The First Man, l’umanità di una impresa straordinaria
Un film che fugge dal patriottismo esasperato per concentrarsi sul realismo e il tranquillo eroismo di uomini che erano pronti a rischiare tutto
The First Man, è un film sullo spazio e sull'eroismo, ma è soprattutto una sinfonia di metallo e follia.
20 aprile 1962, Neil Armstrong è ancora “solo” un collaudatore di aerei supersonici X-15, ovvero dei razzi lanciati da bombardieri a in cui qualcuno ha deciso di mettere un paio di ali e un pilota. Sta volando a Mach 5 a un’altitudine di circa 68 km di altezza, praticamente è quasi nello spazio e se batte gli occhi ha già attraversato due chilometri. Il mondo attorno a lui vibra e si scuote come se fosse dentro una botte lanciata da una cascata, mentre la logica protesta perché un uomo non dovrebbe poter fare una cosa così senza morire pazzo. Gli X-15 funzionavano così: venivano lanciati da un B-52, consumavano tutto il carburante in fase di salita e poi planavano a motore spento verso un lago salato dove atterravano su un carrello a slitta.
In fase di rientro Neil si ritrova però in una brutta situazione: il velivolo ha il naso troppo alto e questo lo porta a “rimbalzare” sull’atmosfera perché l’aria rarefatta impedisce il controllo aerodinamico e non c'è abbastanza attrito per manovrare. Per qualche lunghissimo secondo è completamente fuori rotta a chilometri dal suolo in un velocissimo pezzo di ferro che lascia pochissimo margine d’errore, finché non ne esce con una intuzione.
Per tutto questo tempo noi siamo con lui dentro l’X-15, l’inquadratura resta quasi sempre stretta sul suo volto e sui dettagli della strumentazione, si muove confusa e si scuote seguendo le vibrazioni dell’aereo, gli unici suoni che sentiamo per sono le sue comunicazioni radio, l’urlo dei motori, il metallo che vibra e si contorce come se stesse per rompersi. Bastano questi pochissimi eleganti e concitati minuti a Damien Chazelle per definire tutto il tono e la cifra stilistica di The First Man: un rapporto tra uomini e metallo, tra aspirazioni stellari e problemi terreni, tra speranza e incoscienza. Un mondo segreto, lontano dalle fanfare e dalle foto ufficiali, in cui la calma assoluta e l'assurdo convivono fianco a fianco.
Il recente ritorno dei programmi spaziali agli onori della cronaca e gli affascinanti piani di Elon Musk per Marte forse hanno messo un po’ in ombra una caratteristica essenziale di questo genere di imprese: sono incredibilmente pericolose e adatte solo a individui dotati di capacità di analisi e risoluzione dei problemi al limite del sovrumano, disposti a infilarsi dentro scatole di metallo appoggiate su razzi pieni di liquido esplosivo.
Dopo i canti e balli di La La Land, Chazelle decide di andare in direzione diametralmente opposta con un film che cerca di essere il più possibile ancora alla realtà, pochi dialoghi, musica ridotta al minimo e lunghe sequenze di volo vissute con la gola serrata. Un film che cerca soprattutto un equilibrio narrativo che cerca di sfuggire alla retorica degli astronauti che camminano a rallentatore pur restando patriottico e aspirazionale nel ricordarci perché dobbiamo guardare verso le stelle
L’impressione è quella di sentirsi un po’ a metà tra Dunkirk e Interstellar, ma con un approccio totalmente diverso, molto meno alla ricerca di un’estetica dell’immagine e maggiormente concentrato sulle sensazioni, sul vivere la corsa spaziale accanto o direttamente dalla prospettiva di chi c’era in quegli anni.
Sequenze di questo tipo scandiranno tutta la pellicola, ricordandoci costantemente la precarietà del tutto e i sacrifici umani che questo tipo di imprese richiedono inevitabilmente. Sono momenti di cinema altissimo, pura immagine in movimento priva di fronzoli che riesce a comunicare tutta l’oppressione, la mortalità e l’incredibile bravura di questi uomini. Pur sapendo come è andata a finire è impossibile non ritrovarsi aggrappati al bracciolo della poltrona con le palpebre spalancata mentre Armstrong e Scott si ruotano senza controllo a bordo del Gemini 8, prossimi a perdersi nello spazio per sempre o a bruciare nel rientro in atmosfera. La ricerca del realismo rende questi spazi veri, terribili e affascinanti, più del caos estetizzato di Gravity o dei momenti eroici di Apollo 13 e altri film sul tema.
Neil Armstrong, lo si capisce leggendo la biografia ufficiale da cui hanno tratto il film e analizzando le sue poche uscite pubbliche, non doveva essere un tipo particolarmente chiacchierone, era un uomo schivo, riservato, concentrato sui suoi obiettivi, Buzz Aldrin è sempre stato lo showman fra i due e su questa base Gosling e Chazelle costruiscono il ritratto di un uomo amorevole, ma anche capace di astrarsi completamente e diventare schivo, taciturno, distante, persino scontroso quando la sua mente si concentra sui risultati da ottenere. Un uomo che probabilmente non ha mai superato la morte della figlia, scomparsa giovanissima per le complicanze di un tumore al tronco encefalico. Il tema sarà ricorrente in tutto il film e rappresenterà il suo lato più emotivo, trascendentale e in parte dissonante col realismo brutale che lo circonda.
Visto l’incredibile impatto delle sequenze spaziali c’era il rischio che tutto ciò che avviene prima e dopo risultasse scialbo e poco incisivo, invece gli sprazzi di vita comune si rivelano momenti essenziali per capire meglio l’uomo dietro il mito, il rapporto con la moglie, le sfide giornaliere legate al far parte di una élite e anche i lati più banali. Gosling dipinge Armstrong come un uomo con cui è difficile comunicare, un uomo posato che si fa ancora più taciturno di fronte all’enormità di una impresa per la quale è disposto a sacrificare tutto. Anche in questi casi l’inquadratura difficilmente lascia i volti dei protagonisti, la camera cerca sempre di guardargli dentro, di scorgere così si nasconde dietro gli occhi che guardano verso la Luna.
The First Man è senza dubbio un film che ci riporta a un’era di uomini (bianchi) differenti, persone che tenevano tutto dentro e compivano gesta eroiche mentre le mogli aspettavano a casa. Armostrong è una sorta di Don Draper nello spazio senza whisky, sigarette e tradimenti (quindi forse non è Don Draper, ok). Ciononostante, Claire Foy riesce a ritagliarsi uno spazio importante fatto di sguardi, di ribellione ai silenzi del marito e persino alla Nasa, lei è tutti noi, quelli che restano a guardare, quelli che aspettano, quelli che comprendono solo in parte il senso di tutto quello che sta succedendo. Non manca neppure un accenno alle polemiche che circondarono il programma spaziale, accusato di togliere fondi a cose più importanti e di essere di fatto una specie di passatempo per bianchi.
Ma la politica sembra veramente poca cosa una volta arrivati sulla Luna, là tutto è chiaro, The First Man è un film che mostra il volto terribile delle imprese più difficili, ma che ci invita anche ad avventurarci fuori da dove tutto è facile, verso qualcosa che ci porti più in alto.