Early Access - YA: Morimondo
Ecco a voi in esclusiva le prime bozze del terzo libro della saga YA! di Roberto Recchioni: Morimondo, presentate a voi come se fossero l'accesso anticipato di un videogioco
Salve a tutti.
Mi chiamo Roberto Recchioni e vivo inventando storie. Che è un buon modo per tirare a campare, diciamocelo. Principalmente scrivo fumetti ma ne disegno anche, e mi dedico spesso all’illustrazione. Lavoro anche come critico cinematografico e videoludico per riviste e portali, ho scritto alcune cose (poche) per il cinema e la televisione e pubblicato tre romanzi.
Due di questi erano fantasy (anzi, “fantasi”, all’italiana): Ya: la battaglia di Campocarne e Ya: l’Ammazzadraghi. Sono stati editi da Mondadori e li trovate nelle librerie tradizionali e in formato digitale sui vari store. Sono attualmente in fase di stesura del terzo romanzo di Ya e sono, come dire, in ritardo. In grosso ritardo, visto che ridendo e scherzando finirà che lo rimanderò di un anno.
Però questa cosa mi da l’opportunità di provare una cosa che mi ronzava in testa da tempo, ovvero mutuare un certo modo di sviluppare i progetti dal mondo dei videogiochi.
In sostanza, qui di seguito, troverete un “early access”, un accesso anticipato, al terzo romanzo della serie (intitolato Morimondo), ancora in fase di sviluppo. In beta, sostanzialmente.
Avrete quindi modo di leggere l’inizio del libro prima del suo editing, magari ancora non nella sua fase definitiva, con tutti i suoi refusi (i bug del mondo dell’editoria) E, successivamente, lo vedrete crescere ed evolversi, fino ad arrivare alla sua forma finale e definitiva (quella che verrà commercializzata).
Quindi, siate comprensivi con gli svarioni (perché ci sono e verranno sistemati) e generosi con i consigli, perché l’idea è proprio di stare a sentire cosa ne pensate e come vi piacerebbe che il romanzo si sviluppi.
Infine: se non avete letto i romanzi precedenti è quasi meglio, perché mi piacerebbe vedere che effetto fa il libro su lettori “vergini”. Poi se vi viene voglia di leggerli e li comprate, io sono contento, sia chiaro.
Comunque sia, andiamo a cominciare!
Chi è colui, così gagliardo e forte
che possa vivere senza poi morire
E da colei ch’è tutto, Madonna Morte,
l’anima sua possa far fuggire?
- Tiziano Sclavi -
I
IL RAGAZZO IN RIVA AL LAGO
Essere morto, non aveva sorpreso Stecco più di tanto.
Del resto, il ragazzo sapeva che affrontare un drago, armato principalmente di buone intenzioni, era un’idea straordinariamente stupida anche per uno come lui che, di idee stupide, ne aveva avute parecchie in vita sua. Come quella volta che aveva provato a mangiare un Frutto Spinoso senza togliere la buccia. O quando aveva tentato di attraversare il Sentiero dei Mille Inciampi da bendato.
O quella brutta faccenda con il Succo della Verità che gli aveva quasi fatto perdere la simpatia di tutti i suoi amici. Nulla di tutto questo però, era minimamente comparabile con la decisione di abbandonare Zarafa, il piccolo paesino in cui era nato e cresciuto, per intraprendere la Via dell’Avventura e seguire le orme del Granduomo, il suo eroe personale.
Quanti guai gli aveva portato quella decisione impulsiva!
Aveva sofferto il freddo e la fame. Era quasi stato divorato da un’orda di Invasati. Il bifolco di un villaggio se l’era presa con lui per una faccenda di poco conto e aveva deciso che il naso del ragazzo era fatto apposta per incontrare le nocche del suo pugno nodoso. Per poco non era precipitato giù dal Ponte degli Audaci. Era stato costretto a giocarsi la vita in una mano di Briscola Selvaggia con la Terza Sorella, la più spaventosa di tutte le divinità. E, come se tutto questo non bastasse, aveva preso parte alla sanguinosa battaglia di Campocarne, dove soldati, Mostri e Campioni, avevano cercato di far prendere aria alle sue budella e mandarlo a mangiare l’erba dalle radici.
Eppure, nonostante tutte queste disavventure da cui si era cavato d’impiccio grazie una non trascurabile dose di fortuna, non si era mai pentito di avere abbandonato la vita tranquilla del suo villaggio in favore dell’Avventura perché, non lo avesse fatto, non solo non avrebbe mai visto luoghi stupefacenti e maestose creature (la maggior parte delle quali, letale) ma, soprattutto, non avrebbe mai incontrato Marta, il grande amore della sua vita e sua Sposa Sotto le Montagne (SSM, in gerco tecnico). E senza Marta, la sua esistenza non avrebbe avuto alcun senso.
Ora però era morto e per quanto la sua fine fosse stata prevedibile, quello che era arrivato dopo si era rivelato esserlo molto meno.
