I Goonies, certe mappe le hai solo da giovane
Uscito il 7 giugno del 1985, il film di Donner è ancora un perfetto inno all'avventura e al mondo segreto dei ragazzi
Quest’anno i Goonies (lo dico per te che magari leggerai questo articolo in futuro) compiono 33 anni, gli anni di Cristo, gli anni di chi ormai si dev’essere lasciato alle spalle i pomeriggi di noia da riempire, la fuga dagli adulti, le avventure nel cortile dietro casa che diventano safari.
Un film culto che nasce per rispondere a una domanda molto semplice posta da Chris Columbus: cosa fanno dei ragazzini che si annoiano durante una giornata di pioggia?
I Goonies è stato, come molti capolavori, un film baciato dalla fortuna, dal caso e da una gestazione piena di casini. Proprio come un ragazzo che cresce, è riuscito a superare tutto questo restituendo una storia che è ancora estremamente divertente e fresca da guardare. Anche se sei un ragazzino figlio dei social e del disincanto post moderno.
Perché la bellezza dei Goonies è la bellezza della rappresentazione di un’epoca che sta tra l’infanzia e le prime propaggini della maggiore età. Quel momento brevissimo e perfetto in cui, in cui tutto è più intenso, più vero, più forte. Si è tutti uguali e tutti diversi, in cui maschi e femmine giocano assieme in attesa che la pubertà li faccia guardare strano.
La potenza di questa storia è quella del cinema fantastico di quegli anni, che per la prima volta doveva parlare a una generazione nuova e strana, cresciuta a metà tra le filosofie degli anni ’70 e i primi ruggiti del consumismo anni ’80. Una generazione che iniziava a consumare videogiochi, fantascienza, fantasy, giochi di ruolo e che vedeva nell’immaginario una potente via di fuga dal presente.
Ed ecco che in quegli anni “l’eroe bambino” possibilmente isolato, intelligente e schifato da tutti diventava il fulcro di storie di ogni tipo. Da Navigator a La Storia Infinita, passando per Explorers e arrivando dalle parti di Una donna esplosiva. Sono gli anni in cui scopriamo la tecnologia, la musica diventa sempre di più un prodotto di consumo di massa e i ragazzini sono al centro di tutto questo. Ragazzini che si prendono in giro, che giocano, che vedono gli adulti come alieni e che vivono avventure incredibili.
Un sentire che all’epoca contagiò quasi tutto il mainstream occidentale (senza contare gli eroi bambini dei cartoni giapponesi) e oltre ai Goonies creò quello che forse è il manuale perfetto della giovinezza: It. A dire il vero King aveva già fatto le prove generali con The Body/Stand By Me (che infatti diventerà un film) ma è in It che tutta la sua teoria sulla giovinezza deflagra come un fuoco d’artificio. Nessun altro libro riesce a convogliare con la medesima intensità, precisione e bellezza quelle sensazioni uniche che sono proprie dell’amicizia tra ragazzi. Quel diventarlo senza proferir parola, quei pomeriggi in cui sfuggire alla noia e l’orribile sensazione di quando improvvisamente ti volti, sei cresciuto e tutto finisce.
Ecco, prima di It i Goonies riuscivano a darci tutto questo, l’alchimia di un gruppo eterogeneo, ben prima che si parlasse di diversity, in cui tutti avevano il loro ruolo che non sfugge alle regole della narrazione. C’è il bullo, il buffo, quello tecnologico, il tizio “medio”, la ragazza impaurita e quella di cui ti devi innamorare. Un roster che funziona sempre e che fornisce a tutti un volto con cui immedesimarsi e un’avventura da replicare. E poi c'erano le scenografie, che sembravano quelle di un libro pop-up, l'azione e i cunicoli di una casa stregata del Luna Park e una inquadratura che, furbescamente, stava sempre ad altezza di bambino. I riferimenti alla tradizione letteraria e cinematografica d’avventura sono innumerevoli: da Twain e Verne passando per Salgari e Molnar fino ai moderni supereroi crossmediali come Superman e alle saghe di Indiana Jones e dell’agente 007.
I Goonies, i perdenti, gli "outcast" sono un rifugio per anime sole, che fuggono nel fantastico a vite piatte, provinciali e trite. Accettano il diverso perché sono diversi, ma non senza prima prenderlo in giro, perché il rito d’iniziazione è parte di ogni gruppo.
Un’avventura che poteva essere molto diversa se Spielberg avesse accettato di dirigerla, ma vuoi perché era occupato con Il Colore Viola, vuoi perché dopo E.T. era stanco morto, decise di girare la palla a Chris Columbus e Richard Donner, il quale, paradossalmente, odiava lavorare con i bambini.
Eppure, parte della magia del film nasce anche dal cast, che in larga parte era composto da ragazzi con pochissima esperienza attoriale. Donner ha raccontato che si distraevano durante le riprese, andavano costantemente stimolati, coccolati e trattati tutti allo stesso modo. Se abbracciavi uno poi dovevi abbracciare tutti gli altri, altrimenti avrebbero recitato male.
Gli scherzi sul set erano all’ordine del giorno, a farne le spese era soprattutto John Matuszak, ovvero l’ex giocatore di football americano che dopo 4 ore di trucco diventava Slot, così come i piccoli litigi, le pause per mangiare un pezzo di pizza e ciack che andavano ripetuti perché i ragazzi uscivano dal personaggio. Gli dicevi di non andare ad abbracciare Slot dopo essere stati nell’acqua perché altrimenti erano di nuovo ore di trucco e loro lo facevano comunque, giravi la scena del galeone e loro imprecavano, costringendoti a ripartire da zero, perché era la prima volta che vedevano il set e non riuscivano a contenere la sorpresa.
Per fortuna Donner, al grido di “so’ ragazzi”, la prese bene, anzi secondo lui la freschezza e la non professionalità del gruppo si rivelò fondamentale per la buona riuscita del film, insieme ad alcuni momenti di improvvisazione. Ad esempio, la Danza del ventre di Chunk o il suo interrogatorio a cura della banda Fratelli, in cui Joe Pantoliano e Robert Davi gli tiravano i capelli più vicino al collo per farlo piangere. Quelle sono lacrime vere.
Quando è uscito Stranger Things gran parte del suo successo è stato attribuito alla nostalgia, ma forse ciò che veramente ha messo in contatto qualcosa di così moderno con ciò che eravamo è stato il ritorno di quella forza invisibile che senti da ragazzo, quel senso di vivere una sorta di realtà aumentata, di vedere il mondo con un filtro differente. Per qualche secondo quel filtro è tornato e siamo tornati a quelle fughe dalla realtà, a quel galeone, a quel senso di “finché siamo assieme tutto è possibile”.
Perché essere ragazzi vuol dire possedere la mappa di un mondo che agli adulti non possono vedere, a meno che non siano pirati.