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I 30 anni (più uno) di Dylan Dog

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In occasione del compleanno dell'Indagatore dell'Incubo ripercorriamo la storia di un fumetto rivoluzionario che rischiò di chiudere subito

Sarebbe molto facile iniziare un articolo sui 30 anni di Dylan Dog citando Umberto Eco o parlando del periodo di massimo splendore, quando i ragazzini avevano i quaderni con le sue copertine (presente) o appendevano in camera il poster gigante (presente di nuovo) allegato a Max che per una volta non ritraeva l’ennesima bellona, ma il personaggio di un fumetto. Una cosa che oggi sarebbe normale, ma che negli anni ’90 era paragonabile alla fusione fredda.

Eppure all’inizio quell’albo atipico, in cui la violenza veniva mostrata con realismo granguignolesco degno di un horror italiano anni ’70, in cui si sparava ai bambini, si faceva sesso e dove un tizio emaciato sulla trentina con la faccia di un attore inglese poco conosciuto si professava “indagatore dell’incubo”, beh quel fumetto quando arrivò fece un gran bel tonfo in edicola.

È fondamentale ricordare tutto ciò perché Dylan Dog col suo fallimento iniziale ci insegna che non solo è importante osare e andare contro chi ti dice che “l’horror non funzionerà mai, è una nicchia”, ma anche che se qualcosa non va per il verso giusto non bisogna mollare subito per paura di rimetterci troppo.

Bisogna aver fiducia in sé stessi, nelle proprie idee, nel prodotto e ascoltare il pubblico, non trattarlo come una massa di gente ignorante che non sa apprezzare la tua arte.

Insomma, se non si fosse verificata una incredibile alchimia di fattori legati al tempismo, al coraggio e al talento di Tiziano Sclavi e di un gruppo di disegnatori e scrittori eccellenti, io non avrei mai imparato “granguignolesco” e Dylan non starebbe festeggiando i suoi 30 anni (ormai 31) con uno storico evento milanese.

Il mio primo ricordo di Dylan Dog è Mana Cerace che strappa la lingua a un ragazzo ne Il Buio. Stavo leggendo il fumetto a casa di un amico e rimasi su quella pagina per almeno cinque minuti, per poi passare il resto del pomeriggio a leggere tutti gli albi che aveva in camera. Quando tornai a casa avevo ancora in testa quell’immagine, lo “SZOCK!” del coltello che entra nella carne, lo UAAAARGH del campanello e passai la notte in preda agli incubi; il giorno dopo chiesi a mia madre se potevamo comprare quel fumetto col mostro in copertina.

La paura e l’orrore mi avevano affascinato, ma anche quelle storie, così diverse dai fumetti americani con cui mi riempivo il cervello.

Non so sinceramente quale balla spaziale inventai o a quale i miei fecero finta di credere, ma da quel momento Dylan mi accompagnò per un bel pezzo della mia vita. Avevo otto anni, in teoria non avrei dovuto leggerlo per ancora per un bel po’, ma erano tempi diversi, ci davano il Crystal Ball, la Coccoina, i videogiochi violenti erano la norma, cosa poteva essere mai un fumetto con qualche mostro?

Dylan Dog arrivò nelle edicole italiane come un essere di un altro mondo.

Non erano classiche le sue storie e soprattutto non era classico lui. Avevate mai visto un eroe ex-alcolista, vegetariano, sensibile, ipocondriaco, impaurito dalle altezze, dagli aerei, dagli spazi angusti e, nonostante tutto, donnaiolo degno di James Bond? Avevate mai visto un eroe che soffre così tanto per amore (e che si innamora con altrettanta facilità)? Avevate mai visto un eroe che non vince sempre, ma anzi in molti casi al massimo pareggia in un’infinita partita a scacchi contro il fato? E poi vogliamo parlare del suo assistente personale sosia di Groucho Marx?

Con tutte le sue debolezze Dylan introduceva un nuovo concetto di personaggio che si distaccava dall’edonismo degli anni ’80 per presentarci ciò che ci avrebbe riservato il futuro: la nostra trasformazione in una favolosa massa di perdenti insicuri che cercano di tirare avanti nonostante tutto, nonostante l’orrore.

Già l’orrore. Inizialmente era quello classico e atavico, quello da pellicola, ricco di mostri, serial killer e sovrannaturale. Poi col tempo Dylan si è fatto interprete e valvola di sfogo di creature infide che scavano la propria tana dentro l’essere umano: la pazzia, la solitudine, la gelosia, il risentimento, l’emarginazione, il razzismo, il futuro, l’egoismo. I mostri, insomma, siamo noi.

Facile ora parlare di zombi, horror e mostri vari, con tutte queste serie TV che li esaltano e un pubblico ormai addomesticato. Provate a immaginarlo 30 anni fa. L’insuccesso iniziale di Dylan Dog ha una spiegazione molto semplice, era ciò che il pubblico avrebbe voluto, solo che ancora non lo sapeva.

La verità è che, nonostante i temi e un personaggio atipico, il figlio di Sclavi, il fu Dellamorte Dellamore, era anche un personaggio dannatamente pop e citazionista. Il nome era preso da un poeta, la faccia da un attore, la via da un regista. E poi c’erano i mostri tipici della tradizione letteraria e cinematografica, le canzoni rock che accompagnavano le sue avventure e i temi, come la vivisezione, l’Aids, la guerra, i media. Ogni albo era una sorta di caccia al tesoro di citazioni di ogni tipo, che mescolavano Stephen King e De André, Twin Peaks e Pirandello. Nonostante la sua vecchia pistola, un maggiolino scassato e una storia iniziata 300 anni fa, Dylan puntava soprattutto ad essere un personaggio del presente.

