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Il ritorno di Candyman, l’horror politico secondo Clive Barker

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Dopo uno stop and go di quasi un anno, per colpa della pandemia globale, finalmente il 29 agosto uscirà Candyman della quasi esordiente Nia DaCosta, sotto l’egida del produttore Jordan Peele. Quello sul titolo (giuro!) è l’unico rant che leggerete in quest’articolo. Il film infatti, come era razionale e facile pensare, NON sarà un remake/reboot ... Il ritorno di Candyman, l’horror politico secondo Clive Barker

Dopo uno stop and go di quasi un anno, per colpa della pandemia globale, finalmente il 29 agosto uscirà Candyman della quasi esordiente Nia DaCosta, sotto l’egida del produttore Jordan Peele.
Quello sul titolo (giuro!) è l’unico rant che leggerete in quest’articolo. Il film infatti, come era razionale e facile pensare, NON sarà un remake/reboot dell’originale, bensì un sequel diretto. Che, esattamente come The Thing (del 2011) e Halloween (del 2018), rispettivamente prequel e nuovo sequel dei capostipiti, onde non confondere lo spettatore (che secondo i geni del marketing ha la soglia di attenzione di una cubo medusa ed è a volte persino più letale) non viene seguito da dei paroloni difficili come “The prequel” o il numero 2.

Vabbè, è un sequel quindi, e nemmeno troppo sfumato.

Riprende e continua le vicende dell’originale. Con almeno due membri del cast originale che ritornano ed un'altra interpretata da una nuova attrice.

Da quel che si è visto nei due trailer rilasciati, è facile sperare in un prodotto notevole ed interessante, perfettamente in linea con la nuova visione del cinema horror di Jordan Peele, che con molto coraggio ha deciso di continuare la narrazione politica portata avanti da George A. Romero negli anni ’70 e da John Carpenter negli anni ‘80.

Nel frattempo vale secondo me riscoprire (o scoprire, auspicabilente), il capostipite del 1992. Candyman di Bernard Rose appunto.

Il racconto lungo originale di Clive Barker, “Il Proibito”, uscì nel 1985 all’interno della raccolta “In the Flesh: Book of Blood Volume 5” (da noi uscita con l’ingannevole titolo “Libro di Sangue vol. 2”). Narra di una studentessa universitaria medio-borghese che si avventura in un quartiere povero e malfamato di Liverpool alla ricerca di una particolare leggenda urbana, quella del “Pasticcere”. 

Nei primi anni ’90 la macchina da soldi chiamata Stephen King stava subendo una significativa flessione (anche fisiologica, praticamente qualsiasi cosa potesse essere adattata a film era già stata saccheggiata dalla major) mentre la sua diretta concorrenza, Clive Barker (rivalità creata ad hoc dal marketing in puro stile Beatles-Rolling Stones), aveva ancora tantissimo da raccontare.

La sua ascesa ad Hollywood era stata alquanto esplosiva. Deluso da primi due adattamenti dei suoi racconti, per il terzo (“The Hell-bound Heart”) decise di fare tutto da solo. “HellRaiser”, scritto e diretto da lui medesimo, è un capolavoro assoluto del body horror anni ’80. Seguirà poi “Cabal”, film dalla ambizioni immense e non tutte mantenute. Ma mentre Hellraiser subisce l’ordalia di due sequel tutto sommato guardabili ma che perdendosi in spiegoni inutili ammazzano il fascino del “non detto”, Barker cede volentieri i diritti del suo prossimo adattamento all’amico Bernard Rose, regista giovane, talentuoso e soprattutto estraneo al genere horror.

Nella sua sceneggiatura, Rose sposta l’ambientazione da Liverpool a Chicago, e i quartieri malfamati teatro della vicenda diventano intelligentemente un ghetto di palazzoni popolari abitato in gran parte da afro-americani poveri. La felicissima intuizione è uno dei punti di forza di questo adattamento. L’altra, assolutamente geniale, è riadattare “l’evocazione” di questo baubau al mito tutto americano di “Bloody Mary”, lo spettro che ti appare alle spalle se pronunci il suo nome davanti allo specchio.

C’è molto Lovecraft nel concetto delle “comunità chiuse”, spesso appartenenti ad un unico nucleo etnico, che vive e convive coi propri mostri in maniera più o meno equilibrata fino a quando non interviene “l’agente esterno”, lo “straniero”, che ignora, o nel peggiore dei casi, sbeffeggia i riti e le tradizioni della comunità.

Ed è proprio quello che fa Helen Lyle, la protagonista del film (una bellissima Virginia Madsen), a caccia di folklore locale per la sua tesi di laurea. Sarà la sua mancanza di fede nel mito di Candyman a scatenare una sanguinaria persecuzione nei suoi confronti.

Candyman infatti, non ha bisogno di “esistere”, di essere reale.

Gli basta che si racconti di lui, che la gente sappia che è sempre pronto, dall’”altra parte”, ad apparire. Helen crede sia solo una allucinazione collettiva del quartiere, ed è per questo che lui deve diventare “reale” e uccidere.
Contrariamente ad IT di Stephen King, che si nutre di paura, Candyman vuole solo che si racconti di lui, che la sua urban legend continui ad esistere. Il suo quartiere lo sa, lo teme, non ne parla volentieri con gli estranei.

Discutibile invece la sua origin story, senza dubbio “attuale” ed affascinante, ma che commette l’errore di “umanizzare” il baubau. Se infatti nel racconto originale non vi è menzione sulle origini del mostro, nel film veniamo a sapere che in origine era un afro-americano nato “libero”, bravissimo pittore, che venne linciato dalla solita folla razzista perché si innamorò e mise incinta una nobile ragazza bianca.

In ogni caso, il risultato finale fu assolutamente straordinario. Candyman ancora oggi riesce a conservare un fascino del tutto particolare, persino all’interno della lore di un artista unico come Clive Barker (che comunque ne è il produttore esecutivo).

Complici le musiche elaboratissime dell’artista minimal-prog Philip Glass (autore della trilogia di Koyaanisqatsi) e la fotografia pulita in perenne contrasto col gore, molto presente ma mai eccessivo. Ed almeno un paio di momenti di puro terrore.

Tony Todd, a cui tocco il compito di impersonare Candyman, ascese rapidamente ad attore icona horror (più tardi interpreterà nientemeno che la Morte nella saga di Final Destination).

Curiosamente, nonostante oggi il film sia apprezzatissimo anche e soprattutto dalle comunità afro-americane come esempio di horror dalla “loro parte”, all’epoca il regista era abbastanza preoccupato che potesse essere interpretato in chiave razzista. A questo forse si deve l”umanizzazione” del personaggio e certe side-story sui coprotagonisti bianchi tutt’altro che “buoni”.

Vanno citati (e solamente quello) i due veloci sequel, Candyman 2: L’inferno nello specchio (1995) e Candyman 3: il giorno della morte (1999). Saggiamente, il nuovo film li considererà non-canon.

Il film a tutt’oggi non è di facile reperibilità in Italia, essendo il DVD fuori catalogo da tempo. A tutti gli avventurosi “pescatori” consiglio di recuperare la versione col doppiato italiano del 1992 (con un bravissimo Massimo Corvo a doppiare Todd) ed evitare quella orrendamente ridoppiata nel DVD.

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