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Tom Bombadil: apologia di un anarchico

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Tra le derive autoritarie del presente e i dilemmi letterari del passato, un inatteso punto di incontro: Tom Bombadil.

“Chi è Tom Bombadil?” è una domanda ambigua, e può essere posta con due significati diversi. Il primo è quello di chi non ha mai letto Il Signore degli Anelli, conosce solo i film di Peter Jackson e dunque è completamente ignaro dell’esistenza di un anziano bizzarro che vive nella Vecchia Foresta, è completamente immune alla corruzione dell’Unico Anello e comanda gli spiriti della natura e gli spiriti dei morti con la stessa facilità con cui saltella fra le margherite. Compare solo ne La compagnia dell’anello, e grazie al suo intervento provvidenziale (un vero e proprio deus ex machina) gli Hobbit scampano per ben due volte a un destino gramo. Più vecchio della terra stessa, esisteva in Arda sin da prima che vi arrivasse Melkor (il capetto di Sauron), e alla domanda “Chi sei?” risponde semplicemente con: “Sono.”

Insomma Tom Bombadil è un mistero, e su questo mistero si innesta il secondo significato della domanda: ma chi è Tom Bombadil? A questa domanda, nel tempo, chiunque ha dato qualunque risposta. Tom Bombadil sarebbe un Valar (una divinità), un Maiar (una divinità minore), Ilùvatar (Dio), la Fiamma Imperitura (una specie di Spirito Santo), uno spirito della natura (se non la Natura stessa), Tolkien, il lettore, tuo cugino Giovanni quello che consegna le pizze e addirittura l’Anticristo. Di fronte di questa maniacale ricerca della Verità, sta un personaggio che molti (Peter Jackson compreso) ritengono inutile, quantomeno dal punto di vista narrativo: gli eventi non sono minimamente influenzati dal vecchio Tom, la cui storia risulta essere poco più che un intermezzo - una vera e propria anomalia.

In realtà, se si affronta il mistero dal punto di vista della pura intenzione autoriale, basta scorrere l’epistolario Tolkieniano per arrivare a una soluzione apparentemente tombale: “anche in una realtà fantastica devono esserci dei misteri, e Tom Bombadil è uno di questi (intenzionalmente)”. Nato dal ricordo infantile di una vecchia bambola, Tom Bombadil viene inserito nel racconto perché “esisteva già” (qualche anno prima Tolkien aveva pubblicato la raccolta di poesie Le avventure di Tom Bombadil), il Professore voleva “che in quel punto della storia ci fosse una parentesi avventurosa” e in definitiva è un personaggio che “non ha bisogno di filosofeggiamenti”. Come vedremo Tolkien dice anche altro, ma vale la pena partire da qui per affrontare un primo punto: la ricerca ossessiva, da parte del fandom, di un significato univoco, nonostante l’esistenza di una spiegazione autoriale molto semplice.

In realtà è un’incongruenza presto spiegata: la spiegazione autoriale, semplicemente, non basta. Molto più forte è il desiderio del lettore di inquadrare, di incasellare il fenomeno-Bombadil dentro le categorie di appartenenza del mito Tolkieniano: ogni mistero solletica l’immaginazione e nemmeno uno dichiaratamente irrisolvibile può cancellare questo impulso. Basta leggere i forum dedicati alla terza stagione di Twin Peaks. È uno dei punti di forza delle comunità nerd: la passione per la ricerca, per l’approfondimento, per la comprensione. Una passione che in questo caso travolge persino la sacra autorità del Professore. È, insomma, una forma di interpretazione che va oltre le intenzioni dell’autore e cerca una soluzione al mistero dentro l’opera, riconoscendole dignità autonoma come fonte di senso. Già questo basterebbe a fare di di Tom Bombadil una figura eccezionale, visto che le normali diatribe sulla saga non vanno al di là del pensiero e delle intenzioni del suo autore.

