Dylan Dog 406 - L'ultima risata / Un'analisi
Dylan Dog 406: Roberto Recchioni e Corrado Roi concludono il ciclo 666 con un albo cupo e potente, che ne chiude la trama trasversale.
Con questo numero 406 di Dylan Dog si conclude questo ciclo 666 che ha creato una nuova storia delle origini per il personaggio. Come al solito in tutto il ciclo, la sceneggiatura è di Roberto Recchioni, il curatore della serie. I disegni, invece, sono - nuovamente - di Corrado Roi, con cui si era aperto il primo numero, il 401, completato nel 402. Roi aveva anche chiuso, con le ultime tavole, il numero 400 (di Angelo Stano), la fine del vecchio Dylan e del ciclo della meteora. Il 404 - disegnato da Gerasi - riprendeva il suo numero 4, e di nuovo di Roi era la chiusura il numero 405, secondo la consuetudine introdotta di chiudere un numero con una anticipazione del successivo. Roi, in questo modo, viene ribadito come il riferimento principale del "nuovo inizio", che ha visto la scelta di disegnatori - nuovi e storici - di alto livello, e nella chiara direzione di un segno di sintesi. Inoltre, Roi tornerà anche nel 407, "L'entità", sui testi di Barbara Baraldi: ulteriore modo di rimarcare la sua centralità. Naturalmente, l'analisi di questo numero ci porterà poi a elaborare un bilancio su tutto il ciclo. Cercherò di evitare spoiler macroscopici: ma, come al solito, ne consiglio la lettura dopo aver letto l'albo. Ma procediamo con ordine: e riprendiamo da dove eravamo rimasti.
La sequenza finale del 405.
Sul finire del 405, la parte disegnata da Roi (89-98) aveva visto Dylan entrare in una dimensione parallela. Da notare che il passaggio nei due sensi avviene tramite lo spazio bianco del fumetto, a p. 91 e 96. Incontriamo Groucho (92) e Dylan (93) nelle loro immagini iconiche di prima apparizione del personaggio. I poster sono ben visibili alle spalle dei due diversi Dylan: Babadook (2014) quello nuovo, a p.90, e Rocky Horror Picture Show (1975) quello classico, a p.93. Evidenziano un discorso meta-citazionistico: Dylan si è sempre basato sulle references, ma ora esse vengono allargate e integrate. E infatti, il riferimento a Babadook riappare in 97, col ritorno alla "nuova dimensione". Un elemento che poteva far presagire un 406 nuovamente molto citazionista, come già il 399-400: la chiusura di questa lunga fase di Recchioni autore su Dylan avviene così nel segno forte di un elemento centrale della sua poetica.
Il citazionismo
La Treccani dà il citazionismo come fenomeno "unitario" (vedi qui), ma Recchioni tiene molto alle sfaccettature della sua rete di rimandi, come dichiarato spesso in uscite pubbliche in interviste e sui social. Direi che possiamo identificare due direzioni primarie: da un lato, elementi intradiegetici (come i due prima presentati, i poster di Babadook e RHPS), ovvero opere reali che esistono anche in un dato mondo immaginario; dall'altro, citazioni extradiegetiche vere e proprie, ovvero elementi di altre opere usati all'interno dell'opera stessa. Ad esempio, la scena della motosega di "American Psycho" riadattata in questo fumetto. Un caso interessante e intermedio è costituito dal dialogo referenziale intradiegetico: se il rimando è esplicitato, si tratta di un elemento intra-diegetico come i poster succitati (ad esempio, in quest'albo, il rimando a Star Wars in 79-80). Se invece non c'è rimando esplicito, è avvicinabile a una citazione extra-diegetica: il Dylan di 94.i cita "Dellamorte Dellamore", per dire. Ma ne è consapevole? In questo caso, probabilmente no: nel suo cosmo narrativo Francesco Dellamorte è una persona reale (e forse Dylan cita il suo vecchio amico?). In altri casi, è difficile a dirsi (per dire, io credo che "Videodrome" esista come film in questo mondo: e allora a p.83.iii lo si cita intenzionalmente oppure no?). Talvolta (quando all'autore è indispensabile chiarirla) l'intradiegetica è chiarita da una nota a margine; talvolta no. Un gioco di specchi raffinato e intricato, che usa anche questi "vari piani del citazionismo" - ma anche altre stratificazioni, di cui ora diremo - per creare una tridimensionalità labirintica dei rimandi. Del resto, lo stesso spazio del manicomio è concepito come un labirinto borgesiano, un tesseract psichico (e psichiatrico) dove le storie si incastrano lungo strane linee di congiunzione. Sulla diegesi, con particolare riferimento cinematografico, vedere qui.
