Turismo e videogiochi: The Last of Us
Si può essere turisti in un videogioco? L'esperienza videoludica può essere paragonabile a quella di un viaggiatore? Un'analisi tramite The last of us
The Last of Us è stato il primo videogioco che ho provato su PS4. L’ho completato due volte di fila. La seconda volta soprattutto per scattare fotografie in giro per l’ambiente di gioco – per quanto la definizione di “gioco” stia molto stretta a un’esperienza come TLOU.
Era anche la prima volta che testavo la modalità foto della PS4. Mi sono divertito molto – direi come un turista – a esplorare questo “bellissimo mondo devastato da una pandemia”, per citare quanto riportato sul retro della confezione. E turisti, in effetti, vengono definiti i disperati che si avventurano nelle zone di quarantena sparse per l’America settentrionale di TLOU.
Sono sempre più convinto che quella del turista sia la condizione primaria di ogni videogiocatore, specie quando parliamo di giochi che presuppongono un minimo di esplorazione. Vai alla scoperta di un mondo che non conosci, o che conosci da foto e video visti in rete. Pian piano entri in dialogo con l’ambiente circostante, all’interno del quale ti muovi prima con cautela e poi con maggiore sicurezza, soprattutto una volta compreso come rapportarti con chi, ostile o meno, abita quei luoghi.
Nel frattempo puoi contemplare il paesaggio, cercare l’inquadratura migliore per una foto da mostrare agli amici, o anche solo fermarti a pensare se non sia più giusto limitarsi a vivere quel momento, piuttosto che immortalarlo.
È ciò che succede a tutti noi quando siamo in viaggio.
Per quanto possano apparire sinonimi, due termini come “viaggio” e “turismo” non sono completamente sovrapponibili. Semplificando, potremmo dire che il turista è sempre un viaggiatore, mentre non è detto il contrario. Si può essere viaggiatori per caso o costrizione (penso ai migranti), mentre si sceglie di essere turisti (e si sceglie la meta di destinazione).
Ad esempio io ho scelto di viaggiare all’interno di TLOU, mentre non si può dire lo stesso dei suoi protagonisti Joel ed Ellie, costretti alla fuga per sopravvivere. Come un turista, inoltre, avevo delle aspettative verso i posti in cui sarei andato, aspettative relative al fatto che li avevo già visti in rete (recensioni, foto e playthrough: come prima di prenotare un albergo o un bnb).
Altra differenza, non meno sostanziale: non sempre il semplice viaggio contempla il racconto (durante o a posteriori). Se l’esperienza è stata poco piacevole o addirittura traumatica, l’intero viaggio o alcune sue parti possono essere omesse o rimosse: non tutti i migranti, ad esempio, hanno voglia di raccontare le parti più difficili o brutali del loro cammino, così come non è detto che Ellie abbia raccontato a Joel tutti i dettagli del suo incontro col cannibale David.
Al contrario, non è esagerato dire che il turista viaggia soprattutto per raccontare. Se pensiamo ai travel blogger, il racconto diventa addirittura un lavoro e soprattutto un’attività istantanea, da comunicare in tempo reale a un pubblico di riferimento.
Riassumendo: io, che ho scelto di visitare i luoghi di TLOU, verso i quali avevo delle aspettative, sono qui a raccontare il mio tour mostrando le foto di questo viaggio: questo fa di me un turista. E cos’ha rappresentato questo viaggio dentro TLOU? La possibilità di essere altro da me per qualche giorno. Ecco un altro punto di contatto tra videogiochi e turismo.
È chiaro che parlare di turismo a proposito di TLOU può suonare strano, a meno di non fare riferimento a una forma di turismo piuttosto specifica e morbosa come il turismo cosiddetto dell’orrore.
La componente survival horror del gioco e i suoi paesaggi devastati non devono però trarre in inganno: al centro di TLOU, come sappiamo, c’è soprattutto il rapporto tra un padre in lutto, Joel, e la piccola Ellie che viaggia con lui – al massimo, ma impropriamente, si potrebbe definire quello di TLOU turismo medicale, visto che i due sono alla ricerca di un vaccino.
È pur vero che l’idea del turismo come esperienza rilassante, ludica o culturale, in ogni caso legata al consumo, è relativamente recente. Ancor più recente è l’idea di andare per luoghi preconfezionati e rassicuranti, in cui ogni momento del tour è programmato al millesimo di secondo.
Il turismo, sia di massa che d’élite, è pur sempre turismo popolare, se pensiamo al fatto che fino a qualche secolo fa il viaggio programmato era appannaggio di pochi uomini al mondo. A cosa servivano i grand tour dei giovani aristocratici nell’Europa continentale del XVII secolo? Semplicemente, a conoscere. La conoscenza in sé non è un’esperienza necessariamente piacevole.
