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Ritratto del supereroe da giovane, il tramonto del sidekick

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Sul ruolo di Robin e del perché oggi non abbia senso parlare di sidekick dopo anni e anni di evoluzione di linguaggi e ruoli nel mondo dei supereroi

Ho da poco concluso la visione della prima stagione di Titans e devo dire, al netto di tutto, che mi è piaciuta. Il serial è quel mix appagante di teen drama, orrore, supereroi mascherati che tirano calci in culo con grande fisicità e tanta altra roba che non sto qui a dirvi perché questo, come avrete capito, non è un pezzo su Titans ma sul ruolo del sidekick e sulla sua sostanziale (e odierna) inutilità.

Ma perché allora Titans? Su tutto perché i Teen Titans, poi semplicemente Titans, nascono proprio come esigenza editoriale per dare un posto, e una conformazione più precisa, a una marea di spalle del fumetto di casa DC, che aveva dietro di sé un nugolo di piccoli eroi solo lateralmente espressosi per mezzo di testate principali (quelle dei loro mentori insomma) e di testate personali.

Mancava qualcosa che li riunisse, che gli desse uno scopo più ampio, e che probabilmente fosse anche un'occasione per radunare un'altra generazione di fan che, presumibilmente, trovava difficile seguire o identificarsi con la più adulta e matura Justice League. Oppure metti: era tutta una prevedibile questione di soldi e queste sono solo pippe mentali.

 

In seconda analisi perché il serial (ora su Netflix: guardatelo) è una bella riflessione sul ruolo del sidekick e, nello specifico, su Robin, presente nella serie in due diverse incarnazioni (e non è spoiler, si sa da eoni): quella di Dick Grayson, praticamente un adulto, e il più giovane e scapestrato Jason Todd.

L'incontro tra i due non prevede la tipica royal rumble dei fumetti, ma uno scontro psicologico, di quelli che si possono immaginare avvengano quando si scontrano due generazioni diverse, cresciute però davanti allo stesso sogno.

La dualità tra i due ha risvegliato in me due domande: la prima è di per sé abbastanza complessa: “come cambia un sogno comune attraverso gli occhi di due diverse generazioni?”; la seconda è solo apparentemente più semplice, e viene ventilata dallo stesso serial: “a che cosa serve Robin?”.

A cosa serve Robin?

La prima mettiamocela da parte per ora, perché ci sarà utile in chiusura. E passiamo direttamente avanti. Robin a che serve?

Mettiamo pure da parte la storia del fumetto, e la necessità della DC dell'epoca di creare un qualcosa che fosse identificabile per i giovani (è il trucco di Spider-Man ragazzi, in tal senso Stan Lee non si è inventato nulla), Robin nasce fondamentalmente come arma, o meglio come gadget. È un trucco di Batman, l'ennesimo, per depistare i furfanti dalla sua figura. E non a caso è Robin ad essere quello vestito sgargiante come un bersaglio, e non certo il Pipistrello che, per antonomasia, è “oscuro” di carattere e di colorazione.

Robin è l'ennesima trovata di un calcolatore freddo e preciso, che mette in bella mostra un bersaglio agile per poter depistare i furfanti dalla sua entrata in scena, che sarà poi segnante, potente, ancor più mostruosa. Non a caso Dick è un trapezista, un artista circense, uno che potenzialmente può schivare un cazzotto o sparire tra i tetti a prescindere da quanto bene Batman lo abbia addestrato.

Ora ok che negli anni '40 nessuno, quasi certamente, si era posto il problema di mettere un ragazzino di 13 anni (tanti ne aveva all'epoca) a schivare pallottole, ma se ci pensate dare a Dick un mantello è la cosa più rivoltante che abbia potuto fare Bruce Wayne, perché altro non significa che dare un ragazzo in pasto al mondo, chiedendogli di combatterlo in nome di una causa che, forse, non potrebbe comprendere appieno.