Il 406
Il 406 riprende dunque con i nostri eroi che vanno a cercare "'l'uomo che ride" ad Harlech. Cessa il rimando a un albo preciso, interrompendo le corrispondenze (mai lineari) che c'erano state, finora, dal n.1 al n.5; ma, come accennato, subentra una rete citazionistica ben più complessa. La bella cover di Gigi Cavenago, coerentemente, ospita un Groucho a tutta pagina, mai apparso così centrale su una cover della regolare. La cover come al solito presenta un effetto speciale (un elemento voluto da Airoldi) che in origine avrebbe dovuto vedere delle lenti specchiate. Con un significato diverso: Groucho non fisserebbe Dylan, ma proprio il lettore. In quel caso, "l'ultima risata" potrebbe divenire un altro rimando anche all'ironia citazionista.
Inoltre, "L'ultima risata" può essere letto da alcuni come un rimando a "The killing joke" di Alan Moore e Brian Bolland; ma il rimando più appropriato è al film omonimo, di Murnau, del 1924, dove un portiere (qui, "un maggiordomo") viene privato del suo ruolo e questo lo precipita nell'abiezione. Questo è un altro aspetto del "doppio citazionismo" di Recchioni, qui paradigmatico ai livelli del 399-400. Anche "L'uomo che ride", come viene chiamato il serial killer, è il rimando a un film di Paul Leni del 1928, derivante da un romanzo di Victor Hugo, e che potrebbe essere seminale per l'iconografia del Joker, insieme ad altri spunti.
Le prime tavole ci introducono il commento sonoro de "La casa" di Endrigo, usata qui come una classica filastrocca horror (uno straniamento aiutato anche da quanto evoca "La casa" di Sam Raimi in ambito horror; o magari "Quella casa nel bosco", fondamento dell'horror "postmoderno" di questi anni, tutto incentrato su una struttura metanarrativa). Due potenti splash pages, di poco distanziate, ci mostrano un Harlech Asylum reso a suo modo vicino all'Arkham Asylum di Batman (specialmente nella lettura di Grant Morrison e Dave McKean). Batman, del resto nella collaborazione tra le due case editrici è stato associato a Dylan Dog (con una sua storia congiunta dei due personaggi, di Recchioni). Il giardino labirintico può invece far pensare, a tratti, a quello di Kubrick in "Shining". Harlech appariva comunque già nel n.8, "Il ritorno del mostro": altro elemento di quella mitologia delle origini che viene qui ripreso (senza, però, questa volta, rispondenze puntuali nella storia, ma come cornice di altri rimandi). In mezzo, l'arrivo di Dylan e Gnaghi può ricordare il loro analogo vagabondare nella Foresta Nera nel 403, rimando ulteriore all'analoga situazione con Groucho nello storico numero 3.
Come ci si può attendere, Dylan Dog affronta vari "nemici intermedi" (presentati in p.18) che preparano il confronto con l'antagonista finale . La posizione degli occhiali a spirale in 18.i richiama "Saw, L'Enigmista", basato su una serie di sfide successive: un gioco già ripreso da Recchioni nel suo "Il giudizio del corvo". Il tutto permette ovviamente di dare le ultime pennellate alla definizione del personaggio: nel primo scontro, ancora fuori dalle porte, con un cane fantasmatico (un archetipo che risale a Cerbero, ripreso e modernizzato ne "Il cane infernale" di Sclavi, e chiarisce la natura di "discesa agli inferi" della storia), ad esempio, vediamo come Dylan mantiene il carattere di "animalista convinto".
La regina Mab è un rimando shakespeariano (p.19), autore caro a Recchioni che ha inserito un riferimento al bardo in ogni numero di questa miniserie (e in diversi dei numeri precedenti da lui sceneggiati). L'altro rimando è quello al Cappellaio Matto di "Alice in Wonderland" di Lewis Carroll (p.20), coerente del resto col fatto che anche questo Cappellaio ha una sua sadica "regina folle". I matti che controllano il manicomio è un archetipo narrativo introdotto probabilmente da Edgar Allan Poe in "The System of Doctor Tarr and Professor Fether" (1845). Per certi versi il tema - lo psichiatra folle, il carcere psichiatrico - è sviluppato anche in "Cabal" di Clive Barker (1988); ed è anche un luogo comune dell'Arkham Asylum batmaniano, naturalmente. Sotto il profilo visuale, p.19 introduce la prima di numerose "inset page", con una splash page di sfondo su cui sono incastonate diverse vignette come tasselli. Un nuovo elemento di linguaggio visivo "americano" che sta sempre più prendendo piede in Bonelli, essendo ormai sdoganata la splash page (ampiamente usata in questo numero: ad esempio, appunto, in 21, per introdurre l'antagonista finale). Interessante, al proposito di questo linguaggio "statunitense", quest'intervista a Roi.
