Godzilla Singular Point è un paper accademico animato sui kaiju
Godzilla Singular Point è la prima incarnazione seriale del kaiju per antonomasia, con una riscrittura originale della sua fenomenologia.
Il 2021 è stato un anno particolarmente difficile per il Re dei Mostri. Non tanto perché ha avuto a che fare con uno scimmione particolarmente rognoso, ma perché è stato oggetto di contesa nell’affidamento assistito fra i suoi due genitori-tutori, il Giappone e gli USA. Un rapporto complesso che ha generato un figlio radioattivo complessato, che negli ultimi anni sta vivendo la sua quarta gioventù, per la prima volta da entrambe le parti del Pacifico.
Il padre statunitense, che lo vede un paio di volte ogni due anni, da bravo maschiaccio vecchio stampo sta insegnando al confuso Godzilla ad abbracciare il suo lato più caciarone e distruttivo, gli dice di farsi i muscoli a suon di bombe atomiche nei sensi e di uscire con quel poco di buono di King Kong. La madre orientale, che fino ad allora lo aveva sempre cresciuto in casa da sola, vuole invece ricordargli la sua eredità culturale come distruzione incarnata grazie all’aiuto dello zio Hideaki Anno, ma i suoi insegnamenti non hanno molto attecchito sulla mente ormai plagiata del lucertolone. Per questo la madre ha chiamato un nuovo insegnante privato, con lo scopo insegnare al piccolo Godzy una nuova disciplina: la fantascienza speculativa.
Tolta la metafora un po’triste e patetica - ma che meriterebbe di essere approfondita un giorno visto il complesso ruolo culturale di Godzilla - non c’è mai stato un anno migliore per il lucertolone nella cultura pop. Complice anche il ritardo della pandemia, nello stesso mese di marzo sono uscite due opere completamente diverse dedicate al kaiju per antonomasia. Se da una parte Godzilla tirava ceffoni alla scimmia, dal Giappone partiva invece la prima serie animata dedicatagli: Godzilla Singular Point, che ha appena raggiunto i lidi internazionali di Netflix.
Oltre ad essere la prima incursione in formato animato da protagonista del mostro (superata solo dalla serie tappa-disastro del Zilla di Emmerich) Godzilla Singular Point rappresenta una completa revisione del mito di Godzilla, ancora più profonda di quella operata da Shin di Anno a partire dal suo primo teorema: il kaiju non è più figlio della bomba atomica e delle radiazioni.
Qualcuno alla Toho ha deciso di rivoluzionare la formula per legarlo ai nuovi trend della fantascienza pop contemporanea, in particolare quella figlia di Interstellar e The Martian dove finalmente l’argomento scientifico viene trattato in modo molto più verosimile e con solide basi teoriche sotto. Per raggiungere questo scopo il regista veterano della serie Atsushi Takahashi ha ingaggiato direttamente come sceneggiatore Toh EnJoe, un ex dottorato di ricerca in fisica dei linguaggi naturali ora scrittore di fantascienza molto conosciuto in patria e anche criticato, ma di questo ne parliamo fra poco.
EnJoe su richiesta della produzione lavorò proprio sulla fenomenologia del personaggio: fino ad ora abbiamo sempre dato per buono l’assunto vecchio di mezzo secolo che se inietti radiazioni a caso in un animale questo può crescere fino a dimensioni colossali, ma questa idea è ormai considerabile fantasy becero. L’idea di partenza, la base su cui l’intero Singular Point poggia, è che Godzilla non potrebbe esistere nella nostra realtà nemmeno a livello fisico, ma tramite una sostanza sconosciuta chiamata Archetipo questa creatura impossibile riesce a manifestarsi, possedere una biologia credibile e crescere a ritmi spaventosi.
Il lucertolone non è più il Protettore dell’ordine naturale, ma l’Invasore e Distruttore del nostro piano esistenziale. Sembra quasi un Grande Antico di matrice lovecraftiana, ma invece che sfidare la ragione e il buonsenso dell’uomo devasta a suon di raggi atomici le nostre leggi fisiche.
Sotto questo piano, Godzilla UItima (il nome del nuovo design) è l’incarnazione ontologicamente più pericolosa mai concepita nella storia del brand.
Per sconfiggere una singolarità con la S maiuscola non servono i soliti ottusi militari, ma dei veri scienziati pronti a scoprire il mistero dietro i kaiju. Interessante è notare come non siano neanche degli uomini di scienza dotati di grandi fondi, ma accademici comunissimi che hanno solo il proprio ingegno e inventiva dalla loro parte. I due protagonisti Yun Arikawa e Mei Kamino rappresentano i due volti della ricerca: lui è un ingegnere informatico e quindi la componente empirica, mentre la giovane studentessa di biologia rappresenta la parte teorica del duo.
