Zero, una serie Netflix perfettamente normale e necessaria
Zero è la nuova serie Netflix italiana, incentrata su un ragazzo afrodiscendente con il potere dell'invisibilità. Ecco perché è imperdibile.
Dovremmo pensare con più attenzione quando usiamo la parola “novità”, perché dire che qualcosa è nuovo non coincide con dire che è buono, e magari non è neanche effettivamente una novità, a ben vedere… Ecco, ce lo siamo tolto dall’organismo, ora possiamo parlare di Zero.
Per la serie Netflix arrivata sulla piattaforma il 21 aprile userei altri aggettivi, ovvero “importante”, “rilevante”, “necessaria”. Lo show è ispirato al libro Non ho mai avuto la mia età di Antonio Dikele Distefano, qui anche ideatore, e racconta la storia di Omar, nome in codice Zero. Omar vive nel quartiere (fittizio) del Barrio, nella periferia di Milano, insieme a padre e sorella. Un giorno scopre di poter diventare invisibile e si troverà coinvolto nel salvataggio del quartiere dalla gentrification, con un gruppo di nuovi amici, un amore complicato e un sacco di misteri da scoprire.
La serie fa un buon uso del superpotere come metafora, ribaltando le conseguenze dell’invisibilità sociale e trasformandolo in uno strumento di rivalsa. I personaggi sono ben costruiti, realistici e dinamici, il ritmo tiene alta l’attenzione e il finale ci lascia con la voglia di saperne di più, quindi l’operazione può dirsi ampiamente riuscita. Certo, il formato degli episodi (8 da circa 20 minuti l’uno) predilige la scorrevolezza a discapito di transizioni narrative solide, quindi ogni tanto sembra di correre senza aver dedicato sufficiente tempo al gran numero di spunti, ma in sostanza Zero è divertente e godibile, con una regia pulita, colori pop alla Netflix e una storia su cui vale la pena investire.
Come mai a Antonio Dikele Distefano viene l’orticaria quando sente pronunciare la parola “novità”? Perché di Zero si parla proprio in termini assoluti di atipicità, dato che i protagonisti della sua storia sono ragazzi neri, afrodiscendenti di seconda generazione. Lo stesso Dikele Distefano si sente chiamare “nuovo italiano” dal 1993 e giustamente a quasi 30 anni si sarebbe un po’ scocciato di pascolare nel recito di “gli altri”, come se l’italianità non fosse anche sua di diritto. Ecco perché la crew di Zero ci tiene tanto a parlare di normalità e di normalizzazione, perché le loro vite e le loro facce nella storia italiana non sono nuove per niente. Si parla comunque di un cast e di un focus narrativo splendido e necessario, a lungo atteso e finalmente arrivato, evviva, quindi è una vittoria, una conquista, una riappropriazione, non una novità (anche se di vittoria vera parleremo quando sarà a maggioranza nera anche il cast tecnico, la regia, la produzione ecc…)
Zero è un importantissimo passo verso la rappresentazione autentica dell’Italia, un passo che non a caso segue orme netflixiane di esplorazione della narrazione di genere. Come già Luna Nera e Curon, Zero utilizza infatti l’elemento fantasy/soprannaturale per raccontare storie quotidiane, perfettamente umane, familiari, si potrebbe dire normali. Zero non ha da salvare il mondo, ma un quartiere, il suo microcosmo. Lo fa grazie alla collaborazione e alle sue emozioni, ma pare proprio che qualcosa di più grande del Barrio sia già in attesa subito oltre il finale di stagione.