

Ghostbusters Legacy - Anteprima da Lucca C&G
Freschi dell'anteprima lucchese affrontiamo lo spinoso tema del terzo capitolo di Ghosbusters: riuscirà il film a trasmettere l'eredità degli Acchiappafantasmi ad una nuova generazione di spettatori?
La richiesta (ah ah ah)
La mattina del 31 Ottobre, mentre si pensava alla sera e all’anteprima di Ghostbusters pensavo che piuttosto che lanciarmi nel solito articolo fiume, sarebbe stato bello per una volta essere tiratissimi e abbracciare una forma più asciutta.
Poi è arrivato CapitanTroll, il noto fumettista, che mi fa “ma io in realtà vorrei proprio un pezzo con 2900 battute solo di premessa e poi una di quelle frasi tue lapidarie che a me guarda me fanno morì”.
Bene, CapitanTroll, non dico che sarai accontentato, ma una premessa è necessaria.
La premessa necessaria
È curioso come il franchise di Ghostbusters sia vitale.
Non dico immotivatamente, ma parliamo di un film degli anni 80 di grande successo che ha avuto un sequel molto meno bello e poi è scomparso dai radar per decenni. Decenni. Non una roba come Star Wars che già Lucas defibrillò, letteralmente, negli anni 00 ha una “fidelizzazione generazionale continua”con contenuti che si autoalimentano in maniera quasi virale.
Ghostbusters ha un nocciolo duro di fedelissimi che negli anni è rimasto molto bloccato nel tempo su, appunto, un film molto bello e un sequel sul quale pure i fan sfegetati alzano un sopracciglio.
Contro questo muro ci si è già sbattuti nel 2016, con l’operazione “reboot al femminile” che si poneva gli stessi intenti del film originale, ovvero prendere le comiche più forti della loro generazione e darle spazio per fare loro stesse, la loro comicità e il loro appeal, all’interno di una cornice narrativa sufficiente per tirare avanti due ore di gag.
Gli esiti di quella che avrebbe dovuto essere una collaudata formula sono sotto gli occhi di tutti, anche se le critiche sono state impietose verso quello che a tutti gli effetti è stata una mossa coraggiosa.
Per quanto il coraggio vada premiato, ciò non toglie che la differenza più grande con l’originale non era solo nel paragone tra gli interpreti, ma su una gestione dei tempi comici spesso sbagliata e che, non so come esprimermi altrimenti, tira troppo le battute, allungandole oltre il punto in cui sono legittimamente divertenti fino a scadere nel cringe.
Cose buone ci sono, come rimarcare la vena comica a Chris Hemsworth, ma purtroppo è uno di quei film che più lo si guarda meno è divertente.
Puta caso, l’esatto opposto che capita a riguardare l’originale, ogni volta sempre bello, al di là dell’affetto, sul quale scoprire dettagli che vanno dalle singole interpretazioni, dalle facce dei protagonisti, dalle interazioni del cast come reazioni alle battute. Un film cazzimmoso che tiene insieme con ordine una serie di gag per chiudere un prodotto coordinando la dilagante follia di un set dove si aggira completamente a caso Bill Murray, uno degli attori più imprevedibili della storia del cinema contemporaneo.
Il presupposto è appunto che, una volta bruciatasi la strada della sperimentazione “totale” con il cast femminile, per portare il marchio Ghostbusters nel contemporaneo solo un’altra strada era percorribile, quella nostalgica, quella sicura, quella saldamente pizzata sulle spalle dell’originale, che non oscilla e non traballa perché, appunto, la base è talmente solida da reggere il peso delle incertezze e del cambio di tono.
Il Cuore
L’avvio del film è molto netto, quasi un cold opening bondiano, non fa nulla per sviare lo spettatore, è una dichiarazione d’intenti che serve a tranquillizzare il fedele. È un ritorno a casa, anche se non è la casa che abbiamo lasciato. New York lascia il posto alla realtà rurale delle grandi pianure americane eppure a risolvere lo spiazzamento arriva l’icona con la sua potenza soverchiante.
Il film segue con le vicende di una famiglia, la madre single con figli a carico e un passato di instabilità emotiva alle spalle. Detto così sembra l’attacco di una recensione per un dramma borghese ma il fulcro della questione è la narrazione familiare e affettiva che lega i personaggi fatta di assenze da correggere e flussi da incrociare, anche se non sono i flussi che ci si aspetta.
Il topos appare in evidenza ammiccare ad un certo tipo di cinema americano anni ’80 con i ragazzini, ma come per caratterizzazione nulla lascia intendere un nostalgismo da epoca dorata. I ragazzi si comportano come si comporterebbero ragazzi di oggi, nonostante la patina visiva d’epoca accennata in prima battuta.
C'è una punta di Goonies, un po' di Lost Boys, ma anche di Karate Kid se vogliamo, dal momento in cui c'è anche il tema familiare presente e tutto ha inizio con un trasloco, altro elemento tipico di un certo cinema e di una certa America che magari, a causa della situazione economica generazionalmente di nuovo instabile è tornato alla ribalta. Ciò porta i protagonisti ad essere degli outsider cosicchè il punto di vista sulle vicende non è condizionato dalla quotidianità, ma curioso sul nuovo.
