Com'è il nuovo Dylan Dog
Nuova recensione del numero 401 di Dylan Dog: torniamo a parlare del nuovo inizio dell'indagatore dell'incubo più famoso dei fumetti.
Qui si fanno molti spoiler. Coloro che non avessero ancora letto l’albo possono leggere l’articolo di Lorenzo Barberis, il quale ha già scritto del numero 401 su questa rivista.
Un nuovo inizio
Dylan Dog è ripartito da tre per zero. Un nuovo outfit (barba e trench coat), un nuovo assistente munito di badile che solo lui può comprendere (Gnaghi può dire solo “Gna”), un nuovo passato e molti problemi in più. Dopo lunghi anni di esperimenti sul parco testate di Dylan – dal Color Fest all’Oldboy, dal Pianeta dei Morti alla testata ammiraglia – alla fine è arrivato il cambiamento che molti attendevano (o scongiuravano). La questione interessante è che il cambiamento fonde elementi della tradizione con elementi di novità. Per le questioni editoriali: si ritorna ad avere cicli di storie più lunghi sul solco della tradizione Bonelli, senza contare il rimando nel nuove frontespizio a quello originale di Claudio Villa. Per le questioni relative al personaggio: Dylan è tornato spaccone e inaffidabile come agli inizi e a quanto pare ha più a che fare con Dellamorte Dellamore, a partire dall’assistente e un rimando a un passato in cui ha fatto il guardiano di un cimitero. Inoltre è tornato ad essere più nerd: i riferimenti alle opere di finzione (che anche noi conosciamo) ci permettono di capire cosa pensa del mondo e delle sue storture, oltre a far acquisire alla storia un vago ‘senso di realismo’. Dall’altra le novità solo molte: il logo è cambiato, i cicli di storie avranno una tag ciascuno, la tecnologia fa parte della vita del personaggio (ha anche un indirizzo email e un tablet!), non è mai diventato astemio e i rapporti personali con i personaggi della serie sono cambiati, diventano più pericolosi per la stabilità emotiva e psicologica di un protagonista con la pelle così sottile.
Il Dylan Dog del canone è sparito, facendo fiorire un nuovo personaggio nato dalla crasi tra tutte le anime di Dylan: quello degli studi del personaggio e di strade mai intraprese (vedi Dellamorte Dellamore), quello più ‘noir’ al quale Sclavi stava pensando, quello del canone e quello più recente, il Dylan sconvolto dall’arrivo del demiurgo John Ghost, l’Apocalypse Dylan del mondo ormai distrutto. Dylan rinasce dalle sue ceneri. In questo modo possiamo – quindi – mettere in prospettiva il ‘ciclo della meteora’. La debole continuity della maxi-saga serviva a mostrare come Dylan potesse essere messo davanti a più problemi, a più difficoltà e a vedere come il personaggio potesse reagire davanti al mondo che sta finendo. L’intento è stato quello di creare in laboratorio quello che sarebbe arrivato dopo: il ciclo della meteora è stato un prototipo (ancora troppo romantico) del Dark Age Dylan. Senza dare troppo nell’occhio, tutto quello che vediamo adesso nel numero 401 era già in nuce in tutti gli esperimenti fatti in questi anni.
L'Alba Nera
Nel numero 401 Dylan Dog ha appena messo in piedi l’attività, Bloch è stato promosso e Carpenter e Rania (ex moglie di Dylan) gli stanno alle costole. Solo che in questo universo Carpenter è molto più mansueto della sua collega (e amante). Gnaghi ripete solo “Gna” per tutto il tempo (con una leggera sfumatura anche “Gna!”) e il primo caso di Dylan si ripresenta alle porte. Sybil Browning ha ucciso suo marito, ma era uno zombi. Quindi citofona a casa dell’Indagatore dell’Incubo. Il primo albo di questa nuova serie non si conclude – però – nel giro delle canoniche 94 pagine: il racconto si è dilatato e dovremo aspettare il prossimo numero per vederne la fine.