Per quanto Stecco apprezzasse ogni tipo di storia, non aveva mai sviluppato un reale interesse per la religione e i suoi miti. Certo, come tutti gli altri ragazzini di Zarafa, alla domenica veniva trascinato dalla madre al Piccolo Tempio per ascoltare le parabole del Sacerdote, ma quei racconti morali non avevano saputo accendere il lui alcun interesse. Nonostante questo, qualche concetto generale di ordine mistico si era inculcato anche nella sua testa troppo piena di eroiche fantasie.
Ricordava, per esempio, che la Madre aveva partorito il mondo e che suo fratello, il Santo, lo aveva benedetto. Insieme, si erano poi impegnati per dare una forma e un nome a tutte le cose, dimodoché gli uomini potessero vivere in ordine e armonia nella loro creazione. I due avevano poi stabilito che al termine della vita, per i mortali ci sarebbe stato un posto molto bello per i molto buoni e uno molto brutto per i molto cattivi. Stecco però non ricordava nulla a proposito del destino che sarebbe spettato alle persone medie, proprio come lui. Forse era stato previsto un luogo come quello dove si trovava adesso che non era certo il più allegro degli scenari ma che non sembrava nemmeno l’Inferno.
Dopo la sua dipartita, infatti, il ragazzo si era risvegliato seduto sulla riva di un grande lago dalla forma oblunga e le acque scure. A un centinaio di metri da lui c’era un capanno di legno dalle assi marcite e il tetto sfondato. Accanto alla misera costruzione si vedeva un traballante pontile con una misera barchetta di legno ormeggiata a esso. Tutt’attorno, la pozza d’acqua era circondata da una foresta spelacchiata di alberi curvi come punti interrogativi a dai rami nudi come le prostitute nei bordelli. Sullo sfondo, infine, si stagliava un grosso monte di terra bruna sulla cui sommità stava arroccato un paesino di case grigie e sbilenche e un tozzo e tetro monastero dalla forma squadrata.
Un cielo plumbeo, completava il deprimente panorama.
Stecco aveva quindi ben ragione di essere d’umore cupo, in quel momento.
Prima di tutto perché era morto. E poi perché, all’altro mondo (qualsiasi altro mondo quello fosse), c’era arrivato nudo, senza nemmeno uno straccetto addosso per coprirsi dalla pioggerellina fredda che, nel frattempo, aveva a cominciato a cadergli sulla testa e su tutte le altre parti del suo corpo sgraziato e macilento. Doveva trovare in fretta un posto dove ripararsi, se non voleva prendere un malanno.
O forse si stava preoccupando troppo. Forse, ai trapassati, era risparmiato il supplizio del raffreddore e di qualsiasi altro malanno.
Ma perché rischiare?
Sarebbe stato ben imbarazzante essere un cadavere e avere, perdipiù, il naso che colava o una brutta tosse catarrosa.
No, fino a quando non avesse stabilito l’esatta natura della sua condizione, Stecco decise che sarebbe stato più saggio continuare a comportarsi come se fosse stato ancora vivo.
Quindi, si alzò dallo scomodo e umido sasso su cui stava seduto e si sgranchì le braccia, cominciando a guardarsi attorno alla ricerca di un posto caldo e asciutto verso cui dirigersi.
La foresta non meritava la sua attenzione, essendo spoglia di tutto, compresa la speranza.
Più promettente sembrava il capanno, per quanto male in arnese potesse sembrare.
Senza indugio, quindi, il ragazzo si diresse verso di esso, fermandosi solo a pochi metri dalla porta per lanciare una voce ai possibili occupanti.
- Ehi...di casa?
Silenzio.
- C’è qualche Mostro che mi aspetta per divorami, in questo capanno?
Aveva insistito Stecco.
Questa volta, dopo pochi attimi, una voce cupa, gracchiante e profonda gli aveva risposto da dietro la porta.
- Nemmeno uno. E’ tutto tranquillo e deserto, qui dentro.
Sentendosi rassicurato, Stecco era entrato.
Non era il più intelligente dei ragazzi, come avrete ormai capito.
II
DENTRO AL CAPANNO
Nonostante il tetto sfondato, il capanno era buio e Stecco non riusciva a vedere al suo interno con chiarezza. Quando mosse il primo passo oltre la porta, qualcosa afferrò la sua caviglia nuda con una presa umida, forte e tentacolare, che gli avvolse attorno alla gamba e, con uno strattone, lo trascinò sul pavimento in terra battuta e poi nelle tenebre. Il ragazzo cercò di opporre resistenza ma le spire della creatura che lo aveva afferrato gli bloccavano ormai le braccia e gli stringevano la gola, togliendogli il respiro. Non riusciva a distinguere la creatura ma ne percepì con chiarezza gli artigli quando gli sprofondarono nell’addome, squarciandogli le viscere e facendo strage dei suoi organi interni.