Con questo punto di vista arricchito è quindi interessante come i personaggi interagiscano in un continuo rimbalzo tra passato e presente fatto di evidenti rimandi in dialogo generazionale costate.
Una cosa che il film fa molto bene è disattendere le aspettative che lo spettatore può essersi fatto osservando il cast nei trailer.
La presenza di Finn Wolfhard è estremamente marginale e per niente indicativa della direzione che il film prende, infatti protagonista assoluta (forse spesso a scapito della caratterizzazione degli altri personaggi) è Mckenna Grace che riesce nella non facile impresa di interpretare un personaggio femminile molto distante dallo stereotipo inventato recentemente con la Eleven di Millie Bobby Brown, con un personaggio che sì, è estremamente derivativa considerando la sua discendenza, ma riesce ad introdurre un ulteriore layer di profondità nel momento in cui si suggerisce una maggiore consapevolezza per quanto riguarda la narrazione dello spettro dell’autismo.
Il cast giovane va chiaramente a costituire un party che condivide con la formazione originale alcuni degli elementi caratteristici.
Il cast di adulti anche sotto questo profilo è estremamente funzionale.
Paul Rudd che rischiava di essere un nome ingombrante che accentrasse l’attenzione e adombrasse i giovani ha un ruolo molto inquadrato e ben definito che non sborda.
E anzi, per quanto riguarda il suo ruolo è funzionale, ha un momento di comicità geniale nel descrivere il rapporto che intercorre tra media e generazioni ben centrato e per niente didascalico o scontato.
Meno impattante sicuramente, il ruolo di Carrie Coon, nel paragone inclemente di doversi confrontare idealmente e non con Sigourney Weaver.
Dal punto di vista delle scelte “emotive” il film non ne sbaglia una.
Il tempo che intercorre tra il secondo e il terzo film è diegetico nel senso che tutto galleggia in quella bolla per la quale un fatto di attualità non arriva ad essere conosciuto da una generazione perché ancora a margine tra cronaca e storia.
Il sentiment della sala, come si usa dire adesso, fatto di fan sfegatati che hanno passato 40 minuti a battere le mani a tempo della colonna sonora mandata in loop, è stato estremamente positivo, esaltato e per certi versi esaltante.
Non si può parlare di questo film senza citare le fragorose risate a bocca piena di Davide Costa, senza parlare dell’emozione di CapitanTroll o degli occhi di Lorenzo Fantoni, sono cose che devo aggiungere in contrasto ad analisi molto più asciutte e “fredde”. Perché smuovere loro significa testare un composto con una cartina tornasole, bucando quelle che sono le barriere che spesso erigo tra me e gli altri.
La mente
Dal punto di vista dei valori oggettivi materiali della realizzazione bisogna affermare che dal punto di vista tecnico il film è impacchettato in maniera molto consapevole per conferire al tutto il giusto senso di continuità.
La regia è calibrata in modo tale da assomigliare, nei suoi tratti caratteristici, ad un film di un’altra epoca pure se nella recitazione non fa niente per esserlo. Con ciò la cittadina sperduta nella grande pianura americana è molto funzionale perché in tutte le comunità più o meno isolate convivono reliquie del passato come i diner anche se non del tutto sospesi in una bolla trascurando internet e una certa semplicità di accesso alle informazioni.
Dalla prima scena all’ultima c’è un vago senso di deja vu portato avanti di volta in volta dalla riproposizione in chiave contemporanea degli elementi iconici e dei feticci del passato.
Immaginate una scena come quella nella soffitta dei Goonies ma dove tutti gli oggetti che vengono accarezzati dal movimento macchina e toccati dai ragazzi, sono collegati alla storia dei Ghostbusters. Questo rientra nel discorso di dialogo con il passato, con le sue reliquie, con la sua storia. È quella cosa lì e non se ne scappa dal momento che si è scelta la via della nostalgia, o se vogliamo, della riscoperta del passato.
Il suo più grande punto di forza e il suo più grande limite.
La volontà unica che si percepisce dal film è quella della continuità con l'originale e questo può essere sia un vantaggio che uno svantaggio e per quanto mi riguarda quello che senza ombra di dubbio si pone come il terzo capitolo del franchise patisce troppo questa debolezza caratteriale nel voler a tutti i costi ricevere approvazione dai vecchi fan.
Proprio perché la direzione è buona, il cast azzeccato e ben diretto, mi viene da chiedermi che film sarebbe stato se avesse voluto distaccarsi più che di aderire ad un modello precompilato.
Pure gli effetti speciali giocano sul fatto di essere a metà tra il passato ed il presente, un presente che prende quella cosa dal passato e te la fa uguale a livello cromatico, materico e sonoro, finanche a ripetere gli stessi movimenti e le stesse “creature” nelle stesse posizioni.
E quindi perché razionalmente mi ha lasciato freddo?
Perché di tutte le cose iconiche che presenta, nessuna è una sua invenzione, è un passaggio di mano culturale di icone da una generazione per la quale quelle cose hanno valore ad un’altra che le prende in eredità senza che questa abbia mai dimostrato una chiara volontà di accoglierle.
