

It, la recensione: poco orrore, molta avventura
Il film di Muschietti più che spaventarci racconta una storia di crescita e superamento dei proprio limiti, abbandonando le parti più esoteriche ma in linea con lo spirito del libro
Un film in cui la paura è in secondo piano, che racconta un'avventura di crescita, abbandonando le parti più esoteriche, pur rimanendo in linea con lo spirito del libro... e con i Goonies
È importante stabilire subito una cosa: It non è un film horror, come non lo era il libro e così come Stephen King non è semplicemente “Il maestro del brivido” avendo scritto storie bellissime in cui la paura non era minimamene presente.
L’etichetta del Re non è altro che una semplificazione nata per vendere libri, ma se analizziamo i suoi racconti ciò che troviamo spesso non è orrore, ma inquietudine, fastidio, tensione, che vengono utilizzate per scatenare i peggiori e i migliori istinti dell’uomo.
Così come inserire una spada non rende ogni racconto un fantasy allo stesso modo non basta uno zombie per parlare di horror e di paura. King spesso lavora per metafore, cercando di coniugare messaggio e intrattenimento per raccontare gli Stati Uniti. Misery alla fine è un racconto sui suoi problemi di droga. Shining parla di traumi infantili e mancate realizzazioni. King non è Barker, non punta allo spavento o allo schifo fine a sé stesso, così come spesso Asimov o Dick non volevano semplicemente fantasticare sul futuro.
It nasce dalla voglia di King di scrivere un racconto basato sulla vecchia storia del troll sotto un ponte, un ponte che nella sua testa diventa un momento di passaggio e che alla fine si è trasformata in una bellissima storia di formazione, crescita e perdita.
It è forse uno dei romanzi più precisi nel descrivere determinate sensazioni e meccanismi propri della giovinezza e di ciò che ne resta nell’età adulta. Di come questo mondo sia pieno di incredibili bellezze e mostruose cattiverie, del suo totale distacco dal mondo degli adulti, spesso indifferenti per distrazione, invidia o malvagità da quell’età speciale in cui hai l’energia per fare ciò che vuoi. Il tutto condito con un alieno mutaforma che mangia bambini e strani riti con cui sconfiggerlo. It non è un film che parla di mostri fantastici, ma di come si sconfiggono quelli reali. Pennywise, oltre ad essere ispirato a John Wayne Gacy, è il bullo che agisce nell'indifferenza degli adulti. Occasionalmente il libro è anche il più grande trattato sul riscatto dei bambini grassi.
La cosa che fa più paura in It è forse la perdita dell’infanzia, oltre al suo incredibile numero di pagine, attraverso cui si snoda una storia che intreccia passato e presente come se fossero i due fili di uno di quei braccialetti colorati che le ragazzine fanno da piccole.
È un romanzo impossibile da adattare totalmente restando nei tempi e nei modi di un prodotto cinematografico o televisivo. Troppo denso di significati, troppe storie che si intrecciano, troppe cose assurde da vedere.
Questo lunghissimo preambolo mi serve per arrivare al film di Muschietti, che decide di separare i bambini dagli adulti in due film, così da poterne trarre due lungometraggi autoconclusivi invece di una storia che si spezza a metà per proseguire dopo due anni.
Il risultato è un film perfetto in alcuni momenti, migliorabile in molti altri che sapendo benissimo di non poter contenere tutta la storia sfronda, semplifica, accorcia, ma non snatura. Dimenticatevi la Tartaruga (salvo qualche allusione di Lego), l’esoterismo, il Rito del Chud, il rifugio, il grande uccello, i bulli omosessuali e la diga nei Barrens, perché non ci saranno, semplificate anche le storie personali dei ragazzi, riscritte e snellite per questioni narrative. Questo ovviamente porta con sé una certa frettolosità per quanto riguarda i meccanismi più importanti del racconto, ovvero quelli legati al lentezza con cui si salda il legame tra i Perdenti, la loro riluttanza nel voler comunicare l’orrore vissuto e la pianificazione della vendetta. Resta intatto lo spirito di un racconto di formazione e la fascinazione dei primi sussulti adolescenziali. La voglia di sentirsi grandi, la paura di diventarlo, il mistico segreto del mondo femminile, il totale distacco col mondo degli adulti.
