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Rileggendo John Doe, con 5 domande a Roberto Recchioni

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Rileggere oggi un fumetto che fu vera e propria avanguardia culturale di ciò che sarebbe cambiato di li a poco nel panorama italiano delle nuvole parlanti

John Doe chiude in questi giorni il ciclo di ripubblicazione della prima stagione sotto l’etichetta Bao Publishing e a rileggerlo oggi fa un certo effetto. È come ascoltare dopo anni le prime grezze e rivoluzionare canzoni di una che poi ha avuto successo.

Tutto ciò che l’uomo crea nasce come omaggio o in controtendenza con ciò che c’era prima. Abbiamo sempre mescolato, reinventato e fatto collage con ciò che la nostra testa raccoglie lungo la strada, come predoni del deserto che si costruiscono un giaciglio coi rottami di un mondo che non c’è più.

La storia che gira su John Doe è che nasce come vampiro surfista, questo fu infatti il primo pensiero scaturito dalle menti di Roberto Recchioni e Lorenzo Bartoli quando gli fu data carta bianca. L’idea fu ovviamente scartate ma già da questa scintilla si capiva cosa John Doe voleva essere e cosa sarebbe stato: un’idea nata dal passato (Buffy, Baywatch, ma anche Nazi Surfers Must Die hanno sicuramente lasciato dei sedimenti nella mente degli autori) ma con tanta voglia di fare il culo al futuro.

Sono passati quindici anni dai primi albi di John Doe, secondo te chi è invecchiato meglio, tu o lui?

Forse io. Ma perché ho migliorato la qualità del mio guardaroba. Ma non posso essere obiettivo su una domanda del genere perché, da autore, rileggendo JD vedo tutte le cose che avremmo potuto fare meglio o che erano frutto dell’inesperienza. Per me, JD è frutto del mio momento presente in quegli anni e dentro ci rivedo le passioni di Lorenzo per un certo tipo di letteratura come il mio amore per quello che, all’epoca, era il rinascimento delle serie televisive americane. Non so valutare bene come, oggi, un lettore, può percepirlo.

Dal surfista vampiro si passò a un personaggio spavaldo, divertente e divertito, egoista, bello, che lavorare per la Morte e i suoi cavalieri. Un personaggio sopra le righe, un po’ Tom Cruise, un po’ Tyler Durden, che voleva scrollarsi di dosso tutto il grunge, il pessimismo e la sensibilità degli anni ’90. Se Dylan Dog era l’Old Boy, John Doe sarebbe stato il Golden Boy.

L’altra differenza con Dylan Dog, nato da un solo padre, fu che John di padri ne aveva due, due persone che non potevano essere più distanti come “dramatis persona” ma che riuscivano a mescolarsi meglio degli ingredienti del Martini. Perché dove Recchioni era sfrontato e rock, Bartoli inseriva una sensibilità tipica delle ballate. Erano la perfetta allegoria di Ying e Yang e chissà cos’abbiamo perso con la prematura scomparsa di Lorenzo.

In John Doe si mescolano cinismo e empatia, sensibilità e fottesega, citazionismo e novità. I personaggi che fanno parte del suo mondo sono ispirati ai film e alle serie TV degli ultimi trent’anni, non c’è alcuna paura nel mostrare il proprio debiti creativi e il consapevole gioco di rimandi e ammiccamenti col pubblico lo trasforma in una sorta di Ready Player One (che ormai citarlo va tanto di moda) ante litteram. Paradossalmente questo lo rende ancora attuale, lo cala ancora di più in una realtà fatta di rewind e nostalgia che oggi viviamo al suo massimo e che all’epoca fu un perfetto escamotage per calare il personaggio nel suo tempo e creare subito un legame col lettore.

L’approccio all'epoca fu diverso anche perché internet stava iniziando a essere una realtà importante e gli autori non si tirarono indietro, parlarono dell’opera direttamente col pubblico, raccontarono, aggiustarono, precisarono e ovviamente litigarono, costruendo un nuovo modo di promuovere le proprie opere.