E la scena con Paul Rudd che fa vedere Cujo alla sua classe è molto indicativa di un certo tipo di modo di essere adulti che “impone” ai propri succedanei qualcosa che per loro ha valore ma per altri vai a sapere.
È questa forte consapevolezza nell'offrire ad una fetta di pubblico esattamente ciò che vuole ad essere disarmante e di non provarci nemmeno ad instaurare un legame emotivo con qualcosa di nuovo o diverso da quello che era nel film originale, arrivando addirittura SPOILER a ripescare il cattivo ma senza impegnarsi a trovare una nuova forma per Gozer consci del fatto che anche impegnandosi niente avrebbe funzionato come l'omino della pubblicità dei marshmellow perché "non c'è niente di più soffice e dolce di quei candidi gnocchi di licheni".
Ed è divertente come la famosa scena dell'anteprima con Paul Rudd e i marshmellow sia un momento molto riuscito, di una crudeltà che arriva leggera e inaspettata che arriva direttamente da un certo gusto 80's per il grottesco, in un momento di dissoluzione dell'icona dal momento che la prende e ci fa qualcosa che non ti aspetti. Il fatto che poi capiti al personaggio di Paul Rudd aggiunge uno strato di significato ulteriore che sarebbe potuto diventare per certi versi una delle scene emblematiche del film, se non fosse che poi torna su una vita più consolidata e rassicurante.
Per questo mi sento di definirlo un film da quarantenni che portano al cinema i figli in un momento di congiunzione generazionale tra passato e presente, di eroi un po’ goffi e un po’ comici che cercano di sopravvivere al passare del tempo rigenerando la loro memoria ad un nuovo pubblico sperando che quell’eredità la accolga con gioia.
La scena veramente emblematica di tutta le direzione intrapresa diventa così quella finale: il nuovo che senza il vecchio è incapace di risolvere i problemi e il vecchio che senza il nuovo è destinato ad un limbo fatto di dimenticanza e inutilità, l’oblio, al quale è possibile uscire solo tramite un simbolico passaggio di testimone.
Questa chiusura che in sala mi ha fatto esclamare "oddio, non di nuovo come episodio IX" è quella che forse per paraculaggine mi ha fatto alzare tutti gli scudi emotivi possibili, ergendo quelle barriere famose che ricacciano indietro le lacrime permettendo di tenere una vista salda sul bersaglio.
Quante operazioni del genere abbiamo visto negli ultimi anni? Quante sono davvero riuscite nell'intento?
Cosa differenzia questo dalla nuova trilogia di Star Wars? È davvero questo che vogliamo trasmettere di Ghostbusters ai nostri ragazzi?
La presa emotiva sul pubblico o come quel gancio viene utilizzato trascinandoci tutti dietro la macchina fuori da quel pantano che è il passato?
Non siamo dalle parti dei colpi di gomito di J.J.Abrams ma quasi se non come risultato sicuramente come intenzioni.
Non so se era questo che avrei voluto vedere, e mi starebbe anche bene essere preso in contropiede se lo fossi stato, per questo per i miei gusti e per il valore che attribuisco alla pellicola originale, questa nuova accoglie l’idea dei ghostbusters ma non i valori formali e sostanziali che hanno creato l'idea alla base dell'icona.
È l'idea alla base del film che per me è molto distante dallo spirito originale dell'opera, è va anche bene, ma è diventato un'altra cosa, un'altra cosa che funziona quando non cerca il confronto diretto.
Un film che con una consapevolezza disarmante non inventa niente, che è emotivo e, per me, spesso molto paraculo e quindi mi viene da pensare della sua effettiva funzionalità nel momento in cui quella componente emotiva e paraculo non ci fosse in un analisi più cinica e fredda dei valori in termini assoluti di tutta l’operazione.
Un po’ come quel fantasma che appare a metà film e che ha un character design veramente pigro pur con una resa “materica” perfettamente coerente con la serie. Altro elemento quello legato alla materialità dei fantasmi che il film del 2016 toppava alquanto.
E quindi è un elogio alla sua consapevolezza, nonostante giocare in quel modo con la componente più emotiva di tutta l’operazione è, per certi versi, un colpo basso, bassissimo.
Perché se è vero che il film gioca sempre sul sicuro c'è un momento in cui si prende tutti i rischi e in quella determinata scena sul finale si gioca una carta rischiosissima che cammina su un delicato equilibrio tra legittimo e illegittimo.
Quando si tirano in ballo i sentimenti inizia ad essere impegnativo bilanciare varie correnti di pensiero e in una certa percentuale anche di moralità che, per quanto mi riguarda, è stata una delle cose che più mi ha lasciato perplesso e nell’incapacità di esprimere un giudizio univoco, preferendo scindere ancora una volta le due anime, quella razionale e irrazionale.
In termini di valore assoluto il film c'è tutto e sembra anche ci sia un futuro instradato per i nuovi Acchiappafantasmi ma la penetrazione emotiva e l'apprezzamento a pieno di questo ricade tremendamente nella sfera emotiva personale.