Ritorna il tema della "fisica fantastica" (tavola 23-24), introdotta già nel ciclo della meteora e ripresa più volte nel ciclo 666. Questa teoria ha un valore più ampio nello studio metaletterario che Recchioni ha fatto sul personaggio, ma si rivela anche estremamente utile per risolvere con un guizzo d'ironia i casi in cui le tecnologie (introdotte per modernizzare il personaggio e la sua ambientazione) si rivelano dannose nella dinamica classica dell'horror.
Anche la sequenza col primo antagonista (p.25-29) porta a una ampia e dichiarata citazione intradiegetica di "Moby Dick" di Herman Melville, che conferma una certa natura letterariamente ricca di questo nuovo Dylan sotto il profilo dei rimandi ad altri testi anche letterari (un ritorno, anche qui, allo Sclavi dei primi numeri, declinato ovviamente in altro modo). Moby Dick non è nemmeno un rimando così casuale, perché attorno al suo adattamento si è costruito il dibattito americano sulla legittimazione dei comics. Al tempo stesso, Dylan Dog ha già affrontato storicamente questo tema, in "Sulla rotta di Moby Dick". Torna anche qui, in modo manifesto, una caratteristica del Dylan Dog di Recchioni (presente fin dai suoi primi racconti del personaggio, nel 2007): ovvero la risoluzione dei problemi senza la violenza. Viene apertamente rivendicato: "Non tutto si risolve con un colpo di pala!" (tavola 29).
Il secondo scontro (30-33) ribadisce l'estetismo dandystico - fin dalle origini - di Dylan Dog (tavola 26), con il rimando al suo cappotto di marca. Tutta la scena richiama American Psycho, ma l'antagonista - stando allo stesso Recchioni - potrebbe rimandare allo sceneggiatore nella scelta grafica effettuata da Roi. Inoltre, "American Psycho" era stato citato da Sclavi in "Ucronia", prima storia di quel gruppo di albi che, tra 241 e 250, avevano offerto il suo addio (all'apparenza definitivo) al personaggio. Se lo yuppie killer apparso nelle prime tavole è un rimando a quello di Bret Easton Ellis, il tema dell'Ucronia e delle dimensioni parallele ha una forte connessione coi temi di quest'albo.
Al di là del rimando filmico detto sopra, la quadrupla in 33 sottolinea, a un terzo dell'albo, la progressiva "discesa agli inferi": dopo i due psicotici "normali", nei bassifondi troveremo antagonisti sovrannaturali, apertamente demoniaci.
Il terzo incontro ha infatti un sapore dichiaratamente lovecraftiano, anche per il rimando aleggiante su tutta la storia al manicomio di Arkham, che ispira il suo nome a uno dei luoghi di Lovecraft; si unisce il tutto a un mash up con la madre di "Psycho" di Hitchcock, rispondente al tema manicomiale; e del resto prima abbiamo avuto "American Psycho": la discesa è anche una discesa nella profondità degli archetipi. Ma è anche una ripresa dell'analogo mash up di Sclavi-Castelli-Roi in "Dal profondo", il numero 20 del personaggio, che immaginano un altro figlio, mostruoso non solo nell'atteggiamento, per la sventurata famiglia Bates.
Il quarto avversario porta a una ripresa di L'esperimento del dottor K. (1958), ma anche al Renfield di "Dracula" di Bram Stoker, e su tutto aleggia ovviamente un sapore kafkiano. Ritorna il gusto tipico di Recchioni per la "citazione depistante": citare un elemento seminale (l'uomo-mosca, qui) sapendo che evocherà la citazione immediatamente più vicina (Cronemberg, "The Fly"), ma stratificando in modo da richiamare in verità quella più remota. Rispetto agli albi di Dylan, viene in mente "Il re delle mosche", dove il barone universitario dal soprannome diabolico di Belzebub è effettivamente circondato di mosche, come la divinità babilonese Baal nella deformazione biblica.
