Affinità e divergenze tra l’adattamento cinematografico di Alita e me
Ogni adattamento cinematografico porta con sé dei compromessi, ecco cosa ci è piaciuto e cosa no nella versione di Alita di Rodriguez e Cameron
Quando sono uscito dalla proiezione di Alita, ormai più di una settimana fa, non ero certo del mio giudizio, da una parte le scene d’azione, la resa praticamente perfetta della Città Discarica e l’ottima resa della protagonista mi erano piaciute, dall’altra lo trovavo un film che tutto sommato falliva in alcuni punti cardine e nel suo concentrare centinaia di pagine in poco tempo risultava inevitabilmente una compressione che banalizzava alcuni concetti essenziali. Restava da capire quanto peso dare ai pro e ai contro. La storia breve è che il peso è spesso soggettivo, ma qua sotto analizzeremo le conseguenze dell'adattamento sul racconto.
James Cameron adora Alita, questo ormai si è capito, è un progetto che insegue da quasi vent’anni e questo amore si riversa nella resa praticamente identica di tutto ciò che fa da contorno e in lei, una protagonista umana e aliena, dolce e terribile, rassicurante e perturbante.
Con i dovuti aggiustamenti avvenuti in corsa, anche la scelta degli occhi digitali si rivela vincente e non un fraintendimento sul perché nei manga troviamo gli occhi grandi. Rende il personaggio di Alita altro rispetto al mondo che la circonda, sensazione che si aveva anche nell'opera originale, ed è solo la punta di un iceberg di effetti digitali spettacolari, di corpi cibernetici con brandelli di umanità, di pistoni, ossa, muscoli e lame che si mescolano per generare un immaginario cyberpunk ben definito, che finalmente si ricorda il lato più sporco di una corrente letteraria dalla quale ultimamente il cinema sembra aver attinto solo i lati più “cyber” e meno “punk”.
L’unica paura è che questo immaginario arrivi fuori tempo massimo e risulti ormai un bellissimo “già visto” che la maggior parte del pubblico accoglierà con una certa freddezza.
Funzionano alla grande anche le scene d’azione, forse addirittura più che nel fumetto, dove a volte potevano risultare caotiche. Il Panzer Kunst, l’arte marziale cibernetica che Alita conosce in maniera inconscia è portata sullo schermo con grazia, precisione e maestria, rendendo ogni combattimento un momento da godersi al massimo, senza distrazioni. Credo che questo sia uno dei pochi film di botte recenti in cui non mi è capitato di perdermi dietro a movimenti di macchina troppo veloci o inquadratura eccessivamente ravvicinate. Ma d’altronde oh, c’è Rodriguez a puntare il suo occhio, mica l’ennesimo regista raffinato che si presta al cinema d’azione con la paura di sporcarsi troppo.
Le sezioni del Motorball spiccano per composizione, pulizia ed esecuzione. Ogni inquadratura ha un senso, ogni gesto esaltato al massimo, un perfetto equilibrio tra dinamismo e capacità di raccontare il momento senza sbavature. Insomma, è cinema. Se nelle sinapsi hai ancora i ricordi di Speedball II puoi sentire le tue endorfine che fanno un trenino conga e alla fine vorresti che l’intero film ti raccontasse la trasformazione di Alita in una campionessa suprema.
Al di là delle scene d’azione, dove brilla, la scrittura di Alita è convincente in moltissimi punti. Eroina che ama la vita, ma brama lo scontro, pronta a salvare chi ama senza aver bisogno di niente e di nessuno, se non di un corpo nuovo che sia in grado di adeguarsi alle sue capacità. Ma d’altronde bastava seguire il binario tracciato da Kishiro, senza troppi scossoni, anche tagliando e semplificando, invece si è deciso di fare altro.
E invece purtroppo è qua che alcuni dei nodi più grossi arrivano al pettine. Non parlo da fan deluso, non voglio fare impietosi paragoni tra l’inevitabile compressione di un film che in trenta minuti passa da Alita che non sa camminare a lei che scopre tranquilla le sue origini marziane, quello fa parte del gioco, parlo proprio di alcune scelte poco coraggiose che qualcuno ha ritenuto necessarie per ammorbidire alcuni aspetti che il fumetto considerava poco importanti ma che evidentemente lo diventano per una produzione cinematografica. Scelte che si appoggiano all’anime, più che al manga, che infatti è un prodotto decisamente inferiore.
Partiamo dalla cosa più semplice: il nome di Alita. Nel fumetto viene subito esplicitato che viene da un gatto morto da poco, maschio per giunta, mentre nel film diventa quello di una fantomatica figlia uccisa da un giocatore di Motorball impazzito che era entrato nella clinca per rubare. Di questa bambina Alita eredita non solo il nome, ma anche anche il corpo che lei, ridotta sulla carrozzina, non è mai riuscita a utilizzare (mentre nell’originale erano semplicemente pezzi trovati in giro).
Anche meno.
Questa aggiunta dovrebbe dare maggior forza alle motivazioni che tengono Daisuke Ido lontano dal Motorball e che lo hanno portato a diventare un cacciatore di taglie, ma finiscono per impoverire e banalizzare un rapporto che era basato proprio sul fatto che Ido vuole bene ad Alita non perché le ricorda la figlia, ma un po’ come Geppetto vuole bene a Pinocchio, perché è la cosa più bella che ha creato al mondo e vuole difenderla, non in quanto surrogato della figlia.
