Blade Runner 2049 - Siamo tutti la Ana de Armas di qualcuno
L'attesa per Dune Parte Due è stato il momento giusto per guardare per la seconda volta Blade Runner 2049, un film che pur riconoscendogli un sacco di meriti tecnici non ho mai particolarmente amato, eppure l'imprevisto è dietro l'angolo e i tempi sono maturi per una rivalutazione.
Sia messo agli atti che aspetto la seconda parte di Dune di Villeneuve come la seconda venuta del messia (di Dune, chiaro).[Ndr: la stesura di questo testo è iniziata i primi di Marzo, quindi prima che al cinema uscisse Dune Parte Due
Questa frenesia incontenibile poteva essere sfogata in unico modo possibile, un’attenta preparazione, quasi una rincorsa al film. Non l’ho presa molto lunga, né troppo distante dal punto di arrivo: semplicemente ho deciso che i tempi erano maturi per guardare per la seconda volta Blade Runner 2049 al quale, dopo la cocente delusione all’uscita della sala, non avevo più messo mano. Può capitare di non essere perfettamente allineati con la sensibilità del film, come può capitare che, al passare degli anni, determinate tematiche trattate possano essere più nelle corde rispetto al passato; non sto dicendo che metà del film lo fa lo spettatore, ma buona parte del valore di una pellicola è dato dalla soggettività di chi guarda. Del resto non si vive di assoluti e solo gli stupidi non cambiano mai idea, non ti bagneresti mai due volte nella stessa acqua, panta rei ecc.
Una situazione simile era capitata con Avatar the way of water. Con la complicità di due linee di covid, ho pensato cosa buona e giusta, prima di andare a vedere l’ultima fatica di James Cameron, riguardare quelli che ritenevo gli fossero più filologicamente vicini: Abyss e Titanic. La storia mi ha dato ragione.
Ma torniamo al momento in cui pigiai play su Blade Runner 2049.
Esteticamente, è sempre meraviglioso, forse anche di più di quanto ricordassi. Ad esempio gli interni, che alla prima visione avevo trovato sciatti e vuoti, hanno la loro tecnologica eleganza nella gestione dello spazio e delle forme: ma non voglio insistere sull’aspetto estetico formale, e lo specifico ora per non perdere i miei quattro lettori.
Quello che mi ha spezzato, che mi ha fatto guardare il film diversamente e che anni fa avevo oggettivamente sottovalutato, è stata la scena della vita domestica di K, il replicante cacciatore di replicanti interpretato da Ryan Gosling. Anni fa, quella parte la trovai superflua in un film troppo lungo. Frenava il ritmo, faceva rallentare la pellicola, la bagnava dove il primo era asciutto, nonostante anche l’originale Blade Runner avesse un momento “romance” tra Deckard e Rachael, a casa di Deckard, tra l’altro in uno spazio preso in prestito al maestro dell’architettura usoniana Frank Lloyd Wright (Ennis House, Los Feliz, Los Angeles, California).
Nel 2049, K è un nuovo modello di replicante. È sottoposto a rigidi controlli psicologici affinché non sviluppi idee eversive come i sentimenti. Vive un’esistenza fatta di tensione verso lo scopo (il lavoro): sotto questo punto di vista è un attrezzo funzionale. Non ha ambizioni, non ha aspirazioni, non sogna, forse. È l’esatto opposto di Roy Batty, diverso pure da Rick Deckard (se vogliamo credere alla teoria secondo la quale Deckard è un replicante, e chi scrive questo articolo è di questo partito).
Purtroppo i replicanti non sono robot. Assolvono ad uno scopo, ma hanno controindicazioni biologiche: sono imitazioni dell’umanità, se vogliamo ritenere come umano solo un individuo non creato in laboratorio, indipendentemente dalla sua biologia, o dalla sua volontà di “essere (verbo, non sostantivo) umano”, e come tali hanno bisogno di mangiare, di dormire. Sognare, forse.