Il personaggio di Yuki potrebbe far pensare a una sorta di Harley Quinn per l'adorabile psicopatia, ma non c'è connessione apparente con "L'uomo che ride" (che ha ben altre amanti...), con forse un rimando visivo a Gogo Yubari di Kill Bill. La sequenza consente a Roi di mettere in campo un vertice ancora più alto nella rappresentazione dell'orrore, in tavole potenti come 54 (a nove vignette), 55 (splash page) e 56 (una griglia classica, con una potente sequenza centrale): a p.55, il muro di corpi rimanda a Giger (già ripreso, in parte, da Roi in UT): c'è anche uno xenomorfo incastonato, e in generale tutta l'atmosfera qui lo richiama (il tipo di bizzarra chirurgia, diciamo così, potrebbe far pensare anche all'Human Centipede, o magari certo torture porn giapponese). Il sadomasochismo di Yuki appare speculare a quello di Mater Morbi: una "paziente horror" idealtipica quanto l'altra è l'archetipo della Malattia. Oltre a costituire un'ulteriore "tentazione di Dylan", la sequenza di Yuki, nell'economia della storia, esplica il destino del personale medico.
In generale, queste tre ulteriori sequenze di graduale avvicinamento all'ultimo antagonista (in un meccanismo quasi "videoludico" di avvicinamento al boss finale) permettono a Roi di declinare al meglio la sua arte, che ricorda - con un segno del tutto personale - i grandi del fumetto argentino. Ci si offrono numerose tavole di grande fascino visivo, anche grazie al montaggio come al solito asciutto nei testi e molto vario e alternato nell'impostazione di tavola: come detto, gli inset panel di p.19 e p.39, la splash di p.21, la vertiginosa prospettiva di p.33 o la griglia verticale di p.32 e p.40, ma anche una tavola tradizionale come la 34: e questo per fare solo alcuni esempi. Nei due numeri precedenti, una lunga sequenza basata sul piacere visuale era stata il punto di arrivo dell'albo, il suo culmine dopo una climax relativamente più "narrativa": qui, all'opposto, Recchioni permette a Roi di dimostrare la sua magistrale bravura con una carrellata di brevi sequenze ispirate ai diversi topoi orrorifici (una struttura tipica del Dylan delle origini, da Gli Uccisori in poi) prima di un finale maggiormente "narrativo" (per l'esigenza, ovviamente, di trarre le fila del ciclo).
Da un punto di vista narrativo, diviene sempre più evidente il gioco dell'antagonista finale, che mira a spingerlo di nuovo agli errori del 405 (e del numero 5) - con l'aperta e ironica citazione di Star Wars (p. 79-80). Recchioni ha così modo di consolidare la sua riscrittura del mito avviata al 404, coerentemente con un "programma lungo" sul personaggio: fin dal suo esordio nel 2007, Recchioni ha dichiarato di volere (e cercato di mantenere anche come curatore) un Dylan che, quando ovviamente in possesso delle sue facoltà, risolva le situazioni senza l'uso della violenza. Non manca un plot twist in questo senso, che introduce (p.61-63) l'ultimo terzo dell'albo.
L'incontro con Lord Chester (tav.62) introduce questo personaggio, apparso con Harlech al numero 8, e di cui viene ribadita la specularità con Gnaghi, e anticipa già in parte quello che sarà il logico finale, mostrando questa duplicazione del personaggio. Marcata anche la somiglianza del personaggio di Gnaghi, rispetto all'originale disegnato da Stano illustrando "Dellamorte Dellamore", allo stesso Sclavi (vedi ad esempio tav. 48), suggerita anche dall'assonanza dei nomi: il che renderebbe - su un piano puramente evocativo - anche Gnaghi un elemento vestigiale della trasmutazione avvenuta nel numero 400.
Dopo un ultimo, significativo rimando al tema del labirinto a p.68 (quello delle citazioni?) si giunge a un confronto finale porta all'esplicazione - in sé già evidente dal corso della narrazione del ciclo, e della vasta discussione scaturita online - del rimando al concetto di "Altroquando", teorizzato in questo termine da Sclavi nel primo speciale (da Sclavi si recupera anche la poesia sulla morte di 78, ovviamente), remixandolo con concetti già ampiamente presenti di multiverso cari al fumetto americano ("Crisis on infinite Earths", come caposaldo: e molto ha scritto Grant Morrison al riguardo). Ma, naturalmente, quello del multiverso è un concetto scientifico ripreso con enorme fortuna dalla fantascienza. Aggiungiamo che l'idea di "Terra 666" che dà il titolo al ciclo (a indicare un cosmo degenerato per i suoi inizi oscuri nel Ciclo della Meteora, con un classico numero dylaniato, a partire da una nota targa) rimanda alla "Terra 616" introdotta da Moore, su Capitan Britannia; e benché dica che il numero è casuale, difficile trascurare il fatto che sia una variazione poco nota del 666.