Non erano più timidi fumettisti o austeri signori chini sul tavolo che quasi si vergognavano di fare fumetti da edicola, era l'avanguardia culturale che se criticavi troppo ti mandava anche affanculo.

Cosa ti resta di quegli anni? Cosa ti sei portato dietro e cosa hai lasciato?

Le riunioni a casa di Lorenzo, prima di tutto. E il mio rapporto con lui. Poi l’emozione di fare una cosa nuova e indipendente, con il sostegno di un editore che credeva in noi e che ci lasciava totale libertà. E poi la formazione della “squadra”, la ricerca di autori nuovi e bravi, i viaggi avventurosi per fiere e incontri...

Ma dove c’è omaggio al passato c’è anche rottura. Perché il fumetto è creato e disegnato da una fucina di talenti che vedeva Bonelli come un mondo cristallizzato e contro di essa scagliava il suo grido di ribellione. Non appena le vicende di John ci sembrano avviate verso un rassicurante tran tran burocratico di morti da contare ecco che tutto cambia, e poi cambierà ancora e ancora con una furia iconoclasta che nasce dalla voglia di andare contro quei personaggi in stile sit-com tipici del fumetto che poi Recchioni porterà anche su Dylan Dog.

Il vero colpo di genio fu pensare a stagioni, come se fosse un prodotto televisivo, anticipando quella fame di serialità che ci colpì tutti poco dopo. Il lettore sa dove si parte, sa dove si arriverà e capisce subito che ogni stagione potrebbe rappresentare qualcosa di completamente diverso, altro tratto distintivo che poi è arrivato ai piani alti di Via Buonarroti con Orfani.

Rifaresti tutto allo stesso modo?

Non so. Non guardo mai al passato o al futuro. Sono uno da momento presente.

Ecco perché se non lo avete mai fatto è il momento di recuperare John Doe in questa edizione Bao che ha solo il peccato di non arricchire il tutto con qualche approfondimento. Finora vi siete persi un fumetto fondamentale per il panorama italiano, anche al netto di una realizzazione tecnica a volte un po’ grezza, figlia di mezzi che non erano certo quelli della Bonelli, ma che ha permesso a un sacco di disegnatori di farsi le famigerate ossa.

Foto: Erica Fava

Accanto infatti a nomi storici come Walter Venturi ci fu ampio spazio per gente che oggi lavora un po’ ovunque con successo, come Burchielli, Mammucari, Gianfelice, Barletta, Dell’Edera, Rosenzweig, Torti.

John Doe è stato un fumetto di rottura come linguaggi e idee, ma inserito comunque in una tradizione che voleva innovare. Oggi c’è un “John Doe”?

Nell’ambito del fumetto seriale, per carica innovativa (anche se di un segno del tutto diverso) e ambizioni, direi Mercurio Loi.

Parlando in termini musicali, John Doe è un album ruvido, registrato con strumenti comprati seconda mano, in un garage, con un impianto audio che fa quel che può. A volte si sente bene, a volte meno, ma se andate oltre questi dettagli trovate le basi di ciò che è stato di a poco e una grandissima lezione per chi vuole fare fumetti.

Non c’è infatti dubbio sul fatto che Recchioni e Bartoli prima di mettersi a scrivere si siano studiati per bene tutto ciò che non volevano essere e ciò che invece volevano raggiungere ed è questo ciò che possono insegnare: prendere tutto ciò che vi piace, fatene una storia, abbiate il coraggio di distruggere tutto e ripartire ancora, ancora e ancora, ricordando chi siete e sfidando chi c’era prima di voi, con la giusta misura tra sfrontatezza e rispetto.

Ti viene mai voglia di tornare a lavorare con lui?

Sì ma me la faccio passare. Una promessa è una promessa.

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