Candyman 2021, le macchie che non se ne vanno mai davvero
Il ritorno di Candyman, caratterizzato dalla scrittura di Jordan Peele e Nia DaCosta, che firma anche la regia, sembra decisamente degno dell'originale
Ci sono vari modi di fare un buon sequel. Uno di questi è riprendere le vicende dell’originale e continuarle, quasi come fosse un secondo tempo dello stesso film. O magari racconti qualcosa di diverso, espandi il concetto del primo e le sue conseguenze. Oppure crei una storia tutta nuova, perfettamente fruibile anche da chi non ha visto il precedente.
Oppure sei un genio di nome Jordan Peele, e fai tutte e tre le cose.
Bernard Rose nello scrivere il capostipite (ne parlo nel mio articolo ad esso dedicato) temeva che creare un babau di colore potesse essere mal interpretato dalle comunità afro-americane. Il film del 1992 invece colpì molto e soprattutto loro, perché per la prima volta l’orrore veniva raccontato in quei luoghi, i ghetti e le periferie delle grandi città, dove nella vita vera l’orrore è sempre esistito.
Sia Peele sia la Nia DaCosta (autori della sceneggiatura di questo sequel, assieme all’esperto Win Rosenfeld) sono cresciuti col Candyman del ’92, con suo impatto, la sua carica politica.
Ma adesso tocca a loro, e se mi permettete la retorica non è più un “bianco” che scrive gli orrori della periferia ghetto afro-americana. Adesso dopo 30 anni il racconto va visto da chi con quegli orrori ci ha sempre vissuto.
Il protagonista Anthony McCoy (un sempre più bravo Yahya Abdul-Mateen II, già visto nella serie tv di Watchmen e in Aquaman) è un pittore/artista in crisi della Chicago bene, che abita nei lussuosi grattacieli del Cabini Green. Lo stesso luogo che un tempo era il ghetto dove si raccontava di Candyman adesso è stato totalmente gentrificato. I suoi orrori dimenticati, come se non fossero mai accaduti.
Eppure, basta scendere dalle sue gabbie dorate, fare qualche metro e ritrovarsi negli ultimi scampoli di periferia che la città non è ancora riuscita a cancellare, come fa appunto Anthony a caccia di idee (la sua arte lucra si ispira alle sofferenze della gente di colore). E proprio qui conosce uno degli ultimi “vecchi” abitanti del quartiere (Colman Domingo, gia visto in Fear the Walking Dead), che gli parlerà di Candyman. Ovvero chi (secondo lui) lo era, un povero anziano accusato di regalare dolci con all’interno lamette di rasoio a dei bambini. Almeno fin quando la vittima non è una bambina bianca e il povero (e innocente) vecchietto viene pestato a morte dalla polizia.
Chi ha visto il primo film ed ha buona memoria sa che Anthony non è proprio una persona qualunque, e sua madre (nel suo piccolo cameo) ne toglie ogni dubbio. E grazie a questo “legame” che la urban legend torna a prendere vita, con tutto il sangue che ne consegue.
Raccontando di Candyman l’abile sceneggiatura decide di “correggere”, addirittura migliorare, la lore del capostipite. Candyman non è un uomo, o almeno non è più un solo uomo. Candyman è ciò che succede quando qualcuno rimane vittima della furia razzista. Candyman è la risposta tumorale all’orrore che non può essere dimenticato.
E’ una geniale rielaborazione della teoria della macchia che non se ne va mai via del tutto. Puoi cancellarla, ma il tessuto ne porterà sempre i segni. Ogni orrore, ogni abuso, ogni crimine impunito, puoi dimenticarlo, puoi decidere di non parlarne più, ma resta lì, per sempre.
A sottolineare il messaggio politico, gli omicidi non avvengono più in presa diretta, davanti ai nostri occhi. Noi ne siamo solo spettatori distanti. Quasi fossimo dietro allo schermo di un telefonino che riprende. Come distante è l’altra protagonista del film, la fidanzata di Anthony, Brianna (la Teyonah Parris di Dear White People). Lei è solo una spettatrice degli eventi del film, ma principalmente perché non è stupida.
Le vittime sono tali perché scherniscono la leggenda, non ci credono. Sono tutti bianchi, la gente di colore (altro topos dei film horror post-moderni alla Peele) non scherza con la morte, non “se la va a cercare”, indipendentemente dal credere al babau oppure no.
La DaCosta mette nella regia una bravura eccezionale, sia nei suddetti omicidi (una delle cose migliori del film) sia nelle riprese di una Chicago scura, nuvolosa se non addirittura notturna. E quasi del tutto disabitata. Le persone restano in casa, non escono se non quando costrette.
Il tutto, udite udite, senza ricorrere MAI, nemmeno una sola volta, al meccanismo dello jump scare. Totalmente di Peele invece i pochi (ma devo dirlo, un po’ fuori luogo) tentativi di black humor (no pun intended).
Uniche due pecche, le musiche poco memorabili (ma forse è anche colpa della memoria storica di Philip Glass e l’immensa colonna sonora del primo) e tutta la componente body horror, del tutto accessoria e ininfluente al racconto. Poca roba comunque, per quello che è un film eccezionale, raffinato, genuinamente terrificante e con uno dei finali più belli e commoventi degli ultimi anni. Almeno in un genere, l’horror, che ha sempre affidato al ending la riuscita del risultato finale.
Finora, i sorprendenti risultati al box office paiono premiare il film. Speriamo non siano da traino per ennesimi sequel (onestamente la vicenda ha poco altro da raccontare) quanto magari ad altre rielaborazioni di miti e lore degli anni passati.
Altra e ben più importante speranza piuttosto è che l’immenso talento di Nia DaCosta (classe 1989!) non venga assorbito dal terrificante Major-blob chiamato Disney/Marvel. Di certo il suo prossimo Captain Marvel 2 ne sarà banco di prova.