I replicanti hanno bisogno di una casa, intesa come luogo al quale tornare quando non lavorano: ma una casa implica una vita domestica, come se immaginare una casa sia, allo stesso tempo, immaginare un modo in cui questa è abitata. Perché cosa fai quando sei a casa e non lavori? Non hai hobby, non hai passioni, non hai interessi, probabilmente perché i replicanti sono alleggeriti dal peso di avere un’anima, volendo credere sia all’esistenza di un’anima che al fatto che i replicanti non ce l’abbiano.
Cosa fa un replicante quando non lavora?
Continua ad imitare la vita.
K imita la vita interagendo con Joi. La vita, astraendola dal suo svolgimento biologico, può essere definita come una funzione complessa, non ha uno scopo, specialmente in virtù dell’astrazione biologica di cui sopra. Per un essere umano, biologicamente parlando, la vita potrebbe avere lo scopo ultimo di procreare per perpetrare la specie: ma in un essere che biologicamente imita l’umanità, ma non può riprodursi, è come troncare questo slancio. Al di là della finzione filmica, situazioni simili sono all’origine di complicazioni dal punto di vista psicologico che non sono in grado di spiegare attraverso un pezzo che parla di un film di qualche anno fa: quindi, mi perdonerete se sorvolo sull’argomento, sperando di non essere indelicato.
La vita domestica di K è interessante per la sua interazione con Joi.
Joi è interpretata da Ana de Armas, all’epoca ancora grossomodo sconosciuta al grande pubblico (andando a memoria). Le loro relazione è una sovrapposizione di imitazioni della vita che si incontrano e che, allo spettatore (a me, nel caso specifico), ha lasciato qualcosa: ho trovato la loro solitudine dispari commovente.
K è vivo, ma non può definirsi umano, non gli hanno mai nemmeno mentito come accaduto a Deckard, Joi non è nemmeno umana e non può definirsi viva: anzi, per Joi il problema dell’esistenza non si presenta nemmeno, essendo solo lo script in un programma ad interfaccia olografica che risponde agli stimoli esterni con output visivi privi di consistenza.
In prima battuta potremmo addirittura dire che Joi è la casa di K, intesa come sistema operativo personalizzato dell’impianto domotico dell’appartamento e allo stesso tempo la sua imitazione di vita domestica, specie quando è impostata come la classica casalinga americana degli anni ’50: à la Betty Draper, per capirci, ma senza le nevrosi (perché è un ologramma).
La scena alla quale assistiamo in Blade Runner 2049 è un momento importante nella loro vita di coppia: K regala a Joi un dispositivo che le permette di scollegarsi dalla casa e muoversi dovunque quel proiettore portatile sia, potremmo considerarlo l’equivalente di uno smartphone perché assolve anche ad altre funzioni. Joi è programmata per essere entusiasta della cosa, come è anche programmata per essere una donna di casa degli anni ’50 che non vede l’ora che il suo partner ritorni a casa, nonostante quest’ultimo sia in buona sostanza un involucro anaffettivo che ripete generiche frasi di circostanza. La prima uscita della perfetta imitazione della coppia felice è sul tetto di casa, sotto una pioggia battente, illuminati dalle luci dei neon. È una scena molto bella, davvero quello che fa la differenza nell’avere come regista Denis Villeneuve e come direttore della fotografia Roger Deakins.
K e Joi sono la coppia perfetta, perfettamente fotografata: e sono perfettamente finti, entrambi. Bellissimi.
Squilla il telefono, la magia finisce: Joi va “in pausa”, freezata a metà di un bacio, K deve andare a lavoro. Joi viene spenta.
Ecco, credo che ci sia molta verità dei rapporti umani in questa sovrapposizione di finzioni. Nelle relazioni interpersonali di qualsiasi tipo, le persone esistono fino a che sono nel nostro spettro di interesse, fino a che esistono le loro interazioni con noi. Poi vengono messe in pausa, a volte spente, sostituite, e questo proprio in virtù della complessità della funzione complessa della vita, che a questo punto potremmo anche definire come la sommatoria delle occasioni mancate o delle scelte prese: ma per qualcuno saremo sempre e comunque solo un ologramma, che attraversa il campo visivo, per poi sparire. Solo un’immagine residua sulla retina quando la luce va via. Altre volte scegliamo di voler credere fortemente che qualcosa esista, perché fa più comodo fingere un’esistenza che accettare un’assenza.
