Settant'anni di Rashomon di Akira Kurosawa e del suo relativismo filosofico
A settant'anni dall'arrivo in sala di Rashomon, l'opera di Kurosawa si conferma uno degli high concept più incisivi mai realizzati
All'epoca della celebre querelle legale tra Sergio Leone e Akira Kurosawa, a proposito del conclamato plagio de La sfida del samurai (1961) nel delineare la narrazione di Per un pugno di dollari (1964), il regista della Trilogia del dollaro sminuì l'importanza filmica del regista nipponico esclamando: “Kurosawa aveva tutte le ragioni per fare ciò che ha fatto. È un uomo d'affari e ha fatto più soldi con questa operazione che con tutti i suoi film messi insieme. Lo ammiro molto come regista.”
Eppure no, non è così, ma volendo chiosare su un qualunque commento verso il “regista del dollaro”, l'importanza del regista di Ran (1985) e il peso assunto nella storia del cinema è ascrivibile a molto più lontano; a quel Rashomon (1950) che lo fece balzare agli onori della cronaca con il Leone d'Oro alla 12° Mostra del cinema di Venezia prima, e l'Oscar ad honorem al Miglior film straniero 1952 qualche mese dopo.
A settant'anni dal rilascio in sala di quello che la distribuzione dell'epoca italianizzerà come Rasciomon, l'opera di Kurosawa si conferma uno degli high concept più incisivi mai realizzati; a partire dall'acuta riflessione sul relativismo filosofico del valore della verità alla base del racconto, che trova rimandi in opere cinematografiche (e non), a cavallo delle decadi. Dal pretenzioso remake L'oltraggio (1967) di Martin Ritt e Una commedia sexy in una notte di mezza estate (1982) di Woody Allen a Jackie Brown (1997) di Quentin Tarantino e il segmento narrativo del supermercato; passando perfino nel piccolo schermo con la terza puntata della sesta stagione de Il mio amico Arnold (1983) denominata, per l'appunto, Rashomon II e infine ancora Tarantino con Le Iene (1992), e i differenti punti di vista scenici dei suoi coloriti gangster.
Ispirato liberamente ai rekishi mono (racconti storici giapponesi) ambientati nel periodo Heian (794-1185 d.c.) Nel bosco e Rashomon di Ryunosuke Akutagawa, il cineasta nipponico ne realizzò un ibrido, inserendovi un finale inedito con cui smorzare il fortissimo tono nichilistico del racconto; il successo fu planetario e Kurosawa si impose come uno degli artisti emergenti più interessanti, eppure, la stessa casa produttrice, la Daiei Motion Picture Company, fu contraria alla distribuzione in territorio nipponico di Rashomon, definendolo “poco meritevole”. Solo grazie all'impegno dell'accademica nipponista – e fondatrice della Italfilm - Giuliana Stramiglioli il film poté arrivare arrivare in Italia, sbancando Venezia e facendo la storia del cinema.
Un tempio distrutto. Pioggia torrenziale su di una scalinata, acqua che scorre sui giusti e sugli empi, come fosse un panta rei eracliteo in forma narrativa. Tutto scorre e ritorna in Rashomon, in un'apertura di racconto con cui Kurosawa pone le basi di un solido intreccio narrativo a ritroso tra mali, miseria, briganti e un enigmatico evento delittuoso “che uccide la fiducia negli uomini […] peggio dei banditi, delle guerre, della morte”. Il cineasta de I sette samurai (1954) codifica così, di riflesso, un delitto dall'enorme portata significativa, attraverso cui giocare con le intenzioni e l'immaginazione dello spettatore.
Nell'impossibilità di venirne a capo in un delitto presentatoci come tanto macabro quanto maligno, Kurosawa ne libera la portata traumatica - procedendo così, gradualmente, per mezzo del monaco di Chiaki e del boscaiolo di Shimura; quest'ultimo dal volto sofferente ed espressivo, a cui il cineasta nipponico ha – in più occasioni – cucitogli addosso il ruolo scenico di coscienza della narrazione.