Si richiama il 399, e si ha una scena simmetrica, collegata a quel ciclo. Non svelo la soluzione adottata, naturalmente, ma si conferma l'abilità di Recchioni nell'elaborare trame a lunga gittata, collegando tra loro gli elementi in una continuity vuoi blanda (prima) vuoi stretta (questo nuovo ciclo). Sono elementi che ritornano anche nella realtà parallela del nuovo OldBoy: ma si tratta in questo caso, più che di una corrispondenza tra universi paralleli, di un macro-tema che si è voluto sottolineare. Continua, anche in questo finale, il citazionismo: lo sparo in 76.ii richiama la modalità resa iconica da Frank Miller, sia pure riquadrata; in 83,iii-v vi è una ripresa di "Videodrome" ("Morte a Videodrome, gloria e vita alla nuova carne!"). Nella sequenza 84-87 è evidente il rimando al King di "It": un pagliaccio feroce che maschera un mostro ben più terribile, in forma di aracnide.
Dopo questa svolta narrativa, le cose procedono in modo consequenziale, tra una rottura aperta della quarta parete (tav. 88.v: secondo modalità usate da Morrison, ma in realtà seminali dei fumetti fin dalle loro origini) e un rispetto dei vari archetipi narrativi messi in campo. L'ingresso in scena di Groucho apre alla citazione di Woody Allen ("Amore e guerra", 89.ii) e di Casablanca (89.iv).
I vari set up hanno i loro dovuti pay off, e i lettori si ritrovano tra le mani un Dylan "uguale e diverso, vecchio e nuovo" (ad esempio, ora ha una ex-moglie, seguendo l'archetipo del detective del noir), pronto a ricominciare con loro. Come nelle classiche origin story, ogni elemento del canone finora assente va al suo posto (emblematiche 93-95: "Il maltempo si è guastato" è un'ultima, doverosa citazione a Dellamorte Dellamore), tra una citazione finale di "Non aprite quella porta" e quella conclusiva di "Ghostbuster" (98.ii) che è simmetrica al primo elemento referenziale introdotto da Sclavi al n.1 (con la colonna sonora implicita del primo ingresso in scena del personaggio). Alle sue spalle, nell'ultimissima vignetta, campeggia un poster usato già dal Dylan classico, quello dei King Crimson.
La bottiglia che appare in 95.iii (ma già apparsa in precedenza, ma che non si vede mai integralmente) è di Vat 69.
Conclusioni generali.
Complessivamente, dunque, questo sesto episodio chiude dunque a dovere il ciclo impostato da Recchioni secondo i principi di un "Year One", con una riscrittura delle origini del personaggio che si conclude ricollegandosi all'inizio delle sue vicende ordinarie. In conclusione, penso di poter riaffermare in modo più preciso quanto avevo detto in una analisi del 401 dove sul finale avevo evidenziato quattro livelli di lettura offerti:
A un primo livello, si conferma la seduzione visiva. Il primo elemento che seduce il lettore, in grado di catturare anche colui che sfogli l'albo casualmente in edicola. In particolare, emerge la nuova centralità data a Corrado Roi sotto il profilo visivo, una giusta celebrazione che suggerisce un "tono generale". Stano era la secessione viennese di Egon Schiele applicata all'horror, e con questo Sclavi dichiarava apertamente la volontà di una crasi radicale tra "ciò che sta in alto" e "ciò che sta in basso" (nella percezione sclerotizzata della cultura del tempo, ovviamente). Curioso che il primo premio italiano ad aver riconosciuto tale seminale eccellenza sia stato solo il Premio Coco di quest'anno, come riconosciuto anche da Recchioni in un'intervista (al minuto 1.oo).