Forse Blade Runner 2049 riesce a farmi provare più simpatia per il suo protagonista rispetto ad un altro film che parla di amori artificiali, il retorico e stucchevole Her: apologia del maschio solitario che si piange addosso perchè la tipa lo ha lasciato (per chi non lo sapesse, Her è la “risposta” di Spike Jonze a Lost in Translation di Sofia Coppola: a sua volta, film di “reazione” alla loro relazione).
K è un reietto: “Skinner” troveremo scritto sulla sua porta di casa. Quando cammina e incontra qualcuno meccanicamente abbassa lo sguardo, perché i replicanti non sono tollerati nella società, sono utili ma disprezzati, nemmeno cittadini di classe inferiore: semplicemente non sono cittadini, il loro scopo è ammazzare le cose più simili a loro, i “lavori in pelle”. All’interno di questa sfera di distorsione la sua non-relazione con Joi ha quasi senso: non sono due solitudini che si incontrano, sono due inesistenze che si sovrappongono.
Questo frammento di vita domestica mi ha toccato.
Ci sono probabili spiegazioni a tutto ciò. La prima, la più banale: sto invecchiando e, man mano che passano i giorni, immagino la mia vita da adulto sempre più vicina a quella dell’agente K. Un lavoro (che amo) che assorbe gran parte del mio tempo; una vita domestica che si riduce sempre ad un numero minore di stanze e interazioni sociali che giornalmente si assottigliano. Ma su questo non continuo per non riprendere il tema del pezzo su Helldivers della settimana scorsa.
È una parte del film che avevo sottovalutato all’epoca perché la sentivo troppo distante. Credo che lo spazio architettonico mi abbia convinto che tutto sommato quell’appartamento, nella sua dimensione ridotta (non troppo più grande di quello che ho occupato durante l’Erasmus a Madrid), sia efficace per assolvere lo scopo di casa per una persona solitaria che passa gran parte della propria giornata fuori, anche senza tornare imbrattato di sangue.
La vita domestica di K è l’unico momento che lo spettatore ha per entrare in sintonia con il protagonista del film. Nel Blade Runner originale, i primi screen test riscontravano una distanza tra spettatore e racconto e quindi successivamente venne aggiunta la voce fuori campo: gli dava un tocco decisamente più noir, una cosa che lo spettatore era più abituato a codificare, e umanizzava il protagonista perché era sua la voce fuori campo contribuendo a mettere la storia in prospettiva, mentre l'assenza di empatia per la storia era una sensazione che veniva suggerita diegeticamente allo spettatore e verrà poi ricreata solo con la Final Cut.
2049 compie un’operazione simile con la scena della casa: il protagonista è completamente distante dall’umanità, sa di essere un replicante, tutto intorno a lui glielo ricorda, lo spettatore non ha dubbi, Gosling porta in scena fino a quel momento qualcuno col quale è impossibile provare empatia fino a che, prima che lo spettatore perda completamente interesse nelle sue vicende, arriva la scena di vita domestica, il nostro unico punto di contatto possibile con lui.
Per quanto riguarda il resto del film, è andata a finire che la mia attenzione è crollata a picco di fronte alla vastità del cazzo che me ne frega del personaggio di Jared Leto. Ho iniziato a “riposare gli occhi” e ho deciso che avrei ritentato in un momento diverso, più fresco.
Non so come ha retto il film al tempo o se sono io a piegarmi ad esso, o se oggi la lunghezza che ritenevo ciclopica all’epoca è diventata serenamente lo standard. O, forse, le storie cadenzate che si prendono i loro tempi, descrivendo i personaggi in questo modo non didascalico fatto di gesti, sono diventate di più il centro dei miei interessi.