La cosa curiosa è che ci vorranno ben 49 anni perché la DC si renda conto di quanto fosse surreale chiedere ad un ragazzino di combattere il crimine in tutina. Come? Con la morte di Jason Todd.

Questo è il lato cinico, ma c'è poi quello umano. Quello del Robin che è ancora di salvezza per la psiche di un Bruce Wayne che, come spesso chiarito, danza sul confine labile che lo separa da quegli stessi matti che si affanna a combattere. La morale divide Batman da Joker, non la forza o chissà cosa. Joker uccide perché può farlo, perché è bravo. Batman non lo fa semplicemente perché crede che non sia giusto, che esista una alternativa, eppure potrebbe farlo.

È il contorno composto da Alfred, Robin e più tardi da Barbara Gordon e da un mucchio di altri membri della Bat-Family a far sì che Batman resti Batman, come poi meravigliosamente spiegato dal Batman di Miller, in cui è proprio la figura di Carrie Kelley che resta indispensabile per la morale di un Batman ormai ben oltre le sue possibilità, fisiche e mentali.

Il filone della cosiddetta “young line” che si espresse appieno a partire degli anni '40 non fa altro che richiamare quel canone prettamente epico che da Ercole e Iolao in poi prevedette la conservazione dell'eroe per mezzo di un suo alterco più giovane, che ha bisogno ancora di imparare, ma che resta utile anche in quanto presenza su cui poter contare, anche solo per ristabilire nell'economia del racconto, quanto il protagonista sia oltre l'umano dal punto di vista fisico e morale.

Del resto, se così non fosse non sarebbe un eroe, sarebbe solo un uomo. Per chi ha masticato studi classici lancio un appiglio: è la meccanica che in letteratura latina si definisce tra "senex e puer", ovvero tra mentore e pupillo che può in qualche formula essere sovrapposta a diversi modelli di celebri "coppie" dell'antichità, da Gilgamesh ed Enkidu (seppur che le doverose differenze quanto meno nel rapporto tra i due), passando per Achille e Ercole con il suo Iolao.

È uno schema letterario giocato sulla contrapposizione, che serve a creare uno schema mentale solido e facilmente comprensibile. Uno è nei guai e l'altro lo soccorre, uno è inesperto e l'altro insegna. Se non sussistesse il principio, forse molte storie non avrebbero lo stesso senso e lo stesso sapore o, al netto di tutto, non insegnerebbero un tubo.

Il compagno, la spalla, il “puer” è quindi utile alla costruzione del mito eroistico, che è poi diventato supereroistico ai giorni nostri. Ma la radice è quella dell'Epos più squisitamente greco in tutto e per tutto, e benché il sistema del sidekick si sia poi evoluto in modalità del tutto diverse da quelle delle origini, dando agli aiutanti una più specifica dignità personale, è ovvio che Robin aveva senso in virtù dell'essere spalla e nella possibilità che potesse fallire.

A questo punto tocca chiedersi: può sussistere un Batman senza Robin? Mi verrebbe da dirvi che può senza alcun dubbio, perché l'identità di Batman è stata concepita per prescindere dalla sua spalla, che è stata poi spesso abbandonata in una marea di storie personali. Paradossalmente, oggi può sussistere anche un Robin senza Batman, perché tanto è stato lungo il cammino della figura del sidekick da far perdere alla parola ogni senso.

Robin, in sintesi, si è voluto in modo tale da non risultare più meno eroistico di qualunque altro eroe si sia affiancato al Crociato di Gotham nel corso degli anni, perché l'evoluzione della narrazione supereroistica (annessa alla popolarità dei giovani eroi) gli ha permesso di potersi scollare dal titolo di “aiutante” diventando un eroe a tutto tondo. Se così non fosse stato non avrebbe avuto senso, per dire, neanche creare un coacervo di giovani aiutanti come è stato i Teen Titans. Che scopo avrebbero avuto se non quello di farsi tirare fuori dai guai?

