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Civil War - Il nuovo film di Alex Garland e le riflessioni che si porta dietro

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Com’è vedere un film su una guerra civile nel momento storico in cui la guerra è più vicina di quanto lo sia stata negli ultimi trent'anni?

Com’è vedere un film su una guerra civile nel momento storico in cui la guerra è più vicina di quanto lo sia stata negli ultimi trent'anni?

Soprattutto inquietante, per tanti motivi.

Il primo è la prossimità dell’argomento.

Prossimità temporale, perché come dicevo prima, gli stati cosiddetti occidentali non respirano la guerra guerreggiata da oltre trent'anni, ossia da quando, nel 1995, assisterono alla fine delle cosiddette guerre jugoslave. È bene ricordare, soprattutto il 25 aprile, che la fine della guerra precedente risaliva a quaranta anni prima e vide l’Italia, l’Europa e il mondo liberati dal giogo del nazismo e del fascismo.

Prossimità spaziale perché, in continuità con quanto detto sopra, nonostante dalla fine della Seconda Guerra Mondiale, ci siano stati più di 100 conflitti nel mondo, nessuno è arrivato a poche centinaia di chilometri dalle case degli europei.

Prossimità concettuale perché il film di Alex Garland riesce a prendere alcuni tra i temi più attuali del momento – la polarizzazione dei temi e delle opinioni, la politica che vive di slogan, la diffusione delle armi da fuoco negli Stati Uniti – e metterle in un frullatore che le ripropone allo spettatore in maniera credibile.

Durante il film, insomma, ti chiedi più volte se tutto quello che vedi potrebbe accadere anche qua.

Violenza (non) gratuita
Civil War è un film che è necessario guardare con occhi spalancati e mente aperta. Certo, probabilmente non è un film per tutti i palati. Parliamo di un’opera che non maschera la violenza e non la ammanta di alcuna aura epica o metaforica. La violenza è letterale, e come tale va presa: serve a mostrare il punto, serve a scuotere le coscienza e risvegliare lo spettatore dal torpore causato da anni di propaganda politica con cui è stato bombardato. Serve a ricordarci che certi fatti non accadono soltanto lontano da noi.

Il secondo è la messa in scena del film.
Le immagini di Civil War sono crude e tendono a restituire l’assurdità e la follia della guerra nel migliore (ossia peggiore) dei modi: la scelta di aver sposato il punto di vista di un gruppo di giornalisti, inoltre, permette al regista di usare l’occhio della macchina fotografica per evidenziare e sottolineare alcuni momenti.

E quelle istantanee si imprimono nel tuo cervello, sovrapponendosi alle tante immagini di guerra – ahimè – iconiche che abbiamo visto sui manuali di storia contemporanea oppure sui siti di informazione.
Tutto con lo scopo di rendere la guerra ancora più vicina, ancora più vera.

La fotografia di Civil War è, lo scrivo col rischio di essere ripetitivo, straordinaria. Garland cattura la desolazione e la tensione del paesaggio distrutto dalla guerra con una maestria visiva da regista navigato. Le inquadrature si alternano: spesso spoglie e con colori sbiaditi, a trasmettere l’atmosfera cupa e opprimente del mondo in cui si svolge il film; altrettanto spesso vivide e piene di dettagli, in questo caso a rendere ancora più concitati i momenti di battaglia.

Il miglior film del 2024?
Civil War sarà il film più importante del 2024.
Non c’è storia: se uscirà qualcosa di ancora più imponente, sul piano espressivo, staremo parlando di storia del cinema. Sembra paradossale, visto che poche settimane fa ero convinto che Dune Parte 2 fosse il film che mi sarei portato dietro per mesi: e invece. Alex Garland cosa hai fatto? Come hai fatto col budget di una casa di produzione indipendente come A24, una frazione di quanto avrebbero speso i colossi del settore, a mettere in piedi un film di un tale spessore?

Alcuni punti dell’atto conclusivo del film non sfigurerebbero accanto alle scene che hanno fatto grande il cinema di guerra, a mio parere.
Non si può, ovviamente, esimersi dall’elogiare il cast. Alla guida troviamo Kirsten Dunst, che offre una performance eccezionale nel ruolo di Lee, una giornalista di guerra.

