Call of the Sea: hai mai visto un Lovecraft così?
Call of the Sea propone una visione lovecraftiana profondamente differente da quella canonica a cui si è tanto abituati, ed è il suo più grande punto di forza.
Fin dove puoi spingerti per amore? Una domanda che, nel bene o nel male, prima o dopo ci si arriva a porre nella propria vita. La risposta è ben più difficile da formulare di quanto si possa credere ma, qualunque essa sia, rappresenta senza alcun dubbio un punto di svolta importantissimo nella propria esistenza, che si tratti di un nuovo inizio, della fine o semplicemente di un momento di crescita.
Stupisce vedere indagato proprio questo tema all’interno di Call of the Sea, opera prima di Out of the Blue liberamente ispirata all’opera letteraria di H. P. Lovecraft. Stupisce perché non è un tema piuttosto comune nell’ecosistema artistico che ruota attorno al mondo creato dal padre della “weird fiction”. Ci si stupisce perché il mondo pop non è solito soffermarsi su aspetti differenti dell’immaginario lovecraftiano che non siano la discesa nella follia e l’impotenza dell’umanità di fronte all’inspiegabile e il grottesco.
Fa più scena, è ovvio. Sono solito, però, ripetermi un piccolo mantra interiore ogni qualvolta che lo scrittore viene tirato in ballo: non basta un tentacolo a fare Lovecraft, e Call of the Sea sembra averlo capito bene ponendosi come un prodotto completamente differente da tutto quello che ci si potrebbe immaginare da un titolo di questo tipo, provando ad esplorare un tipo di immaginario “diverso” e meno comune pur rimanendo comunque ben radicato all’interno della ben più classica mitologia “cthuliana”.
Giocare un piccolo gioiellino come questo mi ha riportato alla memoria tutto quel tempo adolescenziale speso nello studio, scolastico e non, di Lovecraft e del suo particolare mondo: ne ero affascinato dapprima per tutta quella serie di classici motivi per cui si rimane folgorati dalla sua letteratura e in un secondo momento, con il passare degli anni, da tutto ciò che ruota attorno alle sue opere e un po’ tutto quello che si può imparare “inabissandosi” fra le sue parole.
Mi sono imbattuto, non troppi anni fa, ne L’età adulta è l’inferno, una raccolta di diciannove lettere di Lovecraft curata da Marco Peano in cui viene esplorato probabilmente un Lovecraft completamente nuovo per i più, quello innamorato che vive tutti gli alti e i bassi della sua storia con Sonia H. Greene, la donna con la quale lo scrittore statunitense intraprese una relaziona conclusasi con un divorzio. Di questa storia, purtroppo, non esistono testimonianze scritte dirette poiché la diretta interessata distrusse tutte le lettere inviategli da Lovecraft stesso, ma ne abbiamo testimonianze in lettere terzi.
Proprio queste sono state incluse in questa peculiare raccolta che ci racconta l’amore dal punto di vista di uno degli scrittori più controversi ed interessanti del ‘900. “L’amore reciproco tra uomo e donna è un’esperienza dell’immaginazione che consiste nel sostenere, da parte dell’oggetto, una speciale relazione con la vita estetico-emozionale del soggetto, e che dipende dall’esaudire, da parte dell’oggetto, certe condizioni estetiche” recita in una di queste lettere con una frase che difficilmente riusciremo ad attribuire ad occhi chiusi proprio a Lovecraft, non è vero?
Interessante il suo approccio quasi freddo e razionale all’amore, lo stesso che possiamo trovare in alcuni personaggi di contorno di Call of the Sea, contrapposto a quell’amore più puro e sofferto che muove Norah Everhart, la protagonista di questa singolare avventura, che si contrappone, a sua volta, ad una delle possibili scelte sul finale che torna a scaraventare il giocatore verso l’aspetto più scientifico e, possiamo dirlo, lovecraftiano del sentimento.