Al contempo, questa emancipazione del Ragazzo Meraviglia ha permesso a tantissimi altri sidekick di prendere la loro strada alla ricerca di una propria identità, e l'elenco è lunghissimo e pieno di casi celebri, come Superboy, Donna Troy, Bucky/Winter Soldier, Kid Flash e via discorrendo. E questo porta ancora alla medesima domanda: ma allora sto Robin a che serve?

Direte a questo punto che serve, perché “Batman ha sempre avuto un Robin”, cercando di giustificarne il senso. La risposta è che la funzione di Robin non è mai cambiata, è stata sempre un prodotto a sostegno della caratterizzazione psicologica di Batman, mettendone in discussione di volta in volta i diversi aspetti della sua psicologia, sotto il cappello più ampio del tema della paternità fino alla conclusione più ovvia di rendere direttamente il figlio di Wayne il nuovo Robin.

Ad ogni Robin, tuttavia, è stata fornita una nuova psicologia, una morale di volta in volta più stratificata, ed è stato reso protagonista di eventi che hanno in qualche modo modificato lo status quo psicologico del Cavaliere di Gotham, talvolta in modo più indiretto e impercettibile, altre volte per mezzo di cambiamenti che sono diventati epocali, come la memorabile morte di Jason Todd.

Perché sarà stata la stessa DC a rendersi conto che quell'idea originale non funzionava più, che sì “Batman deve avere un Robin”, ma forse se non lo si rebootta in qualche modo allora il personaggio sarà inutile. Corretto.

Eppure, Robin resta un personaggio da aggancio, tremendamente comodo per l'identificazione da parte di un nugolo di nuovi lettori e dunque, nel modificarne l'aspetto, ben venga modificarne anche la visione e l'ambizione.

Fateci caso: la morale di Batman non è mai cambiata. Semmai è stata corretta o revisionata, ma in sintesi l'ambizione del Batman di Bob Kane resta quella del Batman di oggi. Robin, invece, è passato per una marea di revisioni che ne hanno riespresso le esigenze e i bisogni, proponendosi come un comodo escamotage non solo per la revisione nei confronti di una nuova generazione di lettori, ma anche per poter giustificare, in qualche modo, un cambiamento non in Batman ma in Bruce Wayne, ovvero nella parte più umana dell'eroe, quella che va oltre le fatiche mitiche.

Da qui la questione generazionale e, come ovvio, il ritorno alla prima domanda che mi sono posto: come cambia la visione, come cambia quel sogno? Cambia perché sono le stesse generazioni a cambiare. Si modificano le percezioni sociali, si modificano i taboo e si ampliano (più raramente si stringono) i limiti che impongono cosa si può osare e cosa no. Bellissimo che tutto questo ce lo spieghi Jason Todd, ovvero il Robin più malmostoso, insofferente e sfortunato della storia del Cavaliere Oscuro.

 

Se Dick si pone il problema di essere un giustiziere, Jason (e più tardi Damian) abbraccia l'ebrezza del potere. È come assistere al discorso di uno che è cresciuto a pane e Golden Age, con le sue calzamaglie e il suo politicamente corretto, ed uno che è arrivato al supereroismo leggendo Kick Ass. Son sempre fumetti, ma con toni, e “colori” praticamente incompatibili.

Ma del resto stiamo parlando dell'evoluzione del medium in sé, del modo in cui ha cambiato il suo modo di comunicare e far percepire il supereroismo. E non è detto che tutto questo passi per forza attraverso la violenza, ma come ci insegna Garth Ennis, è quasi obbligatorio. Un super che può potenzialmente fare quello che vuole, ha pochi vincoli morali a non commettere un genocidio.

Perché può farlo. Perché sa di essere, in ogni caso, al di sopra (e non al di fuori) della legge.

