Non c'è niente di popolare in qualcosa che è diventato materiale esclusivo per egocentrici.
Questo articolo sulla cultura pop nasce nella newsletter di Fabrizia, solo che era così bello che le abbiamo chiesto di poterlo condividere anche qua, a voi non resta altro che abbonarvi alla sua newsletter, fidatevi, non lo rimpiangerete.
È da oramai diverso tempo che provo sentimenti contrastanti nei confronti della cultura pop. Ciò che rappresenta una delle massime espressioni, almeno a livello teorico, di democrazia del contenuto – in quanto non presenta (o meglio, non dovrebbe presentare) barriere di alcun tipo, quali culturali, identitarie, etc. – si è trasformato in un concentrato di elitarismo e gatekeeping, in un terreno di scontro in cui, anziché condividere una passione, si è deciso in modo arbitrario di escludere dal discorso persone e/o utenti non ritenute all’altezza di partecipare al dibattito.
Ma quando è accaduto tutto questo?
Dare la colpa ai social network – divenuti oggi la nuova vittima sacrificale, come un tempo fu internet o qualsiasi altra forma di innovazione prima di loro – è un discorso molto riduttivo: come accade in tutti questi casi, non è mai colpa del medium, ma è il tipo di uso che l’utente ne fa. Il male non è mai incarnato dal mezzo in sé, ma dai diversi modi in cui decidiamo di sfruttarli. E lo stesso vale per un prodotto culturale, che di base nasce democratico, lo dicevamo, ma che è costretto a mutare forma nel momento stesso in cui qualcuno ne decide l’appartenenza, si arroga il diritto di associare quel prodotto ad una nicchia di eletti che, in quanto auto-proclamatisi portatori di verità, se ne appropriano senza diritto.
Sono anni che osservo, e non sempre in modo silenzioso; questo perché trovo insensato tutto il discorso che si consuma attorno a molti prodotti della pop culture, soprattutto da parte di chi dovrebbe vantare anche una certa esperienza di vita.
Faccio un esempio concreto, anche perché è ciò che ha funzionato un po’ da miccia a questo articolo. Non seguo molto i content creator – e questo non è certo per “spocchia”, ma semplicemente per mancanza di tempo – eppure, un paio di mesi fa mi sono appassionata ad una mini-serie curata da Sara “Kurolily” Stefanizzi (dubito abbia bisogno di ulteriori presentazioni per voi che leggete) e dedicata a Metal Gear Solid.
Seppur sia una giocatrice di vecchia data e abbia creato e coltivato la sua community proprio sulla base delle sue grandi competenze in ambito gaming, Stefanizzi non ha mai giocato alla serie creata da Hideo Kojima al momento della sua uscita, e così ha deciso di colmare questa “lacuna” di recente, portando live la sua blind run di Metal Gear.
Agli occhi di chi scrive, un’operazione potentissima per diverse ragioni: da un lato, per il valore divulgativo di questa scelta, in quanto non tutti i membri della sua community hanno l’età anagrafica per aver giocato quel titolo al momento del lancio – e questo anche per creare un’interessante lezione di storia del videogioco, soprattutto se paragonato alle produzioni contemporanee. Dall’altro, anche per normalizzare il fatto che, anche se sei un videogiocatore incallito, puoi esserti perso alcuni videogiochi fondamentali nel corso della tua vita per le motivazioni più disparate.
Apriti cielo: Kurolily, esperta di videogiochi e content creator sul tema, non ha mai giocato a Metal Gear Solid? Come osa? La situazione è diventata talmente grottesca che la stessa creatrice di contenuti si è trovata, in qualche modo, costretta a pubblicare un video, in cui ha dovuto ribadire (e non giustificare, attenzione) i motivi per cui non ha giocato alla serie a suo tempo. Questo perché è finita sotto attacco da parte di un gruppo (ristretto, ma rumoroso) di utenti che ha interpretato questa sua mancanza come un’onta intollerabile che mette in discussione il suo ruolo di gamer navigata.
Ammetto di aver provato fastidio a guardare quel video, e non certamente per colpa di Sara; ciò che mi ha disgustato è stato l’atteggiamento presuntuoso di chi, anziché apprezzare l’assoluta sincerità di una videogiocatrice competente e la sua voglia di mettersi in gioco e scoprire dopo anni un titolo così importante che si era persa durante l’adolescenza, ne depaupera l’operazione.