Questo tipo di esercizio interpretativo è però ancora limitato ai significati diegetici; cerca cioè di contestualizzare Tom Bombadil all’interno della narrazione, ma non si interroga sul suo valore allegorico (salvo per il Bombadil-Tolkien e le altre letture oltre la quarta parete). C’è chi rizza il pelo di fronte all’idea di una simile ricerca, giacché pare che Tolkien avesse in odio le allegorie (e non dimentichiamoci che su Bombadil non c’è da filosofeggiare). Ma qui si svelano tutti i limiti di un’interpretazione puramente autoriale: l’epistolario Tolkieniano è una ridda di contraddizioni, non solo sul valore che l’allegoria assume all’interno dell’opera ma anche e soprattutto sullo stesso Tom Bombadil.

In un’altra lettera è proprio Tolkien a suggerire che per scardinare il mistero del vecchio Tom si debba mutare prospettiva interpretativa: se infatti  “Tom Bombadil non è un personaggio importante ai fini della storia”, scopriamo anche che “[ha] un’importanza come ‘commento’ [...] Rappresenta qualcosa che ritengo importante, anche se non saprei dire esattamente cosa. In ogni caso non lo avrei lasciato se non avesse avuto una qualche funzione.” Ecco che il mistero dichiaratamente irrisolvibile ha una parziale spiegazione: la natura stessa di Tom Bombadil (il suo essere) è fuori dalla diegesi e coincide con il suo valore allegorico - con ciò che rappresenta, appunto. Non sembra assurdo insomma considerare Tom Bombadil come pura allegoria, visto che lo stesso autore in qualche modo lo ammette quando dice che “L’ho lasciato nella storia così come era, poiché rappresenta certe cose che altrimenti sarebbero rimaste fuori. Non lo considero un’allegoria [...] ma [considerato che] ‘allegoria’ è l’unico strumento con cui esprimere certe funzioni [...] allora è una ‘allegoria’”.

Questo è molto interessante perché permette di creare un terreno di incontro fra i due approcci all’interpretazione di cui sopra - quello basato sulla ricerca dell’intenzione autoriale come unica possibile fonte di senso e quello basato sul riconoscimento della capacità autonoma dell’opera di produrre senso. Dato che l’autore ci suggerisce che il valore allegorico del personaggio coincide con la sua natura, ma lui stesso non saprebbe definirlo precisamente; e dato che nessuno può avere l’arroganza di ergersi a psicanalista del Professore; allora tanto vale abbracciare il “metodo Nacci”, e portare avanti una ricerca del senso che vada anche oltre i significati puramente diegetici.

Interrogarci insomma sul valore allegorico del personaggio, come il Professore avrebbe voluto che facessimo, ma al di fuori di quelle intenzioni autoriali che per il Professore stesso restano inesprimibili (con tutte le necessarie conseguenze in termini di interpretazione “creatrice”). Può sembrare un cherry picking delle sue affermazioni, ma non lo è: l’intrinseca fallibilità dell’interpretazione autoriale ci porta a scegliere di prestare ascolto a quel Tolkien che riconosce espressamente l’esistenza di un cuore segreto e allegorico del personaggio, per portare avanti un ermeneutica che rimetta al centro la storia e magari offra spunti spendibili nel reale (sempre per raccogliere un invito del Nacci); senza per questo dover comunque rinunciare in toto alle parole dell’autore. Il tutto ci porta a riformulare la domanda: non già “chi è Tom Bombadil”, ma “cosa rappresenta Tom Bombadil”? O addirittura: cosa possiamo imparare, da Tom Bombadil?

Per rispondere è bene partire da una delle tante, possibili letture allegoriche dell’intero libro: sullo sfondo della sempiterna lotta tra Bene e Male, Tolkien ci parla del Potere e del suo rapporto con l’Uomo. L’Unico Anello (il Potere) è la tentazione principale che Sauron (il Male) pone di fronte all’Uomo, per ingannarlo e infine distruggerlo. Frodo sceglie di rinunciarvi (con un piccolo aiutino da parte della provvidenza divina, Gollum), e con la sua storia ci mostra la possibilità che è data anche al più piccolo degli uomini: dire “no” al Male, alle lusinghe del Potere (malvagio per definizione), e nonostante le avversità vincere. Va detto però che l’argomento non si esaurisce con l’Unico Anello. L’intera vicenda di Aragorn affronta il tema del Potere da un punto di vista totalmente opposto, in virtù del quale esso non è intrinsecamente malvagio bensì una responsabilità alla quale sono chiamati gli Uomini migliori. E come ci ricorda il Professore, le stesse forze dell’Ovest hanno bisogno di esercitare contro Sauron un qualche tipo di “potere” per vincere (“Entrambe le parti [...] desiderano avere una certa misura di dominio”.)