Con pazienza, questo fumetto Bonelli si infilò sempre di più nella testa degli italiani, fino a diventare ciò che tutti stanno dichiarando in queste giornate di retrospettive e interviste: uno specchio del suo tempo, un fumetto popolare, un successo di pubblico e critica in grado di generare un merchandising sorprendente e ovviamente un stuolo di imitazioni.

Per molti la famosa interrogazione parlamentare sui fumetti splatter del ’90 fu un segnale del “sistema” contro Dylan Dog, quando invece se la prese molto di più con i suoi imitatori che, nel tentativo di superarlo, cercavano di batterlo sul piano splatter, come se fosse quello l’ingrediente principale dell’Old Boy. Il tutto ovviamente finì in un albo: Caccia alle streghe.

“Caccia alle streghe è un numero di cui vado fiero – disse poi in un’intervista Sclavi – ma non è piaciuto a nessuno. Dylan Dog ha dato la stura a una serie infinita di imitazioni non dico brutte, però molto forti, molto più splatter. Questo ha provocato addirittura un’interrogazione parlamentare in cui devo dire, Dylan Dog non è mai entrato.”

Anno dopo anno, Dylan Dog diventò un fenomeno in grado di macinare 300.000 copie, frutto di un passaparola formidabile, ma anche di una potenza di fuoco commerciale e mediatica mai vista per un fumetto italiano. C’erano i quaderni, le cartelle, gli astucci, i videogiochi (alzi la mano chi si ricorda la Simulmondo), gli articoli di giornale, il famoso elogio di Umberto Eco, l’album di figurine, l’Horror Fest, il drammatico film con Anna Falchi (e uno successivo che preferisco non ricordare), perfino la consacrazione pop con la citazione sulla copertina di La donna il sogno e il grande incubo degli 883.

Ovviamente era impossibile mantenere a lungo un tale livello e, pian piano, Dylan Dog passò di moda, restando un onesto fumetto ricco di storie interessanti, anche se Sclavi si stava allontanando sempre di più dal suo figlioccio e dalla sua voglia di scrivere.

Col tempo anche i suoi lettori divennero più grandi, qualcuno rimase, qualcuno no, le vendite iniziarono a calare sempre di più e, a detta di alcuni, anche la qualità. Nel settore comics qualcuno lo considerava già “un fumetto zombi”, un morto che cammina, non male come contrappasso per uno che i non morti li aveva sempre combattuti. E invece ciò che forse è mancato a Dylan in questi ultimi anni non è stata la qualità, ma l’effetto sorpresa, non era più in grado di stupirci, di dirci qualcosa di nuovo.

Ma come ci insegna Frankenstein, una scossa può riportarti in vita e quella scossa arrivò quando Sclavi mise una mano sulla spalla di Roberto Recchioni, investendolo del compito di rinnovare il personaggio senza tradirne lo spirito, riportandolo al centro del dibattito e della cultura popolare, aggiornandone i temi e il linguaggio, non la filosofia.

E così, dopo uno spiazzante numero ambientato nello spazio profondo, Bloch va in pensione, Groucho si compra uno smartphone, arriva l’inquietante e affascinante John Ghost, la detective Rania e l’ispettore Carpenter (ancora citazioni), ma soprattutto arrivano un’infornata di sceneggiatori e disegnatori emergenti: Akab, Ausonia, Barbara Baraldi, Ratigher, Gigi Simeoni, Giacomo Bevilacqua. Arrivano nuove testate, si fanno operazioni remaster su alcuni numeri storici, c’è fermento, c’è vita, altro che zombi. Ah per l’occasione torna anche Tiziano Sclavi, con un albo dalla copertina bianca, la citazione stavolta trovatela voi.

E tornano ovviamente anche le polemiche, segno, se vogliamo, di una ritrovata vitalità. C’è chi adora il nuovo corso di Dylan, chi lo detesta, chi ha paura che il personaggio perda la sua essenza e chi forse vorrebbe tornare a quando aveva trent’anni di meno. Intanto le vendite tornano a salire. Difficile replicare i fasti degli anni ’90, anche perché è cambiato il mondo, è cambiato il settore e sono cambiati i lettori, ma di certo non possiamo più definirlo come un morto vivente. Dylan arriva a salutare i 30 anni decisamente in forma.

Grazie alla forza comunicativa di Recchioni, a storie nuove e interessanti e a un’accurata strategia comunicativa, Dylan Dog oggi è di nuovo al centro dell’attenzione. Lo troviamo su riviste generaliste, radio, quotidiani, si moltiplicano le uscite in edicola (le riedizioni dei grandi classici sono capolavori da custodire gelosamente) e con il ritorno in casa Bonelli dei diritti d'immagine mi aspetto grandi cose.

Proprio oggi (nel 2016) infatti a Milano si svolgerà il Dylan Dog Horror Day. Un giorno in cui ci saranno parate di zombi, incontri con sceneggiatori e disegnatori, proiezioni di documentari, film (L’Alba dei morti viventi, ovviamente). Senza dimenticare la mostra che aprirà i battenti al prossimo Lucca Comics.

Dunque, tanti auguri Dylan Dog, vorrei dirti “100 di questi anni”, ma per uno che non abbandona i propri sogni invecchiare è l’ultimo dei problemi.

Pubblicato originariamente su Wired.

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