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The Last of Us - recap finale

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The Last of Us arriva al finale col suo carico di domande, rabbia e scelte che non per forza devono avere una risposta.

Ed eccoci dunque alla fine di The Last of Us, sarà una lunga attesa, adesso.

 

C’è un termine che usiamo noi che ci riempiamo la bocca parlando di videogiochi, si chiama “dissonanza ludonarrativa”. In soldoni è quando ciò che stai giocando va da una parte e quello che ti stanno raccontando va da un’altra.

 

Un classico esempio sono i giochi di ruolo, di solito quelli giapponesi, dove la grande minaccia di fine del mondo cozza con il fatto che puoi serenamente passare del tempo a pescare o aiutare una nonnina a ritrovare il suo gatto. Qualcuno potrebbe dirti che sono i piccoli gesti che salvano il mondo, altri che questa cosa non ha senso.

 

Sulla dissonanza ludonarrativa ci scherza proprio Naughty Dog nella saga precedente a The Last of Us, Uncharted. Il protagonista era un "buono", una sorta di tombarolo dal cuore d’oro modellato su Indiana Jones e gli eroi d’azione di un tempo che però si lasciava alle spalle una pila di cadaveri così alta che ci potevi riempire un paesino. Così quando ammazzavi 1000 nemici sbloccavi l’achievement “ludonarrative dissonance”.

Ma questa dissonanza può essere anche un contrasto fra ciò che il giocatore vorrebbe fare e ciò che gli autori hanno deciso che deve fare. Non tutti i giochi hanno sistemi morali o di danno una scelta, a volte devi semplicemente fare quella cosa là se vuoi andare avanti. E di solito “quella cosa là” è pensata per creare in te un certo senso di disagio, fastidio, se non addirittura orrore.

 

In film e serie tv di solito questa cosa è il classico momento in cui ti ritrovi di fronte allo schermo a insultare gli attori o gli autori perché i protagonisti fanno qualcosa che non vorresti. Nei videogiochi devi fare quella cosa è ciò rende tutto molto più potente.

 

Quest’ultimo episodio di The Last of Us ci porta infine al cospetto della bussola morale di Joel, una bussola che per gli ultimi vent’anni è stata traumatizzata, pestata e gettata in un angolo finché non è arrivata Ellie a ripararla come fu per il suo orologio rotto. Quella bussola adesso punta dritta verso di lei e non vede nient’altro.

Il confronto finale è tra la conclusione di due apocalissi, quella globale, nell’eventualità di una cura e quella personale, del microcosmo di Joel e la sua voglia di allevar pecore, cercando di essere (ancora) il padre di una ragazza che non ha mai visto il suo e la cui madre vediamo nel flashback iniziale (per chi non conoscesse il gioco, sua madre è interpretata dall’attrice che ha dato voce e corpo alla Ellie digitale, così come il tizio che si prende la mannaia nel collo dell’episodio precedente è stato Joel).

 

Ho parlato spesso di specchi e bilanciamento delle strutture in The Last of Us e anche questo episodio ha una sua certa simmetria. Se escludiamo infatti la parte centrale nell’ospedale, prima e dopo c’è Joel che cerca di tirare su Ellie e strapparla dal mutismo dei traumi e dell’elaborazione. Solo che anche in questo caso gli specchi sono deformanti perché il Joel della prima parte, quello delle battute, della tanto attesa scena con le giraffe e della confessione sul tentativo di suicidio non è il Joel che cerca di fare il brillante sul finale.

Nel mezzo è andata in scena la lotta tra le apocalissi, e ha vinto la sua.

The Last of Us è una serie che ama sorriderci prima di darci un calcio nei denti e tutta la parte dell’arrivo in città è una sorta di giro d’onore per celebrare il viaggio compiuto. Più rivedo le scene dell’arrivo in città fino alle giraffe, con Ellie che cita Joel e chiude il cerchio, più sento che qualcosa non va come dovrebbe. Jole è allegro, scherza, parla di suonare la chitarra, Ellie è in pieno stress post traumatico, è taciturna, rimugina, vaga con la testa.

 

Si sono scambiati i ruoli, è come se Joel tutto sommato si fosse liberato di un fardello, mettendolo sulle spalle di lei. Io ho trovato il mio motivo di vivere, sei tu, adesso trova il tuo.

 

Poi, per fortuna, arrivano le giraffe, ma nel cuore di Joel già macera l’idea che forse tutto questo viaggio non ha senso perché in fondo quello che dovranno salvare non è un gran mondo. Ma torniamo al punto di prima: lui ha trovato la sua nuova motivazione, ma per quanto sia una persona amorevole non si rende conto dell’egoismo che questo comporta. Per non turbare la sua pace propone a Ellie di non trovare la sua e di tornare indietro.

Ma prima di finire bisogna chiudere un altro conto, quello coi non detti del passato. Conosciamo già quelli di Ellie, perché li abbiamo visti due puntate fa, e abbiamo intuito quelli di Joel, ma la cicatrice del suicidio rappresenta l’ennesimo piccolo ma fondamentale elemento nella riscrittura rispetto al videogioco e nell’assestamento del personaggio verso una esplicitazione maggiore dei suoi non detti.
La rivelazione del suo tentativo di suicidio dopo la morte della figlia di per sé non aggiunge più di tanto a un personaggio che era già pieno di traumi e rimozioni. Certo, ne evidenzia una (comprensibile) fragilità, ma serve soprattutto da trampolino per la frase successiva: l’implicito ringraziamento a Ellie per aver curato le sue ferite emotive.