Il ragazzo non riuscì a emettere nemmeno uno strozzato lamento prima di affogare nel suo stesso sangue.
Stecco era morto.
I
IL RAGAZZO IN RIVA AL LAGO
Essere morto, non aveva sorpreso Stecco più di tanto.
Del resto, il ragazzo sapeva che affrontare un drago, armato principalmente di buone intenzioni, era un’idea straordinariamente stupida anche per uno come lui che, di idee stupide, ne aveva avute parecchie in vita sua. Eppure, nonostante tutte le disavventure da cui si era cavato d’impiccio grazie una non trascurabile dose di fortuna, non si era mai pentito di avere abbandonato la vita tranquilla del suo villaggio in favore dell’Avventura. Ora però era morto e per quanto la sua fine fosse stata prevedibile, quello che era arrivato dopo si era rivelato esserlo molto meno.
Dopo la sua dipartita, infatti, il ragazzo si era risvegliato seduto sulla riva di un grande lago dalla forma oblunga e le acque scure. A un centinaio di metri da lui c’era un capanno di legno dalle assi marcite e il tetto sfondato. Accanto alla misera costruzione si vedeva un traballante pontile con una misera barchetta di legno ormeggiata a esso. Tutt’attorno, la pozza d’acqua era circondata da una foresta spelacchiata di alberi curvi come punti interrogativi a dai rami nudi come le prostitute nei bordelli. Sullo sfondo, infine, si stagliava un grosso monte di terra bruna sulla cui sommità stava arroccato un paesino di case grigie e sbilenche e un tozzo e tetro monastero dalla forma squadrata.
Un cielo plumbeo, completava il deprimente panorama.
Stecco aveva quindi ben ragione di essere d’umore cupo, in quel momento.
Prima di tutto perché era morto. E poi perché, all’altro mondo (qualsiasi altro mondo quello fosse), c’era arrivato nudo, senza nemmeno uno straccetto addosso per coprirsi dalla pioggerellina fredda che, nel frattempo, aveva a cominciato a cadergli sulla testa e su tutte le altre parti del suo corpo sgraziato e macilento. Doveva trovare in fretta un posto dove ripararsi, se non voleva prendere un malanno. Quindi, si alzò dallo scomodo e umido sasso su cui stava seduto e si sgranchì le braccia, cominciando a guardarsi attorno alla ricerca di un posto caldo e asciutto verso cui dirigersi.
La foresta non meritava la sua attenzione, essendo spoglia di tutto, compresa la speranza.
Più promettente sembrava il capanno, per quanto male in arnese potesse sembrare.
Senza indugio, quindi, il ragazzo si diresse verso di esso.
Ma, a pochi metri dalla porta, si fermò di colpo, come colto da un brutto presentimento.
C’era qualcosa che non andava in quel posto, anche se non capiva bene cosa. Una brutta atmosfera che restava sospesa nell’aria come un pessimo odore. Anzi, a prestare maggiore attenzione, c’era in effetti un odore fetido che proveniva da quella catapecchia e che non prometteva nulla di buono su quello che Stecco ci avrebbe trovato dentro.
Forse non era una buona idea avvicinarsi ulteriormente, pensò il ragazzo, colto da un provvidenziale istinto di sopravvivenza. Rivolse quindi l’attenzione al pontile che si allungava storto e pendente sulla superficie del lago e a cui stava legata una piccola barchetta. Il ragazzo avanzò cauto fino al natante e, allungando il collo, ci sbirciò dentro. Sul fondo dell’imbarcazione vide che erano state abbandonate delle reti da pesca, una coperta di lana pesante e un piccolo coltellino. Dei remi, nessuna traccia, ma quello era un problema di cui si sarebbe occupato più tardi pensò Stecco.
Il ragazzo recuperò tutti gli oggetti dall’imbarcazione e li dispose sul pontile per studiarli con attenzione. Non c’era da stare allegri: le reti da pesca erano ingiallite dal sole e strappate in più punti mentre la coperta, di un colore a mezza via tra il verde del vomito e il marrone della diarrea, era infeltrita a tal punto che era quasi impossibile da piegare. Meglio andava con il coltellino, ma non di molto. Un tempo doveva essere stato uno strumento pregiato, con la sua bella impugnatura d’osso sul cui dorso era stata cesellata finemente la figura di un cervo in un bosco, ma la lama d’acciaio era stata gravemente mangiata dalla ruggine e il filo era smussato. Per il momento, comunque, sarebbe servito allo scopo che Stecco aveva in mente. Preso la coperta e ci praticò un foro nel mezzo, in cui fece passare la testa per poi poggiarsi quel quel pezzo di lana ruvida (e, probabilmente, piena di pulci) sulle spalle, come fosse una rozza di casacca. Poi tagliò una porzione della rete da pesca e la torse fino a ottenerne una specie di corda che si strinse alla vita, infilandoci poi il coltello, in modo da poterselo portare dietro senza doverlo tenere in mano. Non sarebbe mai stato eletto sarto dell’anno ma il completo che si era confezionato lo riparava, almeno parzialmente, da quella noiosa pioggia che continua a cadere. Era un ottimo risultato e Stecco si piuttosto soddisfatto di sé stesso. Ora doveva decidere la sua prossima mossa.