Tolto l’incipit che conosciamo tutti, la parte iniziale è dedicata soprattutto a mostrarci il modo in cui IT entra in contatto con i ragazzi, forse è il momento più debole del film, perché se da una parte riesce a tratteggiare la personalità dei Perdenti senza scadere in un montaggio ripetitivo, cade in questo errore quando si tratta dei loro spaventi, mostrandoceli uno dopo l’altro come se fossero un compito da sbrigare il prima possibile, spesso con lo stesso iter: bambino fa qualcosa – musichetta inquietante – qualcosa lo attira- ci casca – It gli corre incontro - spavento.
Liberatosi di questa incombenza il film inizia piano piano a decollare, raccontandoci una delle pietre angolari della cultura pop che ha ispirato decine di emuli. Fa strano nell’epoca di Stranger Things vedere qualcosa che di fatto lo ricorda ma che in teoria arriva prima, ma per fortuna It supera agevolmente il suo pericolo più grande: quello di diventare una sorta di galleria di nostalgie visive e sonore, sbattendoci in faccia ogni possibile riferimento agli anni ’80. Questo non vuol dire che non lo faccia, ma evita la paraculata palese.
Niente Millennium Falcon volanti, Michael Jackson, giacche con le spalline o Dungeon & Dragons, solo qualche film nei cinema sullo sfondo, un’inquadratura per il primo Street Fighter e i New Kids on the Block. L’atmosfera vuol’essere quella di un film uscito negli anni ’80 che si rifà in qualche modo alle atmosfere originali della fine dei ’50 e ci riesce in pieno.
Assolutamente perfetto il cast, sia per quanto riguarda Pennywise che i Perdenti. Bill Skarsgård fa un ottimo lavoro sulla voce, cambiando ritmo e tono, sibilando, urlando e sussurrando. Un lavoro che purtroppo dovrete apprezzare in altri modi, perché il doppiaggio italiano non riesce a restituire le stesse sensazioni, pur provandoci.
Questo non vuol dire che quando è in scena non metta inquietudine, anzi, ma il suo è un lavoro diverso da quello di Tim Curry, che era più viscido, adulto e ammiccante verso la pedofilia rispetto a un Pennywise più giovane, mostruoso e violento che invece di torturare psicologicamente i ragazzini sceglie quasi sempre di corrergli incontro urlando. Il dettaglio più interessanto di questa versione è senza dubbio l'alludere al fatto che le sue sono imitazioni idealizzate e non perfette che ingannano meglio i bambini. C'è un momento in cui prima di azzannare George si blocca e comincia a sbavare per il desiderio che è assolutamene perfetto.
Ottima prova del club dei Perdenti, in ogni sua parte. Ben è un dolcissimo e paffuto archetipo del ragazzino grasso e sensibile che probabilmente avete deriso da ragazzini e che conosce il suo triste posto nel mondo, lontano dalle belle ragazza cui dedica poesie (fidatevi di uno che bambino grasso lo è stato). Non voglio sbilanciarmi ma Jeremy Ray Taylor secondo me ha la stoffa per diventare un caratterista di livello. Bill è efficace nell’incarnare il carisma di un leader che non sa di esserlo, così come son ben definiti i ruoli di Eddi, Stan e Michael all'interno della loro macchietta.
Peccato per Finn Wolfhard e il suo Richie “Boccaccia” Tozier che sempre a causa del doppiaggio perde quasi del tutto la sua capacità di alterare la propria voce, depotenziandone il suo ruolo di spalla comica. In generale tutto il lavoro di doppiaggio sui ragazzini è abbastanza brutto. Ottimo anche il casting di Bev Marsh, soprattutto perché Muschietti riesce a fartela vedere attraverso lo sguardo di un bambino innamorato che si perde nei suoi occhi e nella sua femminilità già presente ma ancora in divenire, in bilico tra malizia e candore.
Nota di merito anche per il gruppo dei bulli, Nicholas Hamilton è un convincente Henry Bower, anche se il grosso del lavoro lo fanno il mullet, la maglietta senza maniche e una certa somiglianza con l’Asso Merrill di Kiefer Sutherland. Buoni anche gli effetti visivi, anche considerando che il budget a disposizione non era altissimo non si avverte quasi mai la sensazione di posticcio.