Alita è Alita, non ha bisogno di essere nient’altro e il suo nome viene da un gatto, punto.
Questa semplificazione ha come conseguenza ulteriore l’inserimento di un personaggio nuovo (già apparso nell’anime a dire il vero): Chiren, moglie di Ido e madre della bimba defunta che si è allontanata per cercare fama, fortuna e un ritorno a Salem. Chiren è costantemente divista tra l’aiutare Alita o utilizzarla per i suoi scopi, è un personaggio che non riesce mai a trovare una sua collocazione e motivazione interessante se non quella di mostrare Jennifer Connely in reggicalze, che è senza dubbio un intento nobile, ma poco legato al film. Se la togliamo dalla storia e lasciamo che sia Alita a collegare Yugo al proprio supporto vitale (come nel manga) non cambia assolutamente niente.
Un altro punto sul quale il film decide di prendere una strada tutta sua è il rapporto tra Alita e Yugo, che qua viene dipinto come la classica storia di amore adolescenziale, con tutti i cliché del caso, dal giro in moto con lei abbracciata dietro di lui a lui che le insegna qualcosa per introdurla nel suo mondo. Nel fumetto il rapporto tra i due resta sempre nel campo del non detto, lei nutre un sentimento profondo per Yugo, ma non viene quasi mai esplicitato, se non alla fine. Non ci sono baci o carezze e pochissimo contatto fisico, quasi a simboleggiare la natura artificiale di Alita che la separa dal mondo di chi vive ancora nel suo corpo.
Nel fumetto Yugo è molto più concentrato nel suo sogno di ascesa verso Salem e molto meno incline al corteggiamento, mentre Alita cerca di aiutarlo. Il finale è simile, ma anche qua ci sono differenze: nel film il ragazzo ammette più volte di essere pentito per ciò che ha fatto, diventando di fatto “buono”, ma resta saldo nella sua voglia si arrivare in alto, nel manga invece non c’è alcun pentimento per i crimini passati, ma proprio un attimo prima di morire decide che è meglio stare con Alita.
Sono piccoli cambiamenti, all’apparenza impercettibili, ma che sulla lunga distanza modificano i significati e i messaggi. L’adattamento rende senza dubbio più leggibile il loro rapporto, ma per certi versi lo banalizzano, lo appiattiscono e rendono anche molto più difficile un coinvolgimento emotivo da parte dello spettatore, che si trova semplicemente di fronte all’ennesima storia d’amore adolescenziale in cui lei ama lui e fa tutto ciò che può per aiutarlo mentre lui la inganna, poi si pente e infine subisce comunque una punizione per i suoi peccati e la hybris di voler essere più di quel che è. La mancanza di una risoluzione della tensione erotica tra i due arricchisce la narrazione del manga, rende ancora più forte il distacco tra i due e più intenso il sentimento di Alita, che non viene quasi mai corrisposto, se non un attimo prima della fine.
Arriviamo infine all’errore più grande: la gestione di Desty Nova. Nel manga Nova è una presenza che vive ai margini per molto tempo, una sorta di eminenza grigia dietro ai principali avversari di Alita, un reietto di Salem che vive in una sorta di dungeon personale come la versione cyberpunk di uno stregone cattivo. Inizialmente non è un vero antagonista di Alita e diventerà col tempo una figura complessa e stratificata.
Nel film invece il suo aspetto di burattinaio viene esaltato dalla sua capacità di prendere brevemente possesso dei corpi altrui dall’alto di Salem senza che si spieghi mai veramente perché vuole uccidere Alita (forse per studiarla? Non è mai troppo chiaro) e senza che gli venga mai dato spazio per definire le sue azioni. È cattivo perché è cattivo, fine. Lasciarlo fuori o al massimo farne intuire la presenza in vista di un seguito sarebbe stato più saggio e meno confusionario.
Anche il finale, criminalmente lasciato fin troppo aperto a un eventuale seguito (che a questo punto spero ci sia), non chiarisce assolutamente niente. Se non avessi letto il manga non avrei assolutamente idea del perché mi dovrebbe in qualche modo interessare Edward Norton con gli occhialetti e i capelli bianchi che mi guarda male dall’alto.
Questi dettagli, uniti all’inevitabile compressione della narrazione, impediscono una connessione profonda con una storia risulta frettolosa, banalizzata, semplificata e dunque anche più facile da dimenticare, meno incline a creare una connessione con lo spettatore (almeno, con questo spettatore). Non siamo di fronte a un’occasione mancata, ma senza dubbio un po’ di coraggio avrebbe reso questo film ancora più interessante e intenso da vedere.
Alita è un film con un’azione spettacolare, una protagonista adorabile, una ricostruzione da mascella a terra, effetti speciali e una storia che hai dei momenti molto belli, controbilanciati da situazioni deboli, confuse, a tratti noiose e prevedibili. Come sempre, sta allo spettatore decidere il peso del tutto. Questo però non aiuta un’opera di nicchia che arriva forse un può fuori tempo massimo sul ritorno di fiamma del cyberpunk, sta già soffrendo al botteghino (magari la Cina la salverà) e che rischia di risultare poco interessante per i più giovani e per chi non ha venerato l’originale.