La loro unione tramite le continue chat testuali forma il detective della storia, forse la prima componente umana avvincente in una storia di questo tipo che non cade in scemenze e teorie complottistiche. Fanno teorie, studiano altre ricerche, le testano sul campo e osservano il mondo che li circonda con occhio maniacale. Questa coppia di personaggi sono forse fra gli scienziati fittizi più realistici mai scritti in un prodotto recente, fino al parlato e la terminologia specifica che utilizzano.
Ma Godzilla non è il solo presente alla festa: nelle tredici puntate una significativa manciata dei kaiju della prima era Showa fanno la loro comparsata, alcuni con nuovi sfavillanti design come Anguirus, altri completamente ripensati come Rodan, una minaccia onnipresente per tutta la storia. Prima di vedere il mostro titolare dello show bisogna aspettare quasi metà serie, ma l’azione non manca, specialmente per mettere in scena la vera star, il tanto bistrattato Jet Jaguar costruito da Yun. Il robot, che ricompare nel franchise per la seconda volta dopo Godzilla vs Megalon del 1973, ruba la scena ogni volta che compare ed è interessante notare l’evoluzione del suo design e stile di combattimento ad ogni match con i vari mostri grazie ai continui miglioramenti meccanici impiantati dal suo creatore.
A differenza degli umani e dei fondali che sono disegnati e animati in 2D dal blasonato studio di animazione Bones, i mostri sono stati realizzati in CGI dal team Orange, gli autori del sorprendente Beastars. Questo contrasto può inizialmente dare fastidio se siete fra i puristi, ma col tempo l’eccellente lavoro di composition delle scene non fa pesare troppo il distacco visivo, anzi accentua quell’alienità che le creature dovrebbero trasmettere, oltre ad essere un interessante rimando stilistico alle origini tokusatsu del genere. No, non sembrano uomini dentro tute di plastica, se è quello che temete.
L’unico vero problema di questa serie risiede proprio nella scrittura di EnJoe, o perlomeno nella sua presentazione, in cui fa emergere la vastissima conoscenza accademica trionfante sulla narrativa. Avendo (veramente) tanto da spiegare, lo scrittore spesso si è concentrato unicamente sul raccontare il complesso sistema teorico che ha imbastito per la serie tramite le voci dei suoi personaggi e spesso possono risultare incomprensibili a chi non mastichi un minimo di scienze naturali e fisica quantistica.
A questo giro il cervello vi tocca accenderlo, non potete limitarvi a vedere i mostri darsele di santa ragione.
Ammetto che anche io, che ho visto la serie in compagnia del mio migliore amico paleontologo, ho interrotto più volte la visione in media res per chiedergli spiegazioni e conferme, ma ho trovato tutto questo parte del fascino della serie. Questo tipo di scrittura però inevitabilmente divora interi connettori narrativi significativi e inficia la fluidità della storia, specie per comprendere alcune motivazioni dei personaggi più ambigui e i passaggi più cervellotici. Uno spettatore occasionale probabilmente mollerà la visione dopo poche puntate per colpa della quantità esorbitante di dialoghi impenetrabili, il che spiega l’accoglienza tiepida al di fuori del fandom del lucertolone nella comunità degli appassionati di anime e da chi si aspettava uno show più dinamico.
A differenza della reinterpretazione del papà di Evangelion che era un enorme rimando alla pellicola originale di Ishiro Honda del 1954, Godzilla Singular Point vuole essere una enorme celebrazione dell’amato/odiato periodo Showa del personaggio, configurandola come un prodotto di intrattenimento fatto e finito, per nostra fortuna eliminando la componente camp per cui il franchise divenne noto (qualcuno ha detto dropkick?). Non vuole far passare messaggi antibellici o ecologisti, ma il tutto funziona senza scadere nello spettacolino parascientifico e a tratti imbarazzante in cui si è impantanato il Monsterverse americano. Se riuscite ad oltrepassare la spessa barriera terminologica, vi troverete probabilmente l'opera di Godzilla più particolare e unica che il franchise abbia mai prodotto. Forse guardando questa serie animata capiremo che per il bene del piccolo lucertolone sia meglio che non frequenti più di tanto il rozzo padre. Che poi, di fatto, padre non lo è mai stato.