Lo sviluppo del racconto si caratterizza così di un andamento armonico ma al contempo frammentario, in un incedere di testimonianze da consumato trial drama nel Giappone Medioevale più d'immagini di senso che non di effettive sequenze, con cui Kurosawa procede nel delineare una struttura narrativa a-lineare. Ogni testimonianza presentataci dagli agenti scenici infatti, agisce secondo più piani attraverso implicite digressioni temporali; attraverso cui presentarci gli agenti scenici protagonisti dell'evento delittuoso: il brigante Tajomaru di Mifune, il samurai Takehiro di Mori e la moglie di lui, la Masako della Kyo.
Così facendo, nel diradare la fitta nebbia di un solido intreccio, il racconto di Rashomon si arricchisce di senso, sguinzagliando la portata rivoluzionaria del suo sottotesto narrativo; nell'incedere delle verità dei testimoni infatti, Kurosawa gioca con la relatività, nell'esplicitazione di una dicotomia tra verità soggettiva e oggettiva, che va a permeare il racconto nella sua interezza.
In tal senso, l'obiettivo di Kurosawa - e che rappresenta nondimeno il messaggio alla base di Rashomon - non è tanto la ricerca della verità assoluta sull'evento traumatico, quanto il gioco stesso delle differenti sfumature di testimonianze; in un raccontare la propria versione che diventa, al contempo, autoaffermazione nel contesto scenico – in particolare di Tajomaru e Masako. Procede così il cineasta de La fortezza nascosta (1958) tra raggi di sole su creature fatate, statue di ghiaccio, e ipotetici stalli alla messicana, da cui emerge un astuto gioco di manipolazioni delle intenzioni, con cui allargare la forbice tra delitto d'onore e di passione.
L'espediente è sagace, furbo, tremendamente innovativo, perché permette a Kurosawa di delineare caratterizzazioni che sono, al contempo, non-caratterizzazioni, piuttosto ognuno il riflesso dell'altra. Tajomaru è carnefice o semplicemente un brigante manipolato? Masako è una vittima o una donna in preda alla passione? Domande che non trovano risposta, ma che vengono invece, continuamente ravvivate, dalle splendide performance attoriali di un Mifune iper-espressivo e caotico, e di una Kyo perfetta femme fatale da Medioevo nipponico.
“Si, hai ragione, anch'io non ci capisco un accidente. Le donne sanno prendere in giro tutti con le lacrime, perfino loro stesse. Bisogna stare attenti a non farsi mettere nel sacco.” Di riflesso, in un susseguirsi di verità soggettive che vanno sempre più ad addensare un'oggettività ormai impossibile da percepire, Rashomon arricchisce il sottotesto del racconto. Mostrandoci così, al soldo dei fatti, una visione nichilistica della natura umana sulla portata manipolatoria delle emozioni e passioni, da cui emerge una chiara accezione misantropica tendente, perlopiù, al misogino. Nulla può, in proposito, la climax riequilibrante affidata al boscaiolo di Shimura, il cui ruolo di coscienza scenica di Rashomon si perde tra furti su cadaveri e un innato egoismo - ascrivibile a una linea dialogica tanto incisiva quanto netta: “Ecco, ora è chiaro, non pensano che a loro stessi, cercano di scusarsi... il brigante, la donna, l'uomo.”
Da decadi oggetto di saggi ispirati, citata in ogni possibile medium, manipolata e infine elogiata. I settant'anni di Rashomon di Akira Kurosawa sono molto più che un semplice anniversario di un'opera cinematografica. Sono i settant'anni del primo vero spartiacque nella carriera del suo magnifico cineasta con cui uscire dai confini nipponici e consacrarsi nelle platee occidentali; volgendo così lo sguardo al cinema hollywoodiano e ai western di John Ford, di cui Kurosawa riprenderà l'accezione baziniana nella codifica della grammatica filmica dei suoi jidai-geki. Un'escalation che nella successiva decade porterà Kurosawa all'epica tragica de I sette samurai e a quella più vivace de La fortezza nascosta – primissima ispirazione de Star Wars – Episodio IV: Una nuova speranza (1977) di George Lucas - e definitiva consacrazione di uno dei più grandi registi di tutti i tempi.