Tutto bene dunque? Ovviamente no, perché It non è il capolavoro incredibile decretato oltreoceano, a volte è troppo frettoloso, altre rallenta senza motivo, si affida un po’ troppo a musichette e jump scare per cercare di far paura e lo fa in modo abbastanza ripetitivo, è un buon blockbuster di medio livello che è esattamente il posto che gli spetta. In fondo è un adattamento privo di coraggio che decide di lasciare da parte il misticismo più spinto senza un motivo apparente, così come alcuni temi un po' più scabrosi, come l'omofobia o il razzismo, alludendo solo vagamente agli abusi del padre di Bev. Certo l'opera di King può spaventare, ma ci sono tanti altri film che spaventavano, tipo il Signore degli Anelli, e poi sono stati fatti.
Nonostante ciò è un film che mi sento di consigliare assolutamente a chi cerca una storia che lo diverta, gli dia qualche brivido e lo faccia sentire un po’ bambino. Rispetto al libro è anche molto più forte il tema dell’elaborazione del lutto, visto che Bill, dopo essersi aggrappato per anni alla speranza di rivedere vivo suo fratello, ne accetta la morte uccidendone il simulacro creato da It, sfogandosi in un pianto liberatorio.
Vi avverto: se andate a vederlo perché cercate un film horror potreste rimanere delusi, molto delusi, perché vi ritroverete di fronte a qualcosa che assomiglia più a un film d’avventura, un racconto di formazione in stile Goonies in cui i bambini riescono a picchiare il mostro usando mazze da baseball, calci e e spranghe (altro momento forse un po’ debole). Che poi, riallacciandomi alla premessa, è esattamente ciò che It vuole essere. Tutti quei discorsi sull’orrore, sul mostro, sulla fama che l’hanno accompagnato per anni sono più che altro la suggestione di chi non l’ha mai letto o di chi s’è visto solo la (brutta) miniserie televisiva da bambino e ne è rimasto impressionato.
Io mi ritengo una mammoletta quando si parla di film horror e credetemi, se non mi sono spaventato io vuol dire che potete vederlo senza paura. Chi probabilmente si spaventerà saranno i più giovani, sotto questo punto di vista It è un perfetto film d’introduzione al genere, un antipasto prima di addentare bocconi più corposi da vedere di nascosto in compagnia degli amici o con genitori compiacenti, in attesa di un secondo capitolo che probabilmente avrà toni ben diversi e, si spera, più orrore.
Vi lascio col passaggio secondo me più maestoso di It, e ditemi se è un libro horror.
Richie aveva sentito crescere nella stanza una specie di energia esultante. Gli sembra di riconoscere uno stato d'animo che gli era usuale nell'infanzia, quando lo viveva quotidianamente al punto da prenderlo per scontato e supponeva che se mai da ragazzo gli fosse successo di rendersi conto di quella profonda falda acquifera di energia (non ricordava che gli fosse mai accaduto), l'avrebbe semplicemente classificata come un fatto della vita, una cosa che ci sarebbe sempre stata, come il colore degli occhi o quelle sue orribili dita dei piedi a spatola.
Ebbene, si è scoperto che non è cosi. L'energia che si scialacqua con tanta profusione da ragazzi, l'energia che si ritiene non debba mai esaurirsi, si dilegua fra i 18 e i 24 anni per essere sostituita da qualcosa di assai più opaco, una sensazione fittizia come quella che ti dà una sniffata, aspirazione, forse, o traguardi o comunque voglia chiamarla un qualsiasi universitario rampante. Niente di sconvolgente.
Non se ne va tutta d'un colpo, con un grande scoppio. E forse è proprio questo l'aspetto più inquietante, pensa adesso. Non si smette di essere piccoli tutt'a un tratto, con una grande esplosione. Il bambino che hai dentro cola fuori, trapela come aria da una foratura in una gomma. E un giorno ti guardi allo specchio e ti trovi a faccia a faccia con un adulto. Puoi continuare a portare i jeans, puoi continuare ad andare ai concerti di Springsteen e Seger, ti puoi tingere i capelli, ma la faccia che c'è nello specchio è lo stesso quella di un adulto.
Ed è successo tutto mentre dormivi, forse, come la visita della fatina dei denti
No, pensa. Non la fatina dei denti. La fatina dell'età.