Per come la vedeva, la sua unica possibilità di trovare aiuto e capire cosa stava succedendo era quella di raggiungere il piccolo villaggio che intravedeva sulla sommità dello scuro monte che gli si stagliava proprio davanti. Il problema è che, in mezzo, c’era il lago.
Poteva girargli attorno, seguendone la riva, in un cammino che sarebbe potuto durare anche dei giorni. O poteva attraversarne le acque.
Stecco era pigro, per quello decise che la seconda opzione fosse quella da seguire.
Ma doveva trovare qualcosa con cui pagaiare.
Il bosco che aveva attorno era piena di rami che potevano fare al caso suo.
II
DENTRO AL BOSCO
Appena messo piede in quella lugubre macchia di presunta vegetazione, Stecco capì che non era stata una buona idea. Faceva ancora più freddo che sulla riva del lago ma l’aria era satura di fastidiose zanzare che lo mordevano fin sotto alla casacca. Il ragazzo non faceva altro che schiaffeggiarsi, nel tentativo di colpire, mentre si addestrava sempre di più in mezzo a quegli alberi neri alberi tutti secchi e contorti. Come se non bastasse, da quanto era entrato nel bosco era rapidamente salita una nebbiolina fitta e umida che quasi gli impediva di vedere dove metteva i piedi. Per un’ora buona, Stecco si era mosso tra tronchi scuri, cercando un qualche ramo che potesse fare al caso suo, ma non l’aveva trovato. La legna di quelle piante era marcia e, quando andava per afferrarla da terra o per strapparla da un albero, gli si disfaceva tra le mani, sporcandogliele di cenere.
Non c’era nulla di utile in quel posto. Tanto valeva tornare indietro, se mai fosse riuscito a ritrovare la strada che lo riportasse al capanno visto che, ormai, aveva completamente perso il senso dell’orientamento. Aveva piegato a destra o a sinistra? Quel grosso sasso era lo stesso che aveva incontrato nel cammino d’andata? E quell’alto albero dalla forma vagamente umana, non ci era già passato davanti una o due volte? Stecco ci pensò sopra un attimo. E se fosse stato l’albero, invece, a muoversi? Era un pensiero assurdo, se ne rendeva conto, ma non meno assurdo di quello che adesso stava vedendo con i suoi stessi occhi perché i rami di quella grossa pianta dall’aria minacciosa si stavano scuotendo e stiracchiano come… come le braccia di qualcuno che si risvegliava dopo un lungo sonno. Poi le sue radici si contrassero, emergendo dalla terra umida, e l’albero, che albero non era, si volse verso di lui. Ora Stecco poteva vedere bene un profondo squarcio nel suo tronco che sembrava, quasi, una bocca ghignate e malefica.
- HAI SCELTO LA STRADA SBAGLIATA, RAGAZZO!
Aveva detto la Cosa Che Sembrava Un Albero Ma Che Un Albero Non Era (CCSUAMCUANE, per amor di brevità).
E Stecco non poteva che concordare con quell’affermazione: quella era di sicuro la madre di tutte le strada sbagliate del mondo e lui sarebbe dovuto scappare e farlo subito, solo che non ci riusciva perché era completamente paralizzato.
Non per la paura, sia chiaro. Stecco non era mai rimasto paralizzato dalla paura in vita sua. La paura, anzi, gli dava l’agilità dello scoiattolo e la velocità della gazzella e, quando si trattava di fuggire davanti all’orrore, nulla era mai riuscito a fermarlo.
No, la ragione per cui Stecco non se la stava dando a gambe levate in preda al terrore dipendeva, piuttosto, dal fatto che, senza che lui se ne accorgesse, dei viticci gli erano risaliti lungo tutto il corpo, incuneandosi in luoghi che il ragazzo riteneva strettamente privati e ora rispondevano a qualsiasi movimento che lui tentasse, irrigidendosi e stritolando le sue parti parti più intime e preziose. Se avesse provato la fuga, ci avrebbe rimesso i gioielli e, probabilmente, sarebbe morto per l’emorragia conseguente. Tutto quello che poteva fare era stare fermo e tremare, mentre la crea
Non poteva che stare fermo a guardare quella CCSUAMCUANE mentre con passo lento e strisciante, gli si facevao vicino, fino a poterne sentire l’odore del suo alito, puzzolente di resina e di cose morte e marcite sotto il fogliame.
- Sei nuovo di queste parti, vero?
- A-appena arrivato…
- DICI IL VERO… SENTO ANCORA IL PUZZO DELLA TUA ANIMA!
- E non è una cosa buona?
- Lo E’… ma non per te!
