In questo suo recente saggio dedicato a Games of Thrones, Tommaso Ariemma spiega come si può insegnare tramite le serie tv.
Tommaso Ariemma è un filosofo che insegna Estetica all’Accademia di Belle Arti di Lecce. È diventato noto, come spiega anche in questo agile volume del Melangolo, per “La filosofia spiegata con le serie tv” (Mondadori 2017) in cui riporta le sue esperienze di docente alle superiori e all’università tramite la nuova serialità come chiave per mediare contenuti filosofici.
In questo “Game of Thrones – Imparare a stare al mondo con una serie TV”, Ariemma si concentra su questo specifico serial, narrando come, a partire dal 2015, abbia introdotto riferimenti alla serie nel proprio lavoro in classe. In una avvincente, briosa narrazione autobiografica, Ariemma ci presenta la sua scoperta di “Game of Thrones” a partire dai suoi studenti dell’Accademia, e la successiva restituzione didattica a partire dal confronto con gli studenti stessi.
Ne emergono numerosi spunti brillanti: l’importanza del corpo – e dei corpi difformi: nel crudele mondo di Westeros, molti sono mutilati in vario modo, e restano comunque personaggi centrali, a loro modo “vincenti”, non intrappolati in un marginale stereotipo patetico – ma anche l’importanza dell’araldica, dello stemma, e ovviamente della sua intersezione con la corporeità: un elemento che ci restituisce qualcosa di rilevante di un’era a noi distante, tra Medioevo e Rinascimento, ma dice anche molto del nostro rapporto col corpo oggi.
Del resto, “Il trono di spade”, come il ciclo di romanzi di Martin da cui origina, le “Cronache del Ghiaccio e del Fuoco” (e anche su questo elemento, Ariemma scrive pagine pregnanti sulla valenza simbolica del rimando agli elementi empedoclei nell’opera), nasce da un complesso mash-up storico. Stark e Lannister risuonano molto simili a York e Lancaster, i protagonisti dell’estenuante guerra delle due Rose. Westeros infatti richiama da un lato l’Inghilterra medioevale – divisa in sette regni: e molti episodi celebri del ciclo rielaborano elementi della storia inglese, a partire dalle famigerate “Nozze rosse”.
Dall’altro canto, è – anche etimologicamente – “L’occidente”: l’Europa cristiana tra alto e basso medioevo, in ricerca di un fragile equilibrio tra la pressione a Nord dei vichinghi e quella a Sud dei saraceni.
Ariemma, da filosofo, prende comunque questi punti “storici” (in ogni caso profondamente rielaborati in chiave fantastica) solo come punto di partenza per riflessioni ad ampio respiro sul concetto di legge, di potere, di relazione.
Da collega – solo di scuola superiore – di Ariemma, ho trovato questo agile volume particolarmente significativo e illuminante. Come Ariemma, ho introdotto spesso la cultura pop nella mia attività di insegnamento, in ambito storico e in ambito letterario, con tangenze e distanze da quanto fatto da lui: talvolta anche proprio su Games Of Thrones, specie nel periodo in cui massima era la sua voga tra gli studenti (oggi, chiuso il ciclo, resta d’interesse per la nicchia, consistente ma non omnicomprensiva in un Itis informatico, dei cultori del fantasy). Confrontare il proprio lavoro scolastico in quello di un collega particolarmente brillante è un modo per compiere un ragionamento: può essere stimolante per chi fosse distante da questi metodi ma ne fosse curioso, secondo quell’apertura mentale fondamentale per l’attività di insegnamento (che implica anche, come Ariemma mette bene in campo, la disponibilità ad apprendere dai propri allievi).
Ma è un volume altrettanto affascinante - forse di più - per chi questi metodi li condivide, e spesso si trova un po’ isolato (un tempo più di oggi, va detto, dato l’attuale ingresso di generazioni di docenti più giovani, sia pure col contagocce, e più vicini a queste forme di narrazione). Personalmente, ho spesso usato Games of Thrones in chiave anedottica, per gli elementi che permettono di cogliere, in modo magari analogico, concetti fondamentali come l’importanza del controllo delle vie di comunicazione (mai mettersi contro chi controlla un ponte vitale negli spostamenti, dicono), l’astrazione del potere (il re barbaro che, nella prima stagione, non comprende l’ossessione per una “sedia di ferro”, così come molti barbari non comprendevano l’idea e l’astratto culto per “Roma”).
La lettura di Ariemma, pregnante e significativa, la approfondirò e magari la integrerò quando, più avanti in quest’anno, affronterò di nuovo il buon vecchio Machiavelli in terza. Ma, al di là della serie specifica, il volume di Ariemma ha tra i suoi punti di forza appunto la discorsività, il suggerire piuttosto che il normare, e può condurre a un più ampio recupero della pop culture. Anche Lorenzo Fantoni, nel suo “Vivere mille vite”, ha accennato ai possibili usi didattici del fumetto, pur non essendo il punto centrale; e personalmente, pur non avendo ancora trasformato questo in annotazioni teoriche sistematiche e pubblicate, ragiono spesso – con altri colleghi che condividono questa prospettiva di ricerca – sulle possibilità didattiche del fumetto (su cui c’è già, ovviamente, vasta bibliografia). I volumi di Ariemma, che approfondirò, possono in qualche modo essere un punto di partenza, quasi un manifesto, per una nuova didattica umanistica in grado di accettare le sfide del futuro. Naturalmente, le sfide dell’insegnamento del domani sono complesse e molteplici: ma sicuramente la cultura pop dovrà fare parte dell’orizzonte, molto più di oggi.