In questo senso si può dire che Tolkien ci mostra due possibili approcci al potere: scoprirlo, subirne le lusinghe e il peso, e attraverso un’ordalia terrificante infine rinunciarvi; o riconoscerne la necessità e provare a usarlo per il bene superiore. All’interno della narrazione sono, ovviamente, due “poteri” ben diversi; ma poiché nel nostro mondo bene e male non sono concetti proprio esatti, da questi diversi approcci ne possiamo trarre una lezione universale sulla natura contraddittoria del potere, che è al contempo l’origine di tutti i problemi e lo strumento con cui risolverli. Questa contraddizione resta inespressa nella narrazione, proprio perché lì si parla di “poteri” differenti; ma resta comunque uno dei significati che si possono trarre dal testo.

Ambrogio Lorenzetti-Allegoria del cattivo governo

Con buona pace dei più radicali escapisti, un discorso sul potere ha in sé qualcosa di inevitabilmente (radicalmente!) politico. La contraddizione di cui sopra è proprio quella che gli Stati di diritto, nel mondo reale, cercano di risolvere attraverso il principio della separazione dei poteri, e più in generale è il motivo per cui oggi si dovrebbe guardare con sospetto a eccessivi accentramenti di potere. Lo stesso Tolkien, per quanto monarchico e cattolico, si è ritrovato a parteggiare nelle sue lettere per una “anarchia [...] filosofica, intesa come abolizione del controllo”, giacché “il lavoro meno appropriato per qualunque uomo, compresi i santi [...] è quello di comandare altri uomini.” (Tolkien anarchico!) Pare assurdo che un’idea tanto banale stia venendo dimenticata, eppure i dati parlano chiaro: i regimi autoritari raccolgono consensi, e più in generale l’opinione pubblica perde fiducia nei sistemi democratici, covando il sogno umido di un potere sempre più accentrato (anche se negli USA l’effetto-Trump pare aver parzialmente invertito il trend.) I “leader forti” vengono acclamati come rivoluzionari, in una sorta di bizzarra feticizzazione del potere esibito che non solo ne ignora i risvolti etici ma anche i profili di illogicità. E già questo dimostra quanto Il Signore degli Anelli, con la sua lezione un po’ nascosta ma attualissima sul potere, abbia ancora da dare.

Nella logica manichea della narrazione, la risposta a un potere “malvagio” è dunque un potere “buono”; nella logica del mondo vero, la risposta alla contraddizione intrinseca al potere è la sua ri-distribuzione. In entrambi i casi comunque può dirsi che l’orizzonte sia pragmatico: come non ci si può sottrarre al confronto con il male, così non ci si può sottrarre agli inevitabili compromessi che il potere, per quanto frammentato e “neutralizzato”, comporta. Ecco, di fronte a questo pragmatismo Tom Bombadil offre un orizzonte radicalmente diverso, una anomala “terza via”: l’utopia. Tom Bombadil prende in mano l’Unico Anello e ride, lo tratta come un ninnolo qualunque: per lui il potere non ha alcun significato. Tom Bombadil rifiuta il potere, e non in una fuga escapista (come quella iniziale di Aragorn/Grampasso, che sceglie il ramingato al posto della corona): egli ne è completamente immune, completamente libero, ed è ben contento di esserlo.

Nella narrazione questa è anche la sua maggiore debolezza. Al Concilio di Elrond qualcuno propone di dare l’Unico Anello a Bombadil, ma Gandalf scuote la testa: il vecchio Tom a certe cose non ci bada, lo butterebbe con l’umido, se lo dimenticherebbe. La sua innocenza Adamitica è il motivo per cui non c’è spazio, per lui, nel grigio realismo del cammino dei Nove. Per usare le parole del Professore “Se si [...] rinuncia al potere, e si apprezzano le cose in se stesse [...] dedicandosi all’osservazione e alla conoscenza [...] allora il potere diventa privo di significato. [...] Ma nella visione degli Elfi [...] solo la vittoria dell’Ovest permetterebbe a Bombadil di sopravvivere. Niente rimarrebbe, per lui, nel mondo di Sauron”. L’utopia di Bombadil non riesce insomma a esprimere una reale funzione nella storia, perché nella storia il problema del potere coincide con il problema del male. E come il male va affrontato e sconfitto, così i limiti e le contraddizioni intrinseche al potere devono essere accettati: questo vuole la “visione degli Elfi”, l’approccio pragmatico alle cose. Ma siamo certi che questa visione sia l’unica possibile? Verrebbe da dire di sì. In fondo il pragmatismo, nel Signore degli Anelli, funziona: il Re ritorna, e tutti vincono. Giusto?

