STAI LEGGENDO : One piece - riadattando gentiluomini di fortuna

One piece - riadattando gentiluomini di fortuna

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L'arrivo di One Piece su Netflix è una buona occasione per riprendere un discorso a me molto caro su critica e pubblico, su adattamenti, su traslitterazione e sul quanto è difficile stare sui social quando dici che non ti piace qualcosa che piace a tutti.

Il deja-vu è, cito testualmente da wikipedia, un fenomeno psichico rientrante nelle forme d’alterazione dei ricordi: esso consiste in eventi, cose, animali o persone che entrano in contatto col soggetto, provocando la sensazione di un’esperienza precedentemente vista o vissuta. Seppur impropriamente, viene anche chiamato “falso ricordo”.

Tutto ciò perché qualsiasi discorso possa fare su One Piece, nuova serie Netflix tratta dall’omonimo manga di Oda, mi sembra di averlo già fatto.
Di più, non solo i discorsi che faccio sono uguali a quelli fatti un annetto fa su Sandman, serie Netflix tratta dall’omonimo fumetto di Gaiman, ma anche le reazioni del pubblico, creando un parallelo, un’omonimia, che assume, almeno dal mio punto di vista, profili inquietanti e che con la serie ha a che vedere solo parzialmente.

One Piece Netflix

Netflix non è nuova nell’azzardare adattamenti ritenuti impossibili, non solo per la lunghezza pantagruelica che farebbe tremare i polsi a qualsiasi produzione, specialmente all’alba di uno sciopero, ma proprio per la natura intrinseca del soggetto, così squisitamente grafica e allo stesso tempo immateriale.

La pagina bianca vive di una libertà che un set, per quanto gonfio di CGI e attori in carne ed ossa non avranno mai, esistenze limitate, chiuse in un involucro che chiameremo “limiti fisici”, così inadatto a raccontare le infinite possibilità del testo originale. La prima mossa è quindi coinvolgere l’Autore, tenerlo lì a garanzia della genuinità del prodotto (vedi anche “cuore”) ma tutto ciò serve solo a placare il fandom dall’inevitabile alzata di scudi che l’annuncio dell’adattamento dell’Opera riscuoterà come impatto iniziale.

Sto parlando di Sandman o di One Piece?

A questo momento iniziale segue il rollout del materiale informativo: il casting, foto rubate dal set, voci di corridoio e non che iniziano a dissodare il terreno mentale del pubblico, in modo tale che la successiva fase di “semina” da parte del reparto comunicazione trovi un terreno fertile affinchè il giudizio del pubblico sia favorevole.

Questa parte è molto specifica, perché è inevitabile per parlare della serie di One Piece non citare la sua importante campagna di comunicazione che ha coinvolto la solita pletora di content creators e compagnia cantante.

Qui inizio con i discorsi noioso, se volete passate direttamente al paragrafo successivo.

One Piece Netflix

Il discorso noioso (kubleriano)

Un film è un prodotto che vive di due nature: la natura artistica, inteso quindi come un oggetto sviluppatosi per soddisfare una necessità artistica dell'autore, e una natura economica, la parte che interessa il produttore, una compagnia che investe nel progetto per averne un ritorno economico. Ora, dal momento che la parte artistica, intesa come insieme di valori estetici-formali, è in fin dei conti così irrilevante per Netflix, il prodotto, in termini economici, inizia con la comunicazione.

Mi spiego meglio: Netflix non ha interesse che tu arrivi alla fine del film o della serie. Netflix considera come “guardato” un film nei suoi primi tre minuti. Se una persona clicca e vede 3 minuti di qualcosa, per Netflix è un successo. Quindi, tutta la parte estetica-formale che poi dovrebbero essere il contenuto vero non è considerato un obiettivo prioritario per la piattaforma, come pagare il biglietto per non vedere il film.

Da questi presupposti la campagna di comunicazione può rientrare a tutti gli effetti e in termini produttivi come parte dell'oggetto economico, che inizia prima della serie stessa e che la amplia, creando un momento più esteso della durata della serie, che si esaurirà nel giro di una settimana, ottimisticamente.

Potremmo dire che One piece è iniziata nel momento in cui i primi creators hanno condiviso i loro contenuti, ovviamente tutti rigorosamente #adv.

Della serie arrivano poi le anteprime, grossomodo ad una settimana dall’uscita, cosicché chi si accolla l’onere di scrivere di questa roba ha il tempo di guardare la serie.
Nel racconto della fenomenologia adesso ci starebbe un commento vero sulla serie.