E forse la bellezza del fumetto di oggi sta proprio nell'esplorazione di quel lato torbido, nel cercare di spingere il personaggio non oltre il precipizio, ma nell'esplorazione dello stesso. Ecco perché, volendo generalizzare, hanno senso i supereroi: perché ha senso vederli confrontarsi con i propri limiti e con i limiti della morale che, talvolta, dipendono dall'interno, altre volte sono in contrapposizione con l'esterno, ovvero con i villain, che sono semplicemente dei super che sanno di poter fare quello che vogliono.

E forse la bellezza del fumetto di oggi sta proprio nell'esplorazione di quel lato torbido, nel cercare di spingere il personaggio non oltre il precipizio, ma nell'esplorazione dello stesso.

Un caso che la lettura a fumetti si sia estesa verso l'esplorazione anti-eroistica? No, tant'è che partendo da Spawn, passando per Venom (che è venuto prima, ma che si è caratterizzato come anti-eroe molto dopo) e per tutta una serie di altre figure quanto meno “discutibili” si è arrivati a riconsiderare le ragioni del villain. Non perché questi abbia ragione, ma perché ha senso esplorarne la psicologia, a prescindere dal fatto che si trovi culturalmente discutibile uccidere qualcuno, sia esso buono o malvagio.

Il sidekick, classicamente concepito, invece non ha il potenziale per esprimere tutto questo. La qual cosa fu chiara anche al tempo quando, comprendendo l'inutilità di un personaggio che non compie alcun passo in avanti, si decise a ben 30 anni dalla sua nascita di mandare Dick Grayson al college, allontanandolo dal Wayne Manor. Non poteva essere differente, perché in quanto spalla ferma nel tempo, il cui compito era svolgere un'unica funzione, ottenuta per altro per “detrazione” (tutto quello che non può il sidekick, l'eroe può), al sidekick non era stata concessa alcuna evoluzione, perciò, svolto il suo compito, col tempo, non si è trovato altro senso che rimpiazzarlo o farlo morire.

Come può esserci evoluzione in questo? Nell'essere un appiglio narrativo che si presta ad un solo uso? Tant'è che a voler esser franchi, solo Robin (in quanto maschera e non specifico personaggio) è rimasto nel tempo a tenere banco nella categoria, tutti gli altri sono andati avanti e/o non sono stati mai rimpiazzati.

Avere a che fare con il tema eroistico (anche nella sua componente più cupa: il villain) significa dover affrontare argomenti che non possono avere limitazioni, significa creare storie che possano prevedere un'immedesimazione anche superficiale, che vada oltre l'età anagrafica e il dogma: i giovani vogliono leggere di gente giovane. Se così fosse avremmo archiviato gli eroi di una volta da un bel po'.

Ecco perché parlare oggi di sidekick non ha senso. Ma lo aveva capito lo stesso Dick Grayson, quando nel 1984 decise di smettere di essere Robin per diventare Nightwing. Non era un problema di un pantaloncino colorato troppo stretto da indossare, era un problema di identità. Il punto non era che non servisse un Robin accanto a Batman, che in qualche modo ne mantenesse integra la morale (come e quando è accaduto tante volte, e in diverse misure), ma che non ci si potesse ancorare per sempre a quello stereotipo se si ha la pretesa di assumere una propria identità e se si vuole che il lettore possa riflettere sulla sua.

Ma del resto erano gli anni '80, erano gli anni della ridiscussione dei canoni supereroistici, degli eroi violenti, del ritorno alla realtà dopo un ventennio, quello precedente, sin troppo colorato e folcloristico. Il sidekick non serve perché gli eroi di oggi sono consapevoli della propria identità, e perché nessuno vuole leggere le avventure di un oggetto inerte e inutile, che ha senso solo se viene lanciato in una zuffa.

Serve spessore, introspezione e carisma, a conferma di tutto questo i momenti più belli dell'ultimo Robin, Damian, sono quelli che il ragazzo ha vissuto da solo, all'avventura e nella ricerca di sé stesso perché, come una persona reale, anche il giovane Wayne ha capito che a questo mondo hai un significato solo se, innanzitutto, significhi qualcosa per te stesso. Tutto il resto è niente.

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