Recchioni, scrivendo questo albo, si è anche ingegnato per smontare alcune scene e alcune sequenze della storia originale, L’alba dei morti viventi, per riattaccarle in altri posti: per efficacia e coerenza narrativa. La cosa che salta più all’occhio è che Recchioni, almeno nella prima parte questa storia, si è reso quasi invisibile all’interno della scrittura. Una volta modificato il personaggio, adesso bisogna solo scrivere le storie al suo servizio. Il tema è che non bisognerebbe scambiare i riferimenti culturali che Dylan fa all’interno dell’opera, per riferimenti extra-testuali visti come strizzate d’occhio superflue. Per capire questo basta leggere il Dylan Dog di Tiziano Sclavi.
Gli ultimi numeri del ciclo della meteora aveva un carattere piuttosto celebrativo: dovevano celebrare il mito e la fine di un universo. Per un nuovo inizio, però, ci devono essere naturalmente altre regole. Recchioni sembra aver interiorizzato una scrittura più rigorosa, forse frutto dell’esperienza delle storie di Chanbara, l’apice della scrittura dello sceneggiatore. Un altro strumento che Recchioni gestisce con consapevolezza è l’uso della vignetta alla fine di ciascuna tavola. Ogni pagina termina con un discorso lasciato in sospeso, con un’espressione interrogativa di un personaggio, con un’azione non ancora completata. Questo spinge a voltare la pagine per scoprire cosa succederà. Non solo: questo stratagemma di scrittura permette anche di gestire meglio (e indirettamente ) il tempo di lettura, che diventa così più ritmato. Il tempo di lettura di L’Alba nera è molto simile a quello di L’alba dei morti viventi: si legge tutto d’un fiato e in meno di mezz’ora.
Come mezzo di montaggio delle scene c’è, però, un ulteriore caratteristica della scrittura di Recchioni (che già ha usato in precedenza anche su Dylan): la sequenza di tre vignette a figura intera in un cui un personaggio interagisce con un contesto o con un oggetto e compie diversi gesti di un’unica azione, come se un unico gesto venisse spezzato in più parti e sulla stessa linea di lettura. Questa non è solo una cifra stilistica ma un ulteriore tassello nella gestione del tempo e della pagina, che conferisce più dinamicità alla lettura, dando l’impressione che ogni sequenza (nessuna esclusa) sia effettivamente in movimento.
La sceneggiatura è stata resa per immagini da Corrado Roi. Il disegnatore predilige le ombre e i giochi di luce. In questa storia spicca il modo in cui ha gestito una luce, diciamo così, espressiva. Le luci e le ombre, i tagli e le sfumature netti di nero assoluto, rendono l’atmosfera claustrofobica e fluida al tempo stesso. Roi ha saputo, inoltre, gestire al meglio la recitazione e l’espressività dei personaggi, costringendo il lettore a non potersi distrarre neanche per un secondo. Se si perde di vista un segno sulla pagina, si perde una quantità di informazioni notevole: un segno in meno sul volto di un personaggio ucciderebbe l’intera atmosfera della storia e sarebbe impossibile comprendere la psicologia dei personaggi e le loro reazioni davanti alle azioni degli altri.
Roi gestisce al meglio il disegno del fumetto: la bellezza del tratto non sta nel suo essere ‘decorativo’ ma solo efficace. L’economia della quantità di segni sulla pagina rispetta il meglio della tradizione fumettistica. Il disegno (la rappresentazione) e le storie inventato mal si fondo – sempre – con la pretesa del realismo. Roi lo sa bene: la ricerca del disegnatore sulla pagina non c’entra nulla con quella che i più chiamano ‘sintesi’, ma con l’efficacia dell’espressività e dell’allusione. Questo si dice a riprova del fatto che ad oggi, in Italia, il fumetto sia l’unico campo dell’arte figurativa che sia ricco di esperienze così uniche e consapevoli della potenza delle immagini.
E poi sì, la copertina di Gigi Cavenago è stupenda, ma su questo non ho niente da aggiungere.