 

In un certo senso il finale della relazione tra Ellie e Joel si trova qui. Tutto ciò che è successo, le morti, le lezioni di tiro, il salvarsi reciproco, il progressivo indurimento di lei e l’aprirsi di lui arriva a destinazione in questo momento.

 

Il resto è già un avvelenamento del loro rapporto che apre, oggi lo sappiamo, all’epoca no, a ciò che succederà dopo.
Parlavo all’inizio di dissonanza ludonarrativa, di quando azioni e narrazione stonano, ma in alcuni giochi narrativi c’è il preciso intento di mettere chi gioca in situazioni potenzialmente spiacevoli ed entrambi i The Last of Us lo fanno senza problemi.

Il massacro nell’ospedale vissuto da giocatore è un momento in cui puoi avvertire un senso di fastidio, ma la vicinanza ludica col personaggio e il bisogno di portare avanti la propria missione tutto sommato me lo fecero vivere come un momento necessario. Il grande trucco dei videogiochi è proprio la vicinanza e l’impulso all’azione maturato dopo ore e ore di gioco. L’alternativa era non finire il gioco. In fondo, non è che se vuoi salvare Ellie sei un mostro, magari vuoi semplicemente sapere come va a finire.

 

Nella serie il massacro di Joel viene fuori in tutta la sua cinica, meccanica brutalità fatta di esecuzioni a sangue freddo, coltellate e proiettili. A margine, è anche una scena girata molto bene in cui, in qualche modo, il Joel videoludico e invincibile perché comandato da noi (che alla peggio ricarichiamo il salvataggio) si sovrappone col Joel fisico dotato di “plot armor” e capace di sbaragliare un battaglione intero di soldati esperti.

 

È assurdo e assolutamente videoludico, ma anche brutale per una serie in cui ogni uccisione ha pesato tantissimo fino ad ora.
Sulla scelta di Joel una cosa mi sento di dirla: la serie la rende più facile proprio per la carenza di infetti che lamentavo la volta scorsa. Il mondo del gioco è assediato dal cordyceps e decidere di non sacrificare Ellie per la speranza di una cura è una scelta quanto meno opinabile.
Il mondo della serie ci ha mostrato molta più umanità mostruosa che mostri, è un mondo che probabilmente non abbiamo voglia di salvare. Di sicuro non vuole salvarlo un uomo che ha appena trovato il centro dopo vent’anni di sofferenza.

 

Quindi, sì, la scelta di Joel è umana, egoistica e si nasconde dietro il finto pretesto di far scegliere Ellie, ma qua tutto sommato ci appare quasi condivisibile. Detto questo: non credo se ne esca con una semplice visione di "giusto/sbagliato", altrimenti non faremmo un bel servizio a un'opera che ci parla proprio delle gigantesche zone di grigio in cui conviviamo e come queste cambino in base al punto di vista.

 

Davvero, in tutto il loro cammino, abbiamo visto qualcosa che valesse la pena salvare?

 

Nel riscrivere la storia sembra che Druckmann sia stato mosso da due impulsi: rendere tutto molto più chiaro per quanto riguarda la natura ferale e a volte disumana di Joel, e quindi un personaggio degno di punizione come tutti, renderlo però anche molto più “giustificato” mostrandoci le sue fragilità, il tentativo di suicidio e il legame indissolubile con Ellie, legame in cui palesemente adesso è lui ad avere un disperato bisogno di lei.

 

Perché gli uomini come lui devono tenersi strette le persone da proteggere, come recita la lettera di Bill.
Ovviamente a questo contribuisce la scelta di Pedro Pascal, un attore capace di lavorare perfettamente sia sul registro gentile e paterno sia sulla brutalità.

La sua più grande prova attoriale in questo finale però secondo me arriva dopo, in quello specchio deformante che vi dicevo prima. Esattamente come nel momento prima delle giraffe Joel è ciarliero, Ellie è più zitta, per colpa anche dell’anestesia e di qualcosa che le si agita dentro. Solo che qua Joel parla, parla tanto, parla troppo, parla della figlia.

 

Parla come parlano le persone colpevoli, che per paura di ricevere le domande giuste riempiono i silenzi con aneddoti, condivisione eccessiva di momenti personali, parole nervose. Non è il Joel che ci sta per raccontare di essersi suicidato e di aver trovato il suo centro, è un Joel che sta dissociando mentalmente da ciò che ha appena fatto.

 

Ma alla fine la domanda arriva comunque.

Se ne è parlato per anni tra i giocatori della risposta a quella domanda, di Ellie che forse crede, forse decide di credere per non poter gestire le implicazioni di quella scelta. Forse uno dei momenti più interessanti e sospesi in un settore, quello dei videogiochi, che ha spesso un disperato bisogno di “closure”, sennò la gente non capisce. Un morbo che il mondo intero della cultura pop sembra aver contratto in questi anni di “spiegato bene” che hanno fatto la fortuna di decine di video e articoli dove qualcuno vi deve raccontare il finale, stirare ogni piega della narrazione perché se non capiamo ci incazziamo o abbiamo paura di fare la figura dei normaloni di fronte agli amici nerd.

 

E invece che bello che finisca così. Volete la risposta a quel dubbio? Non c’è, non ci deve essere. Avere una risposta non è sempre la risposta.

 

I terreni troppo stabili creano storie noiose.
Adesso sarebbero belle due cose: che un po’ di gente che ha scoperto The Last of Us con la serie si rendesse conto che i videogiochi sono potenti mezzi di storytelling e che si possono fare molte cose se li usi bene.

 

E l’altra cosa, visto il successo della serie, è renderci conto che i review bombing, le lagne sul politicamente corretto e compagnia cantante hanno spesso un impatto così marginale che siamo noi a dargli importanza e non dovremmo farlo.

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