Questo, in modo inevitabile, innesca una reazione a catena: se non hai visto/letto/giocato un dato prodotto della cultura popolare, non puoi essere ritenuto degno di contribuire al discorso. E l’utente in questione si sente, di conseguenza, intimorito a tal punto che, pur di non farsi attaccare dal gruppetto di “detentori della verità”, si auto-esclude da qualsiasi forma di dibattito.
Quanto c’è di democratico e popolare in tutto questo?
L’ho visto accadere con i Jrpg, ad esempio, soprattutto quelli d’annata; per non parlare dei souls-like o (ancora di più) con i videogiochi indie (machedavero?). Sono tutti contenuti di cui certe nicchie decidono di appropriarsene (il famoso gatekeeping di cui sopra) e di decretare chi è dentro e chi fuori al dibattito. E questo, in realtà, non è un problema che interessa solo i videogiochi, ovviamente, ma – come ho sottolineato sin dalle prime battute – è una piaga che riguarda tutta la cultura popolare.
Lo stesso è accaduto qualche giorno fa, a seguito della prematura scomparsa di Akira Toriyama. Un momento che avrebbe dovuto essere di commiato, di condivisione e unione per tutta la community, si è presto trasformato in una gara ego-riferita a chi ne sapeva di più sull’autore di Dragon Ball. E sia chiaro, qui non si mette in discussione il ricordo affettivo che ciascuno ha nei confronti di un’opera o di un’altra, ma ho trovato senza senso chi ha deciso di sminuire coloro che hanno reso omaggio all’artista attraverso, ad esempio, il valore che un’opera mastodontica e universalmente riconosciuta come Dragon Ball (appunto), ritenendoli fan di “serie B” perché non hanno citato questa o quella produzione meno conosciuta di Toriyama (no, non sto parlando di Dr. Slump, che è altrettanto nota e arci-nota). A questo punto, una serie di interrogativi: cosa ti rende, dunque, più o meno fan di un dato autore?
Chi decide i criteri per cui tu possa essere ritenuto più o meno adeguato al lavoro di un artista o di un’opera? Ma soprattutto, perché deve essere sottovalutato qualsiasi tentativo di approccio, anche postumo, a opere specifiche?
Quando abbiamo deciso che la cultura pop sarebbe diventata un prodotto d’élite? Perché, invece, non proviamo ad adottare un approccio divulgativo e inclusivo ad essa, visto che la sua vocazione è esattamente quella?
Quanti film, quanti libri, quante serie televisive e quanti videogiochi mi sono persa nel corso della mia vita, ma che ho iniziato a recuperare un po’ alla volta, senza sentirmi per questo meno preparata o meno adatta a partecipare ad un discorso. Anzi; è proprio la possibilità di godermi quell’esperienza senza essere inseguita dalla minaccia della Fomo, da un lato, e dalla supponenza di alcuni membri talebani di determinate community dall’altra a dare ancora più valore alla fruizione di quel prodotto.
Ho il giusto tempo per dedicarmici, mi sento nel mood giusto per recuperarlo. E anche se io per prima sprono un paio di amici che non hanno mai visto I Goonies o Star Wars (YOU KNOW WHO YOU ARE!)a dar loro una chance, non ho mai ritenuto queste persone meno capaci di intessere una discussione sul cinema di genere. Magari è solo tutta una questione anagrafica, di interessi personali – o, più semplicemente, di bivi a cui la vita ci mette di fronte.
Vorrei tornare a innamorarmi di nuovo della cultura pop, ma soprattutto del dibattito genuino – e non per forza unilaterale, sia chiaro – che può consumarsi attorno ad essa. Vorrei tornare a vedere utenti di diverse fasce di età confrontarsi su un prodotto pop, senza l’”ansia” di dover pesare le parole tutte le volte o, nel peggiore dei casi, non prendere parte ad una discussione per evitare di essere insultati.
Vorrei che la cultura pop tornasse ad essere materia popolare, nel senso profondo del termine.
E non materiale per egocentrici che, senza alcuna ragione, hanno deciso di punto in bianco di metterci su le mani e a svuotarne il contenuto.
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