Poi la creatura aveva alzato uno dei grossi rami che gli facevano da braccia e lo aveva abbattuto sulla testa del gracile Stecco, facendogli schizzare gli occhi fuori dalle orbite, spaccandogli i denti, mozzandogli la lingua, fracassandogli il cranio e trasformando la materia cerebrale del ragazzo in una pappa grigia e rossa che gli era schizzata fuori dalle orecchie e dal naso.
Stecco era morto.
I
UN RAGAZZO IN RIVA AL LAGO
Essere morto, non aveva sorpreso Stecco più di tanto.
Del resto, il ragazzo sapeva che affrontare un drago, armato principalmente di buone intenzioni, era un’idea straordinariamente stupida anche per uno come lui che, di idee stupide, ne aveva avute parecchie in vita sua. Eppure, nonostante tutte le disavventure da cui si era cavato d’impiccio grazie una non trascurabile dose di fortuna, non si era mai pentito di avere abbandonato la vita tranquilla del suo villaggio in favore dell’Avventura. Ora però era morto e per quanto la sua fine fosse stata prevedibile, quello che era arrivato dopo si era rivelato esserlo molto meno.
Dopo la sua dipartita, infatti, il ragazzo si era risvegliato seduto sulla riva di un grande lago dalla forma oblunga e le acque scure. A un centinaio di metri da lui c’era un capanno di legno dalle assi marcite e il tetto sfondato. Accanto alla misera costruzione si vedeva un traballante pontile con una misera barchetta di legno ormeggiata a esso. Tutt’attorno, la pozza d’acqua era circondata da una foresta spelacchiata di alberi curvi come punti interrogativi a dai rami nudi come le prostitute nei bordelli. Sullo sfondo, infine, si stagliava un grosso monte di terra bruna sulla cui sommità stava arroccato un paesino di case grigie e sbilenche e un tozzo e tetro monastero dalla forma squadrata.
Un cielo plumbeo, completava il deprimente panorama.
Stecco aveva quindi ben ragione di essere d’umore cupo, in quel momento.
Prima di tutto perché era morto. E poi perché, all’altro mondo (qualsiasi altro mondo quello fosse), c’era arrivato nudo, senza nemmeno uno straccetto addosso per coprirsi dalla pioggerellina fredda che, nel frattempo, aveva a cominciato a cadergli sulla testa e su tutte le altre parti del suo corpo sgraziato e macilento. Doveva trovare in fretta un posto dove ripararsi, se non voleva prendere un malanno. Quindi, si alzò dallo scomodo e umido sasso su cui stava seduto e si sgranchì le braccia, cominciando a guardarsi attorno alla ricerca di un posto caldo e asciutto verso cui dirigersi.
La foresta non meritava la sua attenzione, essendo spoglia di tutto, compresa la speranza.
Più promettente sembrava il capanno, per quanto male in arnese potesse sembrare.
Senza indugio, quindi, il ragazzo si diresse verso di esso.
Ma, a pochi metri dalla porta, si fermò di colpo, come colto da un brutto presentimento.
C’era qualcosa che non andava in quel posto, anche se non capiva bene cosa. Una brutta atmosfera che restava sospesa nell’aria come un pessimo odore. Anzi, a prestare maggiore attenzione, c’era in effetti un odore fetido che proveniva da quella catapecchia e che non prometteva nulla di buono su quello che Stecco ci avrebbe trovato dentro.
Forse non era una buona idea avvicinarsi ulteriormente, pensò il ragazzo, colto da un provvidenziale istinto di sopravvivenza. Rivolse quindi l’attenzione al pontile che si allungava storto e pendente sulla superficie del lago e a cui stava legata una piccola barchetta. Il ragazzo avanzò cauto fino al natante e, allungando il collo, ci sbirciò dentro. Sul fondo dell’imbarcazione vide che erano state abbandonate delle reti da pesca, una coperta di lana pesante e un piccolo coltellino. Dei remi, nessuna traccia, ma quello era un problema di cui si sarebbe occupato più tardi pensò Stecco.
Il ragazzo recuperò tutti gli oggetti dall’imbarcazione e li dispose sul pontile per studiarli con attenzione. Non c’era da stare allegri: le reti da pesca erano ingiallite dal sole e strappate in più punti mentre la coperta, di un colore a mezza via tra il verde del vomito e il marrone della diarrea, era infeltrita a tal punto che era quasi impossibile da piegare. Meglio andava con il coltellino, ma non di molto. Un tempo doveva essere stato uno strumento pregiato, con la sua bella impugnatura d’osso sul cui dorso era stata cesellata finemente la figura di un cervo in un bosco, ma la lama d’acciaio era stata gravemente mangiata dalla ruggine e il filo era smussato. Per il momento, comunque, sarebbe servito allo scopo che Stecco aveva in mente. Preso la coperta e ci praticò un foro nel mezzo, in cui fece passare la testa per poi poggiarsi quel quel pezzo di lana ruvida (e, probabilmente, piena di pulci) sulle spalle, come fosse una rozza di casacca. Poi tagliò una porzione della rete da pesca e la torse fino a ottenerne una specie di corda che si strinse alla vita, infilandoci poi il coltello, in modo da poterselo portare dietro senza doverlo tenere in mano. Non sarebbe mai stato eletto sarto dell’anno ma il completo che si era confezionato lo riparava, almeno parzialmente, da quella noiosa pioggia che continua a cadere. Era un ottimo risultato e Stecco si piuttosto soddisfatto di sé stesso. Ora doveva decidere la sua prossima mossa.