Ma interessantissima non è semplicemente la visione dell’amore che gli sviluppatori mettono in scena nella loro personalissima “Chiamata di Cthulu” quanto anche la visione di quella follia lovecratiana tanto cara al mondo pop generale che tende a mettere in primo piano all’interno di qualsivoglia opera liberamente ispirata dalla letteratura di H. P. Lovecraft.
Così come gli sviluppatori ci dicono all’interno di uno dei tanti aggiornamenti pre-lancio del titolo pubblicati su Steam, la loro idea non era tanto quella di raccontare la classica discesa nella follia a cui siamo abituati quanto quella dell’ascesa da questo abisso per raggiungere, in un certo senso, la razionalità e la pace interiore: una sorta di Lovecraft “al contrario” quindi che non vede solamente un ribaltamento del tema centrale della narrazione ma anche del flusso canonico che permea qualsiasi altra opera similare.
Difficile trovare altri esempi simili che siano riusciti con la stessa potenza a raccontare i mondi, i miti e le leggende lovracrftiane senza scadere in quel canone scontato messo in piedi da anni e anni di “fiction lovecraftiana”. Difficile perché per chiunque è molto più semplice mettere in scena gli aspetti più grotteschi ed efferati della sua letteratura rispetto alla profondità e alla potenza di cui è capace. Difficile, sì, ma non impossibile, è chiaro.
Poco prima, giusto qualche mese, della pubblicazione del videogioco a prendersi la briga di provare a fare qualcosa di simile è stata la serie tv “Lovecraft Country” a sua volta adattamento dell’omonimo romanzo di Matt Ruff che riesce nella difficilissima impresa di portare su schermo qualcosa di leggermente differente dal solito ma ugualmente potente ed interessante. E sì, chi l’ha vista sa benissimo che è piena di mostroni, sparatorie e “cose schifose” ma non è quello il punto della serie, no?
Quello è soltanto un modo per farsi apprezzare dal grande pubblico. Ecco, la serie prova a raccontare, così come Call of the Sea, un Lovecraft differente attingendo all’universo dello scrittore “semplicemente” per qualche citazione qua e la ma utilizzandolo, allo stesso tempo, per veicolare una straordinaria storia di odio razziale ambientata durante il periodo separatista americano e la cosa davvero incredibile dell’opera è il farlo proprio attingendo all’immaginario di un conclamato razzista e antisemita quale Lovecraft. Grandioso, vero?
L’orrore, quello vero, che viene mostrato allo spettatore non è tanto quello generato dall’esoterico che permea tutta la produzione, quanto dall’odio dell’uomo bianco su quello nero che si spinge a livelli di disumanità tale da creare orrore e raccapriccio in pieno stile lovecraftiano, specialmente nel momento in cui a rappresentare i “veri mostri”, quelli tutti viscidini e spaventosi, sono proprio gli americani bianchi.
Ma nonostante tutto Lovecraft Country non fa lo stesso azzardo di Call of the Sea, che si rende capace di farsi portatore di un nuovo modo di vedere Cthulu, accoliti, rituali, follia e degenerazione senza mai mostrarci di fatto nessuna mostruosità e nessuna aberrazione. Non solo, i ragazzi di Out of the Blue provano a sovvertire anche l’ambientazione proponendoci un’isola che possiamo liberamente ricondurre a quello che abbiamo letto in Heart of Darkness di Conrad del quale è possibile ritrovare anche una sorta di trasposizione di Kurtz in uno dei membri della spedizione arrivata sull’isola in cui si svolge la vicenda videoludica.
Insomma Call of the Sea, al netto della sua scarsa longevità e della “semplicità commerciale” dell’ambientazione si prende un rischio enorme riuscendo, però, nell’intento di raccontare una grande storia nata dalla scrittura di tante altre grandi storie che qualsiasi altro medium esploratore di Lovecraft non è mai riuscito a raccontare come si deve. Volete farvi un favore? Regalatevi queste sette ore scarse di gioco e dedicatevi alla scoperta di modo tutto nuovo di leggere Lovecraft e i suoi mondi.