One Piece Netflix

Il commento vero sulla serie

Come è la serie Netflix di One Piece? Un prodottino mediocre.

Come già Sandman prima di lei, la serie non fa altro che ricalcare in maniera acritica i primi volumi del manga, rifiutando qualsivoglia sintesi delle esagerazioni tipiche della materia di Oda cercando un’aderenza quanto il più possibile (vedi sopra “limiti fisici”) al materiale di partenza.

Non ha un’idea di regia, non ha una scelta di fotografia, i costumi sono ben oltre il limite del ridicolo e ci starebbe anche bene perché il manga spesso e volentieri abbraccia il farsesco e l’esagerazione come cifra stilistica riconoscibile dell’opera, se non fosse che l'effetto generale è quello di una parata di cosplayer, di quelli nemmeno bravi, tra tutti brilla l'interprete di Shanks che fa un po' l'effetto di invitato ad una festa di Halloween che con una giacca nera ed una camicia rossa dice di essere vestito come Dylan Dog.

Aggiungiamo una regia ballerina che vorrebbe essere dinamica, movimenti di macchina che non stanno né in cielo né in terra, un montaggio che svilisce la categoria e abbiamo un prodotto mediocre costruito sul manga di successo più longevo degli ultimi 20 anni, che quindi tutto sommato si può guardare per la genuinità e la forza di quello che racconta, ma senza aggiungere niente, perché i meriti del successo della serie sono tutti da far risalire al manga originale, tale è la sua forza immaginifica.

E questo è il limite oltre il quale termina l'interesse e la simpatia per qualcosa di estremamente distante dal modo col quale intendo io gli adattamenti, il cinema e le serie tv.

Adattare è un lavoro complesso.

Non puoi prendere un media e trasformarlo in qualcos’altro schioccando le dita, è una questione di linguaggio.

Lo sa bene Stephen King che ha sempre odiato Shining di Kubrick perché si distaccava molto dal materiale originale, eppure è uno dei migliori film tratti da una sua opera (insieme tipo a Christine e Pet Sematary).

A seguire degli esempi.

Il Signore degli anelli è senza ombra di dubbio uno dei migliori adattamenti mai realizzati di un’opera letteraria. Senza sé e senza ma. Eppure Peter Jackson nell’adattare un’opera stratificata e complessa, mitica e mitologica, come Il Signore degli anelli opera una sottrazione, sceglie cosa raccontare, come metterlo in scena, ricostruisce un mondo fantastico in un posto che non poteva essere più lontano possibile dalle idee dell’autore.

Questo lavorare di sottrazione, questo compiere una cernita tra le cose che è possibile e non è possibile mostrare a schermo trasforma la trilogia del Signore degli Anelli in un fantasy quasi decadente, l’era della magia e degli elfi, è finita, gli eroi se ne vanno, gli uomini restano. Parte della sua bellezza, al di là degli intrinsechi valori estetico-formali di cui sopra, sta proprio nel delicato bilanciamento, nel compromesso tra una materia sconfinata e immaginifica e la realtà materiale con la quale il regista deve confrontarsi per raccontare quella storia al meglio.

La successiva trilogia de Lo hobbit è un’opera peggiore perché quel lavoro di bilanciamento è falsato da una cgi invasiva, e sì, dal lavoro sfibrante fatto per allungare 200 pagine di libro a 9 ore di film.

Altro esempio di operazione meritevole: Dune di Villeneuve.

Al pari de Il Signore degli anelli, Dune è stato considerato per anni inadattabile pur con alle spalle il film di Lynch che sviluppava quella materia in maniera insoddisfacente. Villeneuve compie delle scelte, opera una sintesi che diventa look, asciuga un testo famoso per i suoi lunghi monologhi interiori, i suoi sproloqui sull’ecologia e sulla religione fino a farne un film dritto come una spada che vive di immagini potentissime.

Se dovessi citare a freddo tre dei migliori adattamenti della storia del cinema sarebbero questi, nonostante ognuno a modo suo tradisca l’opera dal quale è tratto.

Un adattamento non deve essere un’opera di mera traslitterazione, non c’è valore nel riportare in maniera acritica, pedissequa, un’altra opera, non lo si può fare in termini generali per la questione del linguaggio (sono media differenti).