Per come la vedeva, la sua unica possibilità di trovare aiuto e capire cosa stava succedendo era quella di raggiungere il piccolo villaggio che intravedeva sulla sommità dello scuro monte che gli si stagliava proprio davanti. Il problema è che, in mezzo, c’era il lago.
Poteva girargli attorno, seguendone la riva, in un cammino che sarebbe potuto durare anche dei giorni. O poteva attraversarne le acque.
Stecco era pigro, per quello decise che la seconda opzione fosse quella da seguire.
Ma doveva trovare qualcosa con cui pagaiare.
Il bosco che aveva attorno era piena di rami che potevano fare al caso suo ma, proprio in virtù della sua indolenza, il ragazzo pensò che forse sarebbe stato meglio provare a cercare di capire dove qualcuno potesse aver riposto i remi.
Ci pensò sopra un secondo e poi si diede dello stupido: dovevano essere nel capanno, era ovvio!
II
DENTRO AL CAPANNO
Nonostante il tetto sfondato, il capanno era buio e Stecco non riusciva a vedere al suo interno con chiarezza. Quando mosse il primo passo oltre la porta, qualcosa afferrò la sua caviglia nuda con una presa umida, forte e tentacolare, che gli avvolse attorno alla gamba e, con uno strattone, lo trascinò sul pavimento in terra battuta e poi nelle tenebre. Ma prima che le spire del Mostro gli riuscissero a bloccare anche le braccia e a stringerglisi attorno alla gola, la mano di Stecco corse al coltellino che portava alla fianco, estraendolo e mettendosi poi a brandire colpi disperati. Il ragazzo non riusciva a distinguere la creatura che stava tentando di ucciderlo ma, pur nel buio, riusciva a intuirne la massa e in quella direzione diresse i suoi colpi disperati. Quando sentì l’acciaio della sua arma inadeguata sprofondare in un corpo molliccio che sembrava fratto di puzzolente gelatina alla frutta (una gelatina alla frutta molto malvagia, ovviamente), moltiplicò i suoi sforzi, continuando ad affondare il braccio armato e a ritrarlo. Ancora e ancora, fino a quando non sentì il suo braccio affondare quasi fino al gomito nel corpo della creatura. Solo quando sentì che il tentacolo che lo aveva afferrato aveva ormai perso la forza della sua presa, Stecco si fermò per riprendere fiato, traendosi indietro e lasciando che la luce del pallido sole di quel mondo in cui si era risvegliato, filtrasse attraverso la porta aperta. In terra, davanti a lui, giaceva qualcosa di orribilmente incomprensibile. Sembrava una specie di grossa piovra dal corpo traslucido, con otto sinuose braccia dotate di due file di grosse ventose che terminavano in mani dalla forma antropomorfa. Alla stessa maniera, anche la testa era un osceno connubio, con il cranio allungato e molliccio tipico dei cefalopodi ma occhi e bocca terribilmente umani. E respirava ancora.
I colpi dell’arma di Stecco l’avevano gravemente ferito ma non erano riusciti a donare la morte a quel Mostro, che ora rantolava in terra, ai piedi dell’Avventuriero.
Il ragazzo uscì dal capanno, soppesò il peso e la forma di alcuni sassi raccolti da terra e poi scelse il più grosso e pesante. Rientrò nella catapecchia e lo scagliò con tutta la forza che aveva sul crano dell’abomiono. Nell’ambiente si alzò un odore fetido di pesce marcio che provocò a Stecco dei forti conati di vomito. Poi la creatura iniziò a liquefarsi sotto i suoi occhi, venendo assorbita dalla terra battuta del pavimento. Dopo pochi istanti, di quell’essere contro natura non rimase che una larga macchia di umido e le innaturali tenebre che riempivano il rifugio si dissiparono.
Stecco era rimasto solo. Prima di mettersi a ispezionare il capanno, diede una lunga occhiata al coltellino che ancora stringeva in mano. Per quanto quella lama fosse umile e mal ridotta, lo aveva servito bene, salvandogli la vita: meritava di ricevere un nome.
Il ragazzo ci pensò sopra qualche istante e poi decise che, d’ora in poi, qualsiasi Mostro gli si fosse parato davanti, se la sarebbe dovuta vendere contro Stecco il Giovane Avventuriero e la sua Pungidemonio!
