Il Primo Re, l'eterna lotta tra umano e divino
Il mito di Romolo e Remo rivisto attraverso gli occhi di un mondo primitivo e difficile che non fa sconti allo spettatore e mostra le capacità di una produzione di prima qualità
Il Primo Re al di là del fatto che il film vi possa piacere o no, porta con sé innanzitutto un messaggio importante. Per moltissimi anni ci siamo fatti “colonizzare” dalle storie e dal passato di altre civiltà, le storie di cowboy, indiani, vichinghi, ninja e un fantasy prettamente basato sulle mitologie nordiche l’hanno fatta da padrone. Contemporaneamente abbiamo lasciato che le nostre storie fosse raccontate da altri, spesso in maniera grossolana. Questo è successo un po’ per una certa mancanza di mezzi produttivi, un po’ perché in fondo abbiamo questa brutta tendenza a guardare sempre all’esterno perché forse non “crediamo” troppo nei nostri eroi e nelle nostre storie.
Nonostante i fasti di cinecittà, lo spaghetti western, le sperimentazioni horror e il peplum, siamo quasi sempre stati “provincia” e mai “impero” e lentamente il nostro cinema di genere si è spento.
Eppure, l’Italia è ricca di miti, folclore, leggende, personaggi, nomi e storie che hanno un grandissimo potenziale ancora oggi e che potrebbero essere recuperate, rielaborate e raccontate ancora oggi. Pensiamo solo alle misteriose civiltà etrusche, il popolo sardo, l’incredibile bellezza dei panorami abruzzesi, le atmosfere angoscianti e nebbiose della pianura padana. C’è un incredibile potenziale inespresso.
Qualcuno in questi anni ci ha provato con un fantasy italiano che ha recuperato nomi, miti e credenze, ma è ancora troppo poco ed è troppo spesso qualcosa che rimane entro i nostri confini.
Una produzione mitologica
Il Primo Re è un progetto che nasce con questa idea in mente, il recupero di un passato che affonda le sue radici nel mito e nella leggenda, cercando di raccontare una storia che sia allo stesso tempo realistica e leggendaria, che racconti quello che doveva essere la vita nel 700 A.C. e ci permette di interrogarci su i miti fondanti di una civiltà tra le più importanti della storia.
Il risultato finale è un film che potrà dividere nel giudizio, ma con alcuni punti fermi di assoluto valore.
Il primo è senza dubbio lo schieramento di valori in campo. Gli effetti visivi sono spettacolari e si parte subito col botto, mettendo in scena un’esondazione del Tevere che prende alla gola lo spettatore e lo catapulta immediatamente in un mondo in cui la Natura è sia madre che matrigna e in cui gli uomini sono solo pedine in un gioco di forze spesso invisibili. L’azione è gestita in maniera estremamente attenta per tutta la durata del film, dosando con perizia momenti di maggiore introspezione e lentezza con combattimenti ben coreografati e messi in scena senza il rischio di non capirci niente. Potrà sembrare banale ma non lo è, considerando il basso numero di esempi positivi nel cinema italiano.
C’era senza dubbio molta curiosità sulla scelta di utilizzare una sorta di pre-latino come unica forma di linguaggio per tutto il film, con inserimenti di indoeuropeo là dove i reperti storici non arrivavano. Una decisione che ha scatenato ovviamente battute e confronti con Apocalypto, The Revenant o Valhalla Rising, (perché da noi sostenere qualcuno che osa e ci cred è sempre sacrilego) gli esponenti di quello che ormai potremmo definire un genere cinematografico vero e proprio quello del “Dramma storico senza compromessi”. Ma onestamente non capisco perché tirare in mezzo una eventuale poca originalità dell’ispirazione, i generi sono di tutti.
Personalmente l’ho ritenuta una scelta sensata, perché contribuisce a calare ancora di più lo spettatore in un contesto brutale, ai limiti del primitivo, dove il linguaggio doveva ancora del tutto strutturarsi e ci ritroviamo in un mondo fatto di sibili, fischi, grida gutturali e parole che in parte afferriamo se abbiamo fatto il liceo. Non c’è alcun termine moderno che in qualche modo ci porti fuori dal momento vissuto sullo schermo, non ci sono tentativi di diluire il passato con concessioni all'oggi, se non forse alcuni movimenti coreografici dei combattimenti, ma sarebbe francamente assurdo mettersi a discutere su come combatteva la gente più di 2000 anni fa.
Si potrebbe giustamente obiettare in questo caso sia il sottotitolo a distrarci da una visione su completa e su questo punto c’è poco da dire, è vero. Per fortuna ne Il Primo Re si parla molto poco e ho il sospetto che tutto funzionerebbe anche senza alcuna traduzione, tale è la forza del linguaggio cinematografico.
Basta semplicemente il tono, la posizione del corpo, l’espressione per mostrarci tutto ciò che dobbiamo sapere su quello che accade: paura, rabbia, risentimento, furia, lussuria, corpi che si contorcono, che partono nudi e piano piano si vestono di stracci, metallo e pelli per simboleggiare il loro rango, muscoli tesi, fango, nebbia e soprattutto fuoco. È cinema allo stato puro, immagini in movimento che comunicano anche senza bisogno che lo spettatore guardi sempre in basso.
