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The Suicide of Rachel Foster, prendere una stanza nei traumi del passato

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The Suicide of Rachel Foster un viaggio dentro un hotel pieno di ricordi che forse era meglio lasciare alle spalle

“Immersività” è uno di quei concetti tipo “difficoltà” che hanno poco senso se utilizzati come categorie critiche in ambito videoludico, perché inestricabilmente legati all’esperienza soggettiva. Voglio dire che personalmente non ho grande interesse nelle armi da fuoco e sono una capra a mirare, per cui per me Stanlio Kubrick un gioco come Uncharted (senza arrivare agli sparacchini pro) è infinitamente più difficile di un qualsiasi platform megabrutale.

E allo stesso modo dettagli che per qualcuno sono fondamentali per l’immersione – che poi altro non è se non una forma di sospensione dell’incredulità – per me Stanlio Kubrick diventano al contrario ostacoli: più devo stare attento a dove sparo, più devo concentrarmi sull’atto puramente meccanico dello spostare un mirino, più faccio fatica a sentirmi un supersoldato nella giungla del Vietnam.

Con questo non voglio dire che non esistano strumenti più o meno oggettivi per quantomeno provare a spingere sul fattore immersione, quella sensazione vagamente indefinibile non di stare pigiando tasti o spostando un cursore ma di essere effettivamente diventati qualsiasi cosa il gioco in questione voglia farci diventare. Una delle scoperte più gloriose degli ultimi anni è che la sottrazione è un marchingegno potentissimo per l’immersione: elimina il più possibile gli aspetti ludici o puramente meccanici, che costringono il giocatore a ricordarsi di essere un giocatore che deve fare delle scelte o fare azioni, e lascia che sia tutto il resto, l’ambientazione, il guardarsi il giro, quello che raccontano i sensi virtuali, a definire l’esperienza.

Il termine derogatorio per questo tipo di opere è “walking simulator”, un’espressione che al contrario io trovo meravigliosa e della quale sarebbe bello che il genere si riappropriasse: cosa c’è di più bello di passeggiare in giro, guardarsi intorno, scoprire cose? Ci facciamo tante menate sull’importanza dell’esplorazione nei videogiochi intesa come arrivare in cima a torri molto alte per svelare un altro pezzo di mappa, ma se in questo momento usciste di casa e andaste a farvi una passeggiata per il quartiere che cosa stareste facendo se non esplorando (o ri-esplorando, a meno che non siate nuovi della zona)? Camminando ed esplorando, osservando e facendo deduzioni basate su quello che avete davanti agli occhi: è un’esperienza magnifica, ed è completamente gratuita (per quanto ultimamente rischiosetta)!

Il preambolo mi permette di annunciare che The Suicide of Rachel Foster è un walking simulator (un Dear Esther, un Gone Home, un Edith Finch meno interattivo) senza paura che vi venga voglia di chiudere la tab, borbottando qualcosa su questi videogiochi moderni che non sono veri videogiochi. Arriva dall’Italia, il che rende curiosa la scelta di ambientarlo in un hotel del Montana invece che in un B&B della Toscana, ma immagino che la scelta sia un tentativo di de-provincializzarsi, oppure semplicemente i ragazz* di One-O-One Games amano moltissimo il Montana per qualche ragione.

Pazienza, non mi va di cominciare con una polemichetta, perché da persona che ama moltissimo camminare e i videogiochi che simulano quest’esperienza mi sono goduto moltissimo The Suicide of Rachel Foster.

Che detta così suona tremendamente insensibile! D’altra parte è il gioco stesso che non si tira indietro quando si tratta di parlare di cose orribili o di temi delicati. La storia vagamente Shining-esca è quella di Nicole, figlia degli ex proprietari dell’hotel Timberline (lo stesso nome dell’hotel dove sono stati girati gli esterni del film di Kubrick) che torna tra i monti per un’ultima perlustrazione nell’edificio di famiglia prima di venderlo.

Come spesso capita nei walking simulator, il viaggio è l’occasione per fare i conti con il proprio passato: isolare il giocatore in una location e fargli scoprire la storia a botte di ricordi è un ottimo modo per non forzare i tempi e anche per risparmiare sulla creazione di modelli umani, potendo così concentrare tutti gli sforzi sulla creazione dell’ambientazione. E quindi TSORF è un viaggio all’interno dell’hotel Timberline, stanza dopo stanza, piano dopo piano, nell’arco di una manciata di giorni durante i quali Nicole scopre passo dopo passo la verità su quello che è successo anni prima.

Perché a parte essere uno studio d’atmosfera e una goduria per gli appassionati di design d’interni – l’hotel peraltro è aperto ed esplorabile quasi nella sua interezza e quasi da subito, il che significa che se siete persone tipo me la vostra prima giornata durerà ore e ore, passate a esplorare ogni angolo del posto rovinandovi così anche qualche sorpresa lungo il tragitto –,The Suicide of Rachel FosterORF è anche una storia di Grandi Temi e di Brutte Cose. La spalla narrativa è Irving, una voce disincarnata che è in costante contatto con Nicole tramite telefono e che la accompagna nella sua esplorazione e le fa compagnia durante i momenti di solitudine causati dal fatto che appena Nicole arriva all’hotel porta con sé una tempesta di neve che taglia ogni contatto con l’esterno Irving escluso.

È un po’ la stessa dinamica di Firewatch, con più mistero e la costante sensazione che Irving sappia più di quanto lasci trapelare riguardo al suicidio che dà il titolo al gioco; non sto a spiegarvi chi fosse di preciso Rachel Foster e cosa c’entri con Nicole, vi basti sapere che oltre al suicidio si parla anche di disabilità e di pedofilia.

E infatti TSORF non si fa nessun problema a virare decisamente in territorio horror quando serve, anche grazie a un sound design stellare che rende quasi obbligatorio l’uso di un paio di cuffie. C’è il problema che in un paio di momenti lo fa senza troppa sensibilità, più interessato allo shock factor che a quello che sta effettivamente raccontando, e c’è in particolare una questione che viene trattata con troppa leggerezza e mai problematizzata quanto meriterebbe.

Non riesco comunque a vederla del tutto come una cosa negativa: significa almeno averci provato, qualcosa che, in un mondo come quello dei videogiochi che su certe robe è ancora timidissimo, è comunque lodevole.

Più di tutto però The Suicide of Rachel Foster funziona perché è facile entrarci: l’hotel gronda di dettagli (e persino di scorciatoie e passaggi segreti), è visivamente lussuosissimo e soprattutto logico, un luogo dove è facile orientarsi perché avrebbe senso anche se trasportato nella realtà.

Come da tradizione del genere non c’è molto da fare se non andare in giro e seguire le briciole di pane lasciate dagli autori per poi guardarle e scoprire che sono pezzi di puzzle e improvvisamente un sacco di cose acquistano un senso; per cui se appartenete al gruppone di coloro che “senza un combat system non provare nemmeno a chiamarlo videogioco” forse è meglio se girate alla larga. Se invece no, venite a godervi il Timberline, così poi parliamo di un paio di cosette.

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