Sì, gli pareva che quel binomio suonasse abbastanza minaccioso, senza apparire troppo tronfio o vanaglorioso.
Soddisfatto rimise l’arma appena battezzata nella cintura e dedicò la sua attenzione al luogo in cui si trovava che, un tempo, doveva essere una baracca usata dai pescatori. Gli elementi d’arredo erano minimi: c’erano un tavolo (impolverato), una sedia (con una gamba traballante), una cassapanca (con dentro un paio di braghe di tela e degli stivali di pelle grezza che il ragazzo indossò immediatamente), un pagliericcio (poco invitante e, probabilmente, pieni di insetti schifosi) e un secchio per i bisogni (fortunatamente, vuoto). Alle pareti stavano appesi alcuni arpioni rugginosi (troppo grossi e pesanti perché un tipo gracilino come Stecco potesse maneggiarli con profitto), alcune canne da pesca (senza lenza) e, soprattutto, un bel paio di remi in legno con t e paio di lunghi remi di buon legno, praticamente non toccati dall’erosione del tempo.
Il Giovane Avventuriero li afferrò senza indugio e si precipitò fuori dal capanno.
III
LA BARCA
Stecco non sapeva molto di barche, ma era convinto di conoscere almeno quei principi generali che gli avrebbero permesso di attraversare in piena sicurezza le acque immote di quel grande lago che si trovata davanti. Salì sul gozzo e, pur se con qualche difficoltà, infilò i remi negli scalmi. Poi, visto che non riusciva a sciogliere il nodo della gomena che tratteneva l’imbarcazione al pontile, usò Pungidemonio per tagliarla. Fu un lavoro piuttosto lungo e penoso perché la corda era ancora robusta e la lama del suo utensile ben poco affilata ma, con ostinata pazienza, anche quell’operazione venne portata a termine con pieno successo e Stecco, sedendosi finalmente a poppa, iniziò finalmente a remare per dirigersi sulla riva opposta. Operazione che, sin da subito, si rivelò più complessa del previsto. Prima di tutto, non riusciva ad andare dritto e continuava a dover correggere la rotta, ora a dritta, ora a sinistra. In secondo luogo, non trovava la giusta coordinazione tra le braccia, quindi era costretto spesso a fermarsi per poi ripartire, sperando di non incasinarsi subito di nuovo. Infine, faceva una fatica del diavolo, specie perché non aveva idea di quale fosse il corretto movimento per immergere i remi sotto il pelo dell’acqua e poi spingerli e tirarli per avere il massimo della spinta con il minimo possibile dello sforzo. Dopo quasi due ore di pesante sfacchinata, era arrivato a stento verso il centro del lago e ora era privo di forze e pieno di dolori.
Come avrebbe fatto a sostenere le fatiche della seconda metà della navigazione? Decise di riposare qualche minuto. Forse era morto, ma la stanchezza la sentiva lo stesso. Il problema era che non poteva nemmeno stendersi a riposare. Quando aveva lasciato il molo aveva notato che sul fondo della sua barchetta c’era un dito d’acqua che gli sciacquava attorno ai piedi, seguendo il ritmo delle sue remate, ora però l’acqua era salita quasi alla sue caviglie e, se si fosse sdraiato per schiacciare un pisolino, sarebbe finito zuppo da capo a piedi.
A questo proposito: era normale che un natante imbarcasse tanta acqua?
Per quanto Stecco ne sapesse poco di nautica, era ragionevolmente convinto che, no, non fosse per nulla normale e che se non avesse immediatamente messo un freno a quel problema, sarebbe probabilmente affondato prima di raggiungere la riva. Si mise quindi in ginocchio e, con le mani a coppa, iniziò freneticamente a gettare acqua fuori bordo. Ma più ne versava da una parte, più quella continuava a salire dall’altra, segno evidente che ci doveva essere una qualche falla nello scafo di quel guscio di noce di cui si era eletto capitano. Vista l’inutilità dei suoi sforzi, Stecco tornò ai remi e riprese a vogare velocemente e con rinnovata energia: non c’era niente di meglio della paura per ridere forza a delle membra stanche.
Ma non c’era nulla da fare. Nel giro di pochi istanti, la prua della piccola barchetta cominciò a venire sommersa e poi anche tutto il resto. In pochi secondi, Stecco si ritrovò a mollo nel mezzo di quel lago oscuro e gelido. Ed è in quel preciso momento che il ragazzo si ricordò di un dettaglio importante che aveva colpevolmente trascurato: lui non sapeva nuotare.
Colto dal panico, iniziò ad agitare freneticamente gambe e braccia, irrigidendosi e peggiorando la sua già critica situazione. La sua testa continuava ad affondare e a riemergere, mentre il ragazzo cercava disperatamente di riempirsi d’aria i polmoni invece che di acqua.
In brevissimo tempo, le forze gli vennero meno e Stecco capì che quella era la sua stupida fine,
Mandò un pensiero a Marta, e poi si lasciò andare alle scure spire del lago, che lo trascinarono sul fondo, a fare da concime per i pesci.