Borghi e Lapice sono perfetti nel dare corpo e voce a due fratelli dagli animi molto diversi, ma legati da un affetto profondo, il tono da guerriero del primo si contrappone ai sussurri e alla gentilezza del secondo. Borghi in particolare porta avanti il film quasi completamente da solo, visto che è quasi sempre lui al centro della scena, il punto focale dell’azione, il fulcro della storia che vede invece un Romolo ferito e dimesso che solo in un secondo momento diventerà strumento del destino. Non da meno neppure Tania Garribba nei panni della vestale Satnei, che quando decide di maledire qualcuno ti fa sentire in colpa, sacrilego e maledetto e tutto il resto del cast sa integrarsi perfettamente sia come voci che come aspetti di un mondo lontano, alieno, eppure così vicino.
Tra uomo e fede
Il Primo Re è strutturato come un lunghissimo dialogo sulla natura del divino e dell’umano. Si apre con una citazione che recita più o meno “Un dio che si può spiegare non è più un dio” e che mette subito in chiaro che l’importanza del mito è legata al mistero e al bisogno di una non comprensione. È un viaggio dell’eroe atipico che dà invece grandissimo spazio alle ragioni di quello che poi sarà il suo antagonista e si struttura seguendo da una parte i classici topos narrativi della tragedia, in cui ogni atto di hybris non resterà impunito e la morte arriva per tutti, possibilmente in maniera sanguinolenta e dolorosa, e dall’altra segue una narrazione moderna di “cinema verità” in cui allo spettatore non viene risparmiato niente: sangue, budella, ossa rotte e sgozzamenti, che rientrano però in un contesto di brutalità generale che sarebbe altrimenti risultato posticcio.
Umano e divino sono le due grandi forze che regolano il destino di questi gruppetti di pastori sparsi in giro per il Lazio che un giorno diventeranno qualcosa di più. Gente capace di spaccare teste senza troppi problemi che però ha una paura terribile di varcare il confine invisibile segnato da un cerchio di focolari. Un mondo che viaggia dunque a due velocità, da una parte l’importanza di obbedire alle leggi della natura e il non farsi schiacciare da un contesto violento e dall’altra il bisogno di sottostare a regole divine, a una forza che non possiamo fare altro che rispettare, perché non possiamo spiegare.
Romolo e Remo si trovano in mezzo a tutto questo e sappiamo benissimo come la storia andrà a finire, la bravura di Rovere sta nel riproporre il mito in maniera non convenzionale, facendoci anche sperimentare le motivazioni di entrambi i punti di vista. Inizialmente i fratelli sembrano quasi rivivere le meccaniche di una loro personalissima Anabasi, persi nei boschi con un gruppo di loro pari, braccati dagli uomini di Albalonga, in cerca di una casa che non esiste. Ma più aumenta la forza del loro gruppo, più iniziano a mostrarsi come i campioni delle due forze contrapposte.
E mentre Remo si vestirà e comporterà sempre di più come un re che vuol essere il proprio Dio, sfuggendo alla profezia che prevede il sacrificio del fratello, Romolo rimarrà forte della propria fede, pronto al sacrificio. Entrambi sono mossi da un amore puro l’uno verso l’altro che in differenti momenti salverà loro la vita, ma che inevitabilmente verrà messo da parte quando arriverà il momento di andare incontro al destino.
Fede e Ragione, umano e divino, un destino da costruire con le proprie mani e un altro che segue le indicazioni di qualcosa che non possiamo capire. Poteri che si scontrano che si sommano per gettare le basi di una civiltà che dominerà il mondo grazie al sacrificio fraterno. Tutto questo è riassunto in un film senza dubbio coraggioso, che chiede molto allo spettatore, ma che sa anche tenere desta l’attenzione e ripagarlo con momenti di cinematografia pura. Una produzione spettacolare, dietro la quale si cela un lavoro enorme di ricostruzione, casting, effetti speciali, fotografia, ricerca di luoghi adeguati del quale dovremmo andare fieri. Un film italiano che ci ricorda cosa si può fare in questo paese quando ci sono i mezzi e la capacità di usarli e che la nostra tradizione è grande e dobbiamo ricordarcelo.
Una produzione ambiziosa, che sapeva di scontrarsi contro le ritrosie di un paese che ama dirti "ma chi ti credi di essere?" perché da noi gli eroi e gli ambiziosi sono sempre visti con sospetto. Se proprio la patina di questo film vi pare fin troppo pretenziosa, sappiate che sotto so nasconde comunque un film d'azione con gente che si pianta lascial in testa a vicenda.
Infine, un film che parla del mito di Roma senza cadere nei tranelli della retorica populista. C’è sempre il rischio in questi casi di strizzare anche involontariamente l’occhio a gente che alza troppo il braccio e che negli anni si è appropriata di un certo tipo di immaginario. Ma il bello de Il Primo Re sta anche qua nel messaggio finale di una civiltà che nasce per dar spazio agli ultimi e agli emarginati.
Adesso, cortesemente, mi fate un bel fantasy cattivo sugli etruschi?