La sua interpretazione intensa e vulnerabile aggiunge profondità al personaggio e ci fa immergere completamente nella sua esperienza. Se all’inizio diventa difficile empatizzare con lei e le sue scelte, quando vi alzerete dalla sedia – almeno a me è successo così – non sarete in grado di togliervi il suo sguardo dalla testa.

Gli altri comprimari come Wagner Moura, Cailee Spaeny e Stephen McKinley Henderson contribuiscono alla forza emotiva del film, rendendo perfettamente le caratteristiche salienti di chi si trova a fare il lavoro di reporter di guerra: rispettivamente quello che in apparenza non fa altro che scherzare, la novellina disposta a tutto pur di farsi strada nel settore e il veterano che con la sua saggezza elargisce consigli senza disdegnare l’azione, quando serve.

Un capitolo a parte è dedicato alla colonna sonora e al sonoro in generale.

La combinazione tra questi due fattori è straniante e rimarca abilmente l’azione: quando la musica – leggera, leggerissima, scanzonata – si fa sentire, tendi a rilassarti sulla sedia e a goderti il film come se fosse quasi un road movie. Ma poi arriva il silenzio e la tensione sale, ti ritrovi a stringere il bracciolo della poltrona fino allo spasmo.

E quel momento arriva, forte, potente e sconvolgente come solo il suono di un’arma da vicino può essere. I colpi sparati sembrano arrivarti al petto, per quanto sono potenti e pieni. Tutto questo con composizioni abilissime a sottolineare i momenti di tensione e disperazione, senza mai sopraffare la narrazione.

A questo proposito vi cito solo due scene, senza fare spoiler: la prima per la sua assenza di sonoro bellico, la seconda per la potenza dei colpi sparati.

Nel primo caso, i protagonisti si trovano in una specie di enclave in cui la guerra appare distante anni luce. Insieme a loro, lo spettatore si trova spaesato dinnanzi alla normalità della vita, del paesaggio, delle persone. Ma più di tutto, è l’assenza dei suoni di guerra a farla da padrone: il pensiero va ovviamente al fatto che siano bastate poche decine di minuti di visione per abituare l’orecchio alla presenza dei colpi in lontananza.

Il secondo caso è una di quelle scene che diventano memorabili: pochi minuti davanti alla macchina da presa per Jesse Plemons bastano a far diventare il suo personaggio un archetipo di un certo tipo di americano, di fanatico, di razzista, di soldato. Qui a farla da padrone sono i suoni del fucile, che coprono le parole e tutti i pensieri. Memorabile.

Un colpo allo stomaco
Civil War è un’opera che inizia a smuoverti qualcosa nel fondo nello stomaco dopo pochi minuti di visione: non esita a buttarti in faccia quello che succederà per le successive due ore a partire dai primi istanti della pellicola. Un film che ribalta le aspettative che il film stesso ti instilla nelle prime scene, che ti mette alla prova con un comparto sonoro che ti martella e ti spiazza, che ti affascina con una regia azzeccata e una sceneggiatura semplice ma ricca di spunti di riflessione.

Il terzo e ultimo motivo per cui Civil War è inquietante è la riflessione che ti porta a fare.

Che poi non è una riflessione lucida ma più che altro una sensazione sotto pelle che piano piano affiora alla parte razionale del cervello.

Nel mio caso – sarà per la mia formazione, le mie esperienze, forse un certo tipo di sensibilità all’argomento – ma la domanda che mi è salita regolarmente, nelle ore successive alla visione, era: quanto siamo distanti da questo scenario? Quanto è plausibile che un avvenimento apparentemente innocuo – che ne sono, le prossime elezioni americane – ci porti un passo più vicino a tutto questo?

E poi, subito dopo, e io cosa posso fare per evitare tutto questo? E se non posso fare niente, cosa farei al posto di uno qualsiasi dei personaggi sullo sfondo di questa storia?

Insomma, il film di Garland riesce perfettamente dove un film di guerra deve riuscire, ossia lasciare un segno nello spettatore.

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