Gli adattamenti sono l’occasione per aggiungere, per interporre la visione di un altro autore, di manipolare un’opera affinché dica qualcosa di nuovo, prolungando la sua vita, ampliando il suo senso, raggiungendo altri che magari l'opera originale non l'avrebbero mai presa in considerazione. (Ci metto dentro anche The Last of Us, ndLorenzo)

Ogni autore non può limitarsi ad essere un mero lettore, non può solo ripetere il segnale che ha ricevuto leggendo l’opera originale, deve aggiungere qualcosa o almeno provarci anche solo sotto il profilo estetico-formale (inteso come valore dato dall’accostamento delle forme, dei colori, della composizione dell’immagine) lasciando inalterato il discorso simbolico-metaforico che porta avanti l'opera, e sarebbe comunque un'operazione rispettosa, ma magari non pavida.

E su questo concetto di adattamento il pubblico è ancora diviso, tra critici e acritici. Una parte che accetta che le opere sono materiale duttile, passibile di modifiche, riscritture e tradimenti, che quei personaggi possono dire anche altro, oltre a quello che hanno già visto e letto, e un pubblico acritico che vuole solo che un adattamento faccia da cassa di risonanza per il materiale originale in nome della fedeltà al testo, così com’è e come sempre sarà nei secoli nei secoli amen.

Non a caso utilizzo una terminologia religiosa, anzi. Se vi sentite toccati da questa cosa, sappiate che trovo l’ortodossia esasperante sia in termini artistici che comunicativi.

L’adattamento televisivo di One Piece non è altro che questo, una serie acritica: non giudica, non sceglie, nemmeno lo mastica il materiale originale, lo prende di peso così com’è e lo ingoia.

E per quanto una certa ambivalenza è accettabile, quello che non è accettabile sono le reazioni dei fan, che come fanatici religiosi si scagliano contro quelli che la pensano diversamente da loro, adducendo motivazioni ridicole, senza pensare che dall’altra parte c’è una persona che fa solo il suo lavoro e che non vuole nemmeno per sbaglio compromettere il vostro divertimento.

Perché esattamente come un anno fa ragionavo con amici su quanto Sandman non aggiungesse niente al materiale originale, adesso devo rivedere quell'affermazione perché tutto sommato, rispetto a One Piece, metteva in scena alcune idee di regia su almeno una puntata, cosa che che nell’adattamento del manga di Oda non accade nemmeno per sbaglio. One Piece non ha una puntata come quella ambientata nel diner di Sandman, che brilla per la scrittura prettamente weird british, che espande le suggestioni e le inquietudini della serie di Gaiman.

Essere un buon adattamento non significa necessariamente essere una buona serie; essere fedele non significa essere necessariamente un buon adattamento.

Per One Piece questa cosa non succede mai. Anzi, proprio perché è tutto così ordinario, tutto così prevedibile, tutto così ricalcato, il risultato finale è se possibile inferiore alla somma delle parti, e tutto il cuore che vedo traboccare da tutte le storie dei fan che ripetono a macchinetta i proclami pubblicitari diffusi a mezzo stampa dalla comunicazione di Netflix non salva la serie.

One Piece Netflix

Quore

Il cuore non ha niente a che vedere con la creazione di un prodotto commerciale. Le serie su Netflix non sono create perché una piattaforma dominata dagli algoritmi vi vuole bene, vuole solo i vostri soldi.

Aveva meno cuore The Witcher con Cavill? Meno cuore il tremendo adattamento di Cowboy bebop? E Secret Invasion? The Book of Boba Fett? Il crederci tantissimo non salva le serie dai danni fatti dalla totale mancanza di idee, salva solo l’accoglienza del pubblico: “Cuore” è solo il nome che la comunicazione ha scelto come adeguato per tirarvi dentro, per instaurare un legame emotivo tra voi, fan, e loro, fan.

E se volete essere tirati dentro, va benissimo.
Se siete contenti con la serie che state guardando, lo sarete indipendentemente dal voto che gli danno le persone che lavorano su internet, ognuno è libero di scegliere il proprio veleno come meglio crede (Non vedo l'ora di vedere il cuore dei prodotti di Warhammer con Cavill ndLorenzo).

Un voto, una recensione, non condizionano la vostra esperienza come videogiocatori o spettatori, o fruitori di qualsiasi opera. Le nostre esperienze condizionano il nostro giudizio, non viceversa. (e alla fine, bella o brutta che sia, stroncata o lodata che sia, se una cosa vi piace va benissimo così ndLorenzo).

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