stesso tempo universale sulle gioie e sui dolori dell’adolescenza, in cui chiunque, a prescindere dall’epoca in cui vive o ha vissuto questa delicata fase della vita, può facilmente riconoscersi.

La mera trama di Stand by Me - Ricordo di un'estate si può riassumere con il viaggio pieno di pericoli e disavventure (la fuga dal treno, il laghetto pieno di sanguisughe, la minaccia dei bulli di paese) di quattro dodicenni americani nel corso dell’estate che li separa dall’inizio della high school, alla ricerca del cadavere scomparso di un loro coetaneo.

Il corpo del ragazzo non è altro che un McGuffin: muove il racconto e il desiderio di fama dei protagonisti, ma il suo ritrovamento nelle battute finali è solo il completamento di un percorso interiore dei ragazzi, che li restituisce alle loro vite più maturi, consapevoli delle loro qualità e dei loro punti deboli ma anche del fatto che si è irrimediabilmente conclusa la fase più spensierata della loro esistenza.

Con una regia semplice ma efficace, incentrata sulle performance intense e naturali dei suoi giovani protagonisti, Reiner mette in scena una perfetta trasposizione de Il corpo, non a caso giudicata dallo stesso King il migliore adattamento dei suoi scritti. Lo fa rispettando lo spirito del materiale originale, tradendolo necessariamente solo in alcuni decisivi passaggi (il maggiore peso dato al personaggio di Gordie e la scelta di fare impugnare a lui invece che a Chris la pistola che mette in fuga i bulli) e conferendo al racconto un’aura quasi mistica, derivante sia dalle musiche di Jack Nitzsche, che si adagiano dolcemente sul brano di Ben E. King che dà il titolo al film, sia dalle scelte fotografiche con cui mostra l’Oregon, eccezionalmente sede della cittadina immaginaria di Castle Rock al posto del tradizionale Maine kinghiano.

Ridiamo insieme ai protagonisti nell’assistere ai tipici giochi dei ragazzi, all’insegna di volgarità e insulti alle rispettive madri, alle più disparate prese in giro o agli impacciati tentativi di atteggiarsi da grandi, giocando a carte, fumando o parlando di belle donne. Ci spaventiamo con loro all’ingresso in scena dei bulli, capeggiati da un Kiefer Sutherland non ancora ventenne ma già tremendamente inquietante, ma allo stesso tempo comprendiamo che c’è in gioco qualcosa di più grande, e che nell’aria, insieme alla voglia di sfidare le proprie possibilità e di farsi forza a vicenda nelle avversità della vita, c’è anche la malinconia di chi sa che qualcosa di bello sta per finire per non tornare mai più.

In un attimo ci tornano allora in mente le torride estati della nostra infanzia, quando lontani dagli impegni scolastici e dalle vacanze con la famiglia cercavamo l’unica compagnia che ci sembrava possibile, quella degli amici che c’erano da sempre e che credevamo ci sarebbero per sempre stati.

Il viso timido e innocente di Wil Wheaton si sovrappone al ricordo di quel nostro amico intelligente, bravo con le parole e puro d’animo, che in cuor nostro abbiamo sempre saputo che sarebbe riuscito ad avere successo nella vita, proprio come Gordie è riuscito a diventare uno scrittore affermato. La goffaggine di Jerry O'Connell, nella realtà oggi felicemente sposato con l’attrice e modella Rebecca Romijn, è la stessa di quel nostro compagno d’infanzia paffuto e imbranato, poi ampiamente riscattatosi nella vita, come lo stesso Vern.

Gli attacchi di ira e pura follia di Teddy ci fanno pensare a quello strambo e simpatico bambino che frequentavamo, la cui ironia era una forma di reazione a una difficile situazione familiare e personale, che per una triste coincidenza ha vissuto anche l’attore Corey Feldman, vittima già in giovane età di ripetuti abusi sessuali e della dipendenza dalla droga.

Impossibile poi non correre con la mente a quell’amico bello e dannato come River Phoenix, che sotto la scorza da duro e leader carismatico del gruppo sapeva rivelare bontà d’animo e una struggente fragilità, proprio come Chris Chambers nei suoi scambi con Gordie a proposito del loro futuro, in alcune delle sequenze più intense e riuscite di Stand by Me.

Quattro bambini che giocano a fare gli adulti, con un binario davanti e un unico grande obiettivo: trovare per primi un corpo morto, che ritengono la via per guadagnare popolarità in paese, ma che scopriranno poi essere il simbolo della definitiva perdita dell’innocenza. Un viaggio più interiore che fisico (curioso notare come i ragazzi più grandi vanifichino i due giorni di camminata di Gordie, Chris, Teddy e Vern, arrivando poco dopo di loro con un più breve e comodo viaggio in auto), nel quale gli adulti sono nel migliore dei casi inutili, e spesso dannosi, esaltando la dimensione adolescenziale del racconto e l’amarezza che circonda i protagonisti.

Teddy e Chris devono quotidianamente fare i conti con genitori fortemente disturbati e violenti, ben descritti dalle parole dei ragazzi e soprattutto dalla bruciatura da ferro da stiro che il primo si porta sull’orecchio, mentre a Gordie tocca la pena più grande di tutte: essere considerato quasi invisibile dalla madre e dal padre, che non avevano occhi per altri che per il tragicamente scomparso fratello Denny, l’unico capace di mostrare sensibilità e interesse per il suo lampante talento nella scrittura .