Stecco era morto.
I
UN RAGAZZO IN RIVA AL LAGO
Essere morto, non aveva sorpreso Stecco più di tanto.
Ma per quanto la sua fine fosse stata prevedibile, quello che era arrivato dopo si era rivelato esserlo molto meno. Dopo la sua dipartita, infatti, il ragazzo si era risvegliato seduto sulla riva di un grande lago dalla forma oblunga e le acque scure. A un centinaio di metri da lui c’era un capanno di legno con accanto un traballante pontile e una misera barchetta di legno ormeggiata a esso. Tutt’attorno, la pozza d’acqua era circondata da una foresta spelacchiata di alberi curvi mentre, sullo sfondo, si stagliava un grosso monte di terra bruna sulla cui sommità stava arroccato un paesino di case grigie e sbilenche e un tozzo e tetro monastero dalla forma squadrata. Un cielo plumbeo, completava il deprimente panorama. Stecco, all’altro mondo c’era arrivato nudo, senza nemmeno uno straccetto addosso per coprirsi dalla pioggerellina fredda che, nel frattempo, aveva a cominciato a cadergli sulla testa e su tutte le altre parti del suo corpo sgraziato e macilento. Doveva trovare in fretta un posto dove ripararsi, se non voleva prendere un malanno. Quindi, si alzò dallo scomodo e umido sasso su cui stava seduto e si sgranchì le braccia e decise di dirigersi verso il capanno.
A pochi metri dalla porta però, si fermò, come colto da un brutto presentimento.
C’era qualcosa che non andava in quel posto, anche se non capiva bene cosa. Una brutta atmosfera che restava sospesa nell’aria come un pessimo odore che non prometteva nulla di buono su quello che Stecco ci avrebbe trovato dentro. Forse non era una buona idea avvicinarsi ulteriormente, pensò il ragazzo, colto da un provvidenziale istinto di sopravvivenza. Rivolse quindi l’attenzione al pontile che si allungava storto e pendente sulla superficie del lago e a cui stava legata una piccola barchetta. Il ragazzo avanzò cauto fino al natante e, allungando il collo, ci sbirciò dentro. Sul fondo dell’imbarcazione vide che erano state abbandonate delle reti da pesca, una coperta di lana pesante e un piccolo coltellino. Il ragazzo recuperò tutti gli oggetti dall’imbarcazione e li dispose sul pontile per studiarli con attenzione. Prese la coperta e ci praticò un foro nel mezzo, in cui fece passare la testa per poi poggiarsi quel quel pezzo di lana ruvida sulle spalle, come fosse una rozza di casacca. Poi tagliò una porzione della rete da pesca e la torse fino a ottenerne una specie di corda che si strinse alla vita, infilandoci poi il coltello, in modo da poterselo portare dietro senza doverlo tenere in mano. Ora doveva decidere la sua prossima mossa.
Per come la vedeva, la sua unica possibilità di trovare aiuto e capire cosa stava succedendo era quella di raggiungere il piccolo villaggio che intravedeva sulla sommità dello scuro monte che gli si stagliava proprio davanti. Il problema è che, in mezzo, c’era il lago.
Poteva girargli attorno, seguendone la riva, in un cammino che sarebbe potuto durare anche dei giorni. O poteva attraversarne le acque, a patto di trovare i remi della barchetta.
Stecco era pigro e, tendenzialmente, avrebbe preferito la via più breve, ma aveva l’impressione di stare trascurando qualcosa di molto importante e, per una volta, decise di fermarsi a riflettere un momento prima di agire.
Un momento lungo, perché Stecco non era un fulmine di guerra quando si trattava di pensare.
Forse, guardare la scura e tranquilla acqua del lago, lo avrebbe aiutato a concentrarsi.
La scura e profonda, acqua del lago.
E, probabilmente, freddissima.
Sarebbe stato un bel guaio finirci dentro.
Specie perché lui non sapeva nuotare… ecco cos’era! Lui non sapeva nuotare, non lo aveva mai imparato! Sarebbe stata davvero cosa da stupidi imbarcarsi su di una barchetta dall’aspetto già poco rassicurante di suo, sapendo di avere le stesse capacità galleggianti di un sasso!
Non c’era altra scelta, Stecco sarebbe dovuto andare a piedi, facendo tutto il lungo giro attorno al lago per andare a cercare un sentiero che lo conducesse alle case sopra il monte e al monastero.
Il ragazzo pensò che non sarebbe stata una passeggiata comoda perché a parte la rudimentale casacca che si era fabbricato, era senza braghe e, soprattutto, senza scarpe. Ma, tutto sommato, sarebbe potuta andargli molto peggio: quel posto era davvero tranquillo e non sembrava che in giro ci fossero Mostri o malintenzionati. Così, fischiettando tra sé e sé, il ragazzo si mise in marcia.
Essere morti non era poi tanto male, pensò.