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Perché amo ancora Final Fight

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“Pijate er pollo che mo’ questo lo corco io! Dajeee!” Ben prima di qualunque videogioco cooperativo online, era con queste parole che un bambino romano in evidente stato di iperattività si coordinava con me per finire quello che considero a tutti gli effetti uno dei giochi più stronzi, belli e importanti della mia vita: Final ... Perché amo ancora Final Fight

“Pijate er pollo che mo’ questo lo corco io! Dajeee!” Ben prima di qualunque videogioco cooperativo online, era con queste parole che un bambino romano in evidente stato di iperattività si coordinava con me per finire quello che considero a tutti gli effetti uno dei giochi più stronzi, belli e importanti della mia vita: Final Fight.

A cavallo tra gli ’80 e i ’90 andare in sala giochi non era una semplice questione sociale, era il modo più facile e immediato per giocare ai titoli più tecnologicamente avanzati. Perché sì, belli il Nintendo, Sega, l’Amiga e il Commodore, ma all’epoca la frontiera non si trovava in casa, ma in ampie sale il cui pavimento non aveva mai conosciuto il detersivo oppure in retrobottega di insospettabili bar affollati da vecchi che giocavano a scopa. Era un po’ la stessa differenza tra pranzare a casa e andare al ristorante migliore della città.

In quell’epoca fatta di bulletti, record da battere, piramidi sociali basate su quanto duravi a Street Fighter II e 200 lire appoggiate sullo schermo, Final Fight spiccava come l’esempio perfetto di un genere principe dell’epoca: il picchiaduro a scorrimento.

La storia bene o male è nota: la Mad Gear Gang decide di rapire Jessica, figlia di Mike Haggar, ex wrestler e ora sindaco della città (negli anni ’90 suonava buffo, ma solo perché non sapevamo che sarebbe poi potuto accadere davvero) per obbligarlo a collaborare. Mike dal canto suo non si perde d’animo e invece di fare una conferenza stampa in cui dichiara piena fiducia nelle forze dell’ordine, chiama il ragazzo della figlia Cody e il suo migliore amico Guy per affrontare la Mad Gear Gang a suon di tubi di ferro, piledriver e rotazioni veloci su sé stesso, sperando che nei bidoni dell’immondizia ci siano abbastanza tacchini arrosto per sostenere lo sforzo.


Tutto nacque perché bisognava cavalcare il successo di Street Fighter e lanciare sul mercato un nuovo titolo simile, tanto che inizialmente il gioco fu presentato col nome di Street Fighter ’89. Poi qualcuno si rese conto che forse il gioco avrebbe reso meglio in un’altra forma.

Final Fight è quello dei tre personaggi con stili differenti, quello grosso, quello medio e quello veloce, quello dove la supermossa ti consuma l’energia per motivi che sfuggono alla biologia umana, dove ci si cura mangiando tacchini interi, dove ogni personaggio col suo vestito ti racconta una storia, ma a te non te ne frega un cazzo perché regna l’uguaglianza e si picchiano tutti: donne (poi trasformate in trans, perché quelli negli anni ’90 li potevi stranamente picchiare), ciccioni, secchi, poliziotti. Dove quasi tutti i nemici più semplici avevano nomi come Axl, Poison, Billy, Slash, Roxy, Sodom, ma il perché lo avresti capito solo dopo qualche anno. L’unico che beccavi a colpo sicuro era quello uguale ad André The Giant, perché erano anche gli anni in cui ti nutrivi a pane e wrestling e tua madre ti aveva cazziato quando ti eri strappato la maglietta, come Hulk Hogan.

Un gioco con un boss atipico: un vecchio in carrozzina che sparava colpi con una balestra, perché picchiare le donne era troppo poco, meniamo pure gli storpi. Per fortuna che poi si rivela un falso invalido, quindi meritevole di fare un volo di 30 piani.

Sarebbe legittimo pensare che la più grande influenza di Final Fight sia I Guerrieri della Notte, che in fondo ha già di per sé una struttura fatta di livelli e nemici ben caratterizzati, invece il merito va in gran parte al film che fu girato dallo stesso regista con i soldi e la fiducia guadagnati proprio con i Guerrieri: Streets of Fire, da noi Strade di Fuoco.

Il film è così calato nello spirito degli anni ’80 che anche il trailer ha la giacca con le spalline.

Anche qua una ragazza viene rapita da una gang (capeggiata da un già allucinato Willem Dafoe), anche qua un tizio deve menare una città fatta di neon e giubbotti di pelle per salvarla. Tizio che guarda caso si chiama Cody, proprio come uno dei personaggi che possiamo scegliere nel gioco. Strade di Fuoco costò 14 milioni di dollari e ne incassò appena 8. Ma un po’ te lo meriti quando vieni pubblicizzato come: “Una favola rock & roll”!

Final Fight però non fu il capostipite, quel premio va a Renegade, gioco dell’86 che per primo introdusse nemici che potevano sostenere danni e lo spostamento in quattro direzioni. A dirla tutta, per me non fu neanche il primo approccio con queste genere; ero già stato svezzato con lunghissime sessioni di Double Dragon, giocato rigorosamente a suon di 200 lire prima e dopo gli allenamenti di judo (avete presente Tapparella di Elio & le Storie Tese? Il protagonista ero io). E non era neppure il primo gioco con protagonisti diversi tra di loro, già in Golden Axe, uscito poco prima, potevamo scegliere tre eroi, cavalcature e c’erano persino le magie.

Final Fight ha preso quanto di buono si era visto fino a quel momento, lo ha esaltato e ci ha aggiunto elementi che lo fecero diventare il canone del genere per gli anni a venire. Un gioco difficile, molto difficile, ma non così tanto da non pensare che forse ce l’avresti comunque fatta con un’altra moneta.

E mentre sullo schermo il tuo alter ego impaurito cercava di spegnere un candelotto di dinamite, tu disperatamente ti rendevi conto che le cinquemila lire erano finite e scorreva il conto alla rovescia.

“Continue?”



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