E non è certo una coincidenza che l’unico adulto incontrato dai protagonisti durante il loro viaggio, lo sfasciacarrozze proprietario del temuto cane Chopper, si comporti in maniera aggressiva e arrogante, sottolineando senza pietà i problemi di ognuno di loro e minacciandoli della rappresaglia più allarmante per aver varcato i confini del suo deposito, cioè rivelare le loro azioni ai rispettivi genitori.

Il cuore di questo film non risiede probabilmente nella rappresentazione nostalgica del passato, che per il 1986 di Stand by Me erano gli anni ’50, ma nella voglia e nella necessità di mettere dei ragazzini al centro di un racconto di formazione intimo e umano. Come altre opere dell’epoca (a partire da I Goonies), è un esplicito punto di riferimento per l’odierno revival degli anni ’80, spalancato da J. J. Abrams con il suo gioiellino Super 8 e portato al successo planetario da Stranger Things. In un simile contesto, appare del tutto naturale che la terza stagione della serie creata dai fratelli Duffer, a margine delle sfumature action e horror del racconto, nel momento dell’inevitabile crescita dei protagonisti si avvicini notevolmente ai toni e alle sfumature delle opere di King e Reiner, mostrando le preoccupazioni del piccolo Will Byers per il repentino cambiamento di carattere e interessi dei suoi amici.

In Stand by Me non ci sono però mostri soprannaturali (una rarità per King) a terrorizzare i protagonisti, ma al massimo dei gradassi spacconi di paese, tanto abili a prevaricarli con la forza quanto rapidi a dissolversi nel momento in cui Gordie li ripaga con la stessa moneta, puntandogli contro, senza paura, una pistola carica. I mostri che tormentano Gordie, Chris, Vern e Teddy, con l’eccezione del treno che per poco non li investe e delle sanguisughe che si attaccano ai loro corpi per l’ultimo breve spavento prima del finale, sono tutti interiori: la paura di non essere degni dell’amore dei genitori, lo sconforto per la reputazione, impossibile da scalfire, di cattiva compagnia, il rancore per la pessima nomea della famiglia. Nemici invisibili ma agguerriti, che condizionano la vita dei protagonisti e possono essere sconfitti solo con la solidarietà e il sostegno reciproci.

I quattro ragazzi comprendono quindi di essere lì non per il cadavere, che alla fine affidano senza troppi ripensamenti a una chiamata anonima alla polizia, quanto piuttosto per superare insieme una sorta di rito iniziatico, che prova a loro stessi di essere in grado di superare qualsiasi difficoltà e soprattutto di aver superato il confronto con i loro più dolorosi tormenti.

Come esplicitato dalla coinvolgente voce narrante di Richard Dreyfuss, che impersona lo scrittore di successo Gordie da adulto, in uno dei tanti elementi autobiografici kinghiani di Stand by Me, la vita purtroppo non va come immaginiamo da bambini. I volti che credevamo essere imprescindibili per la nostra esistenza scivolano lentamente nell’anonimato, scomparendo nel viavai di esperienze e persone che costella il percorso di ognuno di noi.

La conclusione dell’estate, la stagione che più di ogni altra ci appare sospesa nel tempo e nello spazio, con il suo crocevia di emozioni contrastanti fra loro, segna anche la fine dell’avventura dei protagonisti e l’inizio dell’allontanamento fra loro.

In quel Ci vediamo a scuola, più frase di circostanza che reale proposito, c’è la consapevolezza di chi sa che saranno proprio il percorso scolastico e le rispettive doti di apprendimento a separare Teddy e Vern da Gordie e dal caparbio Chris. Difficile poi non commuoversi con quella sovrapposizione fra vita reale e finzione scenica della dissoluzione di River Phoenix, che rimane per sempre giovane nei ricordi di Gordie e nei nostri di spettatori. Uno splendido talento che la realtà ha strappato all’amore dei suoi cari e all’ammirazione dei cinefili di tutto il mondo, in una maledetta notte di ottobre all’interno del torbido Viper Room di Los Angeles, e un personaggio la cui scomparsa diventa la madeleine di proustiana memoria per i ricordi del protagonista.

Un giorno tu diventerai un grande scrittore, Gordie. Potrai anche scrivere di noi, se sarai a corto di idee, dice Chris, prevedendo il luminoso futuro del suo amico, ma sottovalutando l’importanza di quegli scherzi, di quei giochi e di quelle tante piccole confessioni a cuore aperto di persone ormai sconosciute e riposte in uno dei tanti cassetti della memoria. Anche se quei momenti gioiosi e spensierati ci appaiono ormai lontani, quasi come un residuo di un felice sogno, ciò che abbiamo vissuto da ragazzi è diventato parte di noi e ha contribuito a formare il nostro immaginario e la nostra sensibilità, come del resto questo ineguagliabile lavoro di Reiner e King, dolceamaro inno all’infanzia perduta.

Non abbiamo più gli amici che avevamo a 12 anni, ma avremo sempre Stand By Me.

Questo articolo fa parte della Core Story dedicata a Stranger Things

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