Con Roi, Recchioni pone al centro un certo gusto dell'espressionismo tedesco cinematografico, filtrato da un certo gusto fumettistico argentino (e, sullo sfondo, riferimenti eterni della storia dell'arte come un Piranesi, un Escher): il tutto in una sintesi assolutamente autoriale, che si riverbera anche nei vertici creativi raggiunti - con perfetta sinergia di testo e disegno - nei numeri 404 e 405, di cui avevamo detto, dove sia Gerasi che Pontrelli danno il meglio di sé, mentre Mari conferma i suoi alti livelli e Dossena ha modo di fare un esordio di lusso, "sesto tra cotanto senno". Un modello alto, che ribadisce l'intenzione di fare di Dylan il crocevia tra fumetto popolare e fumetto autoriale, a partire dal segno, fino allo sperimentale.
A un secondo livello, permane una scelta per l'horror di tensione e di azione in modo più marcato rispetto al passato, in parte come ritorno alle origini primordiali, in parte in modo autonomo. Una scelta che parla al lettore anche occasionale, che conosce magari Dylan Dog in modo generale, offrendo una esperienza di lettura rapida e godibile: si sacrifica al limite, almeno in questa prima fase, la "trama fitta" di certo bonelliano (non tutto), e sicuramente si abbandona una certa ridondanza informativa; in favore però di dialoghi rapidi e brillanti.
A un terzo livello, troviamo la "non più blanda" continuity, per il lettore abituale, quello storico (che può apprezzare le svolte introdotte) e quello nuovo, cui si consegna uno starting point. In questa prima fase, ciò ha anche coinciso con un turbinoso accelerare di variazioni: ma siamo appunto in un "Year One", quindi è possibile che altri albi futuri su questo abbiano un ritmo diverso. Però credo che ora si apra l'occasione - in continuità con questo ciclo 666 - di un reale approfondimento ovviamente della ex-moglie Ranja e, soprattutto, Carpenter, personaggio di grandi possibilità narrative che non sono state finora pienamente sfruttate. Anche Bloch sovraintendente ha un ruolo particolare, che è più facile far risultare "scomodo" (prima Bloch era la "polizia buona" in una "polizia cattiva" simboleggiata dal Sovraintendente, secondo un archetipo del noir. Ora, è lui la polizia). Sotto l'aspetto della dimensione narrativa, avremo (si intuisce) un montaggio molto vario: storie singole, cicli di varia lunghezza, probabilmente, presumo, perché no, anche "storie doppie" che erano un classico della tradizione.
A un quarto livello, l'elemento che (con la scelta visuale di cui ho detto come primo fattore) è la marca dello stile di Recchioni: la costante "sfida al lettore". Non quella giallistica di Ellery Queen (che potrebbe tornare in altre storie) e nemmeno la sua strategia social post-post-mod, ma appunto il "classico postmoderno", se mi si concede il calembour: il gioco dei rimandi, delle citazioni, delle references, dei giochi intertestuali che ampliano la narrazione, dando una maggiore "tridimensionalità" all'albo suggerendo una rete di rimandi e possibili approfondimenti che rendono proficua una rilettura e un confronto (da un punto di vista aziendale, con altri albi Bonelli, specialmente qui: ma anche con libri, fumetti, film, videogiochi inseriti in quanto narrato). Abbiamo cercato di mostrare in questa analisi come ciò avvenga spesso con un "citazionismo stratificato": mash-up di citazioni, doppi rimandi (uno palese e più superficiale, uno più seminale e più corretto), citazioni al contempo intra ed extra canone, stratificazione di simbolismi. Un'evoluzione, ci pare di cogliere, della ricerca postmoderna dell'autore, dopo il citazionismo delle origini (John Doe) e un parziale allontanamento nella fase centrale della sua produzione (Orfani, la curatela di Dylan Dog 2013-2019).
Come già anticipato nelle analisi dei due scorsi numeri, ci pare che Recchioni possa dire dunque, nel complesso del ciclo 666, di aver creato il suo capolavoro dylaniano, la sua riscrittura più profonda della struttura del personaggio, in grado di stabilire le linee guida (narrative, ma ancor più estetiche) per un rinnovato "ritorno alle origini" del personaggio, integrando in modo consolidato il suo intervento storico sul personaggio, dal 2007 a oggi. Si tratta di vedere, ora, come queste nuove linee tracciate verranno interpretate, nei prossimi numeri, da nuovi sceneggiatori e nuovi disegnatori.
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Un ringraziamento a Francesco Tanzillo per l'aiuto nel sempre divertente gioco delle citazioni, e una menzione speciale per il gruppo Horror Post, dove ne ho rinvenute alcune che mi erano sfuggite.