Sbagliato. Perché nessuno dei Nove, alla fine, vince davvero. Nessuno di loro troverà mai pace in Arda: sarà solo oltre i Porti Grigi che potranno finalmente liberarsi dal fardello del proprio passato. Vale a dire: da morti. Insomma, è solo nella diversa utopia di Valinor che si realizza una vittoria completa. Il che non stupisce, dopo tutto il professore era un cattolico convinto. Questo ci aiuta a capire che la visione degli Elfi si accompagna a una considerazione amara: in ultima analisi e al netto delle vittorie, non c’è vera felicità in terra. Il potere (leggi: il male) non condanna il mondo, ma avvelena irrimediabilmente lo spirito. Il pragmatismo serve, al più, a metterci una pezza. Intanto si aspetta di crepare per star bene con Dio-ehm, con Manwë. Insomma, nella logica manichea del Signore degli Anelli un’utopia in terra è inconcepibile, sia perché non può esistere all’ombra del male sia perché comunque, anche una volta sconfitto il male, la vera felicità appartiene a Valinor. Ecco perché Tom Bombadil è così strano: non solo è irriconducibile al legendarium Tolkieniano, ma esprime dei valori radicalmente incompatibili con un mondo come Arda, dove bene e male sono concetti assoluti e gli Dei ci regalano l’eternità.

Ed ecco perché noi, che a Valinor probabilmente non ci andremo, dovremmo recuperare l’utopia di Tom Bombadil. Questo non significa necessariamente darsi all’anarchismo (che è in fondo il modello di organizzazione sociale in cui si traduce un rifiuto assoluto del potere); significa quantomeno prendere atto dei limiti del pragmatismo come metodo. È difficile negare che certe forme di pragmatismo politico ormai rasentano l’assurdo: da una parte si paralizza qualunque forma di azione nel timore di “dare voti” all’avversario, dall’altra si legittimano comportamenti se non abietti quantomeno discutibili. Se la “visione degli Elfi” ci riduce, alternativamente, impotenti o eccitati di fronte alle perversioni del potere, evidentemente qualcosa non funziona. Ricominciare a ragionare in un orizzonte utopico potrebbe essere la soluzione. Non un’utopia dell’oltre vita, ma un’utopia in terra (laica insomma): quella terza via al potere che nel mondo di Tolkien non poteva funzionare, ma che forse qui ha ancora qualcosa da dare.

 

https://www.youtube.com/watch?v=-US1pi0OW1E&feature=youtu.be&t=42s

 

In quali pratiche dovrebbe realizzarsi questo esercizio? Non lo so. Forse un’utopia come quella di Bombadil può essere perseguita a livello unicamente individuale, e in effetti per certi versi riecheggia il “distacco” di stampo buddhista. Il che, comunque, non esclude che la si possa tradurre in una dimensione collettiva (“una risata vi seppellirà”). Lo stesso Professore pare suggerirci che la visione di Bombadil, se non altro, è quella maggiormente capace di abbracciare l’interezza del mondo e delle cose, giacché non subisce la limitatezza di un “determinato punto di vista [sull’Universo] che lascia inevitabilmente fuori molte cose” (Tolkien mistico!). E anche se così non fosse, come ricordava Eduardo Galeano, l’utopia è un po’ come l’orizzonte: uno si avvicina di due passi, e lei si allontana di altrettanti. E allora a cosa serve? Be’, ma a camminare.

Nota: l’epistolario Tolkieniano preso a riferimento è contenuto in “THE LETTERS OF J.R.R. TOLKIEN, A selection edited by Humphrey Carpenter, Houghton Mifflin Harcourt, Boston New York, 2013”; le lettere citate sono le n. 52, 144 e 153.

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