Quei tour si facevano in luoghi sconosciuti o quasi. Si poteva incontrare di tutto sulla propria strada: il sublime, lo strano, il perturbante. Anche l’orrore. Il mondo non era ancora stato mappato del tutto. Per fare un esempio, viaggiare nell’Italia dell’epoca poteva riservare molte sorprese: la bellezza di città come Firenze o Roma, la miseria del centro e del sud Italia, l’asprezza eterna e conturbante delle isole. A seconda del tour, si facevano i conti con climi completamente diversi, lingue inascoltabili, paesaggi tanto incredibili quanto improvvisamente ostili.
Tutto sommato, e nonostante oggi sia un’esperienza molto più apparecchiata e mediatizzata, viaggiare si porta ancora dietro il fascino dell’imprevisto, dell’ignoto. Col tempo, anche le esperienze più spiacevoli capitate nel corso di una gita si raccontano con maggior piacere (anche per chi ascolta, a dirla tutta) rispetto alle tappe di un viaggio filato fin troppo liscio.
Tornando all’orrore, il gioco di parole può suonare scontato: ma quanto si assomigliano orrore ed errare, con tutto il carico di ambiguità che si porta dietro quest’ultima parola? E proseguendo coi giochi di parole: quanto è vero, se pensiamo a TLOU, che horror humanum est?
Perché l’orrore, nel gioco, è interno, non esterno. Ha poco a che fare con gli ambienti e i paesaggi, e molto con ciò che è in grado di compiere l’uomo in uno stato di disperazione e privazione quasi assoluta. È all’interno dell’animo umano, che si annida l’orrore di TLOU.
Di contro, fermarsi a osservare la natura che si riaffaccia nelle città abbandonate può rivelarsi quasi rinfrancante, dopo uno scontro con gli infetti o con le bande dei cacciatori. Persino le esplosioni fungine che fioriscono sui muri delle abitazioni iniziano ad assumere un certo fascino, per quanto osservate alla luce di una piccola torcia. Hanno qualcosa di artistico, di quel tipo d’arte naturale che ci meraviglia perché sembra esprimere una volontà estetica, dunque una soggettività.
È questo senso di meraviglia – che soprattutto nel finale assoceremo alla piccola Ellie – a tenerci a galla nel corso del gioco, a farci andare avanti nonostante la brutalità e la violenza degli esseri umani.
Erbacce, rampicanti, pozze d’acqua che allagano edifici, animali esotici che scorrazzano liberi: alla lunga, la rivincita della natura ci fa ridefinire il concetto di fine del mondo. Non a caso, la pandemia che ha estinto il 60% della popolazione mondiale si deve a un fungo particolarmente aggressivo, non a qualche strano virus messo in giro e sfuggito al controllo dell’uomo. La fine del mondo del ventennio 2013-2033 raccontata da TLOU è semplicemente la nostra fine, la fine della contemporaneità, “voluta” dalla natura.
Contemporaneità che viene riesumata soprattutto negli interni, dettagliatissimi, e negli oggetti che incontriamo nel corso del nostro viaggio. Vecchi hotel abbandonati, baite, abitazioni di gente comune in cui troviamo musicassette, poster, fumetti – tutto l’immaginario di un mondo che non c’è più e che però è ancora quello presente del videogiocatore.
Persino i Jersey, le barriere di calcestruzzo che troviamo in giro per Salt Lake City, rimandano al nostro presente di terrorismi urbani e cessione di libertà in cambio di sicurezza, se vogliamo. Questi rimandi non fanno che operare sull’effetto nostalgia che permea alcuni momenti di TLOU. E la nostalgia come specchio deformante, che migliora sempre il passato e peggiora in automatico il presente, è un altro tratto tipico di ogni viaggio da turisti.
Allo stesso modo dei posti che ho visitato nella cosiddetta vita reale, ho la sensazione di essere stato davvero nei luoghi di TLOU, così come in quelli di tantissimi altri videogiochi. Anche per questi luoghi mi capita di provare nostalgia, come per quelli visti dal vivo. È una sensazione più forte rispetto a quella che si può provare per i luoghi visitati in un libro o in un film: perché in un videogioco siamo noi a muoverci e a relazionarci in prima persona con l’ambiente circostante. L’immersione per diverse ore in un ambiente digitale può fare uno strano effetto.
Ma è per questo strano effetto, più che per una più rassicurante piacevolezza, che viaggiamo e giochiamo.