STAI LEGGENDO : The Last of Us 8 - Recap

The Last of Us 8 - Recap

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The Last of Us arriva all'ottavo episodio con un racconto forse un po' compresso ma ricco di simbologie e temi fortissimi

Mi piace iniziare queste analisi raccontando un po’ i meccanismi videoludici a chi non ha giocato o non ne ha dimestichezza e la parte di The Last of Us a cui fa riferimento questo capitolo è un classico di molti giochi narrativi: la sezione in cui interpreti qualcun altro.

 

Se i videogiochi, oltre a essere una nuova forma di testo, posso essere anche corpi che abitiamo temporaneamente e con cui stringiamo un legame, può capitare che quei corpi vengano sostituiti temporaneamente per esigenze narrative e ludiche.

 

Ad esempio, nei flashback, magari con i protagonisti più giovani, oppure può capitare di interpretare personaggi più deboli o con abilità differenti. La funzione è duplice: ti racconto qualcos’altro e nel frattempo vario un po’ il gameplay.

La parte in cui Joel è ferito in The Last of Us serve a farci vivere un po’ nei panni di Ellie, sia per farci percepire il suo straniamento, improvvisamente è là fuori, da sola, con a disposizione solo ciò che ha imparato da Joel, sia per mostrarci quanto Ellie ha effettivamente imparato lungo il cammino e quanto sia pronta a diventare coprotagonista vera, non solo fardello (se pensiamo poi al secondo capitolo, questo è ancora più vero).

 

Nella serie questo si traduce in un obiettivo puntato su Ellie, non quella del passato, ma la attuale, una ragazza che di fronte ai nostri occhi si è trasformata sempre di più, di cui conosciamo il vissuto, i traumi, il desiderio di legami e che adesso è al centro di tutto mentre Joel giace febbricitante in una casa abbandonata. Adesso tocca a lei.

 

Quello che vediamo per tutta la puntata è una persona che ha saputo ascoltare e ha fatto tesoro di ciò che suo padre putativo le ha insegnato. Respirare con calma prima di colpire, non dare mai troppe informazioni, fare attenzione ai segni e alle tracce per anticipare eventuali attacchi, prendersi cura degli altri. Joel qua si limita a fare ciò che sa fare meglio, sopravvivere con un coltello, una spranga e la sua brutalità.

Insomma, è un altro gioco di specchi, ma stavolta si moltiplicano perché se Ellie si specchia in Joel, anche David in qualche modo si accosta a lui come immagine deformata (e anche a Kathleen) di persona che in qualche modo è disposta a tutto pur di prendersi cura degli altri. Ma la sua “cura”, mescolata al paternalismo religioso sfocia in due cose che anche nell’ora più buia non riusciamo a tollerare: il cannibalismo e la pedofilia.

 

David è senza dubbio il cuore nero della puntata, il simbolo di quanto la serie spesso prenda i sottotesti del gioco e li renda palesi. Faccio un banale esempio: tutta la questione religiosa nel gioco è soltanto accennata dallo striscione che si ritrova nella sala comune in cui ha luogo lo scontro finale. Lo stesso vale per l’attrazione di David verso Ellie.

 

È un po’ lo stesso trattamento ricevuto dall’omosessualità di Bill: quando c’è stato da tornare sulla storia Druckmann e Mazin hanno preso ogni elemento sfuggente e ambiguo che magari avrebbe fornito troppi elementi al giocatore e li hanno portati all’estremo per appoggiarci sopra ciò che comunque funzionava molto bene.

D’altronde David incarna perfettamente la fascinazione tutta americana per una serie di archetipi: i leader religiosi cristiani fondamentalisti che si rifanno alla bibbia e che rappresentano una parte importante di un certo tipo di America nata dai pellegrini.

 

Questo si lega anche al fenomeno, molto americano dei culti, dei leader carismatici, e in qualche modo anche all’uso che quei leader facevano degli altri e dei corpi delle loro “protette”. David è un manipolatore molto classico che mescola violenza, dolcezza, bastone e carota, speranza e inevitabilità per mantenere il controllo sugli altri. Un controllo che cercherà di esercitare anche su Ellie, fallendo, e per questo innescando il desiderio finale di stupro, l’ultima forma di controllo.

 

Poi c’è la figura dei cannibali, che in questo caso sono mossi da necessità e in parte inconsapevoli, ma in qualche modo anche si legano ai temi religiosi e simbolici del corpo mangiato e dato in pasto al gregge.

Sia come forma di continuità sia come perverso sistema di controllo e punizione degli altri. In questo la scena dove David schiaffeggia la ragazza che vorrebbe uccidere Ellie, ricordandole che ora deve rispettare lui come padre, per poi darle in pasto il padre stesso è abbastanza agghiacciante.

A fianco continua a scorrere forte il tema principale di The Last of Us: le spirali di vendetta, le zone grige, l’impressione di parteggiare per Ellie e Joel semplicemente perché è quella che seguiamo. Il motivo per cui Joel ed Ellie vengono braccati dai cannibali non è solo legato all’attrazione di David ma anche per vendicarsi dell’uomo ucciso alla fine di due puntate. Se “tutto accade per un motivo” districarsi in questo mondo vuol dire vivere una complessità in cui ogni scelta, anche la più giusta, porta con sé un reticolo di conseguenze.

 

Un tema che Naughty Dog ha maturato maggiormente nel secondo capitolo del gioco e questa rilettura ne porta le conseguenze.

 

Ogni morto conta.

 

A parte la forza dei temi cardine dell’episodio spinti al massimo, questa è forse una delle puntate più fedeli al videogioco di The Last of Us, esclusa una sezione iniziale in cui David e Ellie devono collaborare contro un’orda di infetti. Questo mi ricorda che, se proprio devo trovare un difetto, continuo a sentire la mancanza dell’elemento mostruoso, degli infetti, appunto.

Senza dubbio David è un mostro peggiore di ogni bloater e l’interpretazione di David Shepard è magistrale, ma per quanto mi riguarda il cordyceps rappresentava un elemento importante e alieno di cui forse si è deciso di fare un po’ troppo a meno, per esigenze di racconto e budget che posso anche capire, ma che in qualche modo tolgono peso al ruolo di Ellie come salvatrice dell’umanità e alle scelte successive.

 

Facciamo che di difetti ne trovo due: qua la compressione del tempo si sente molto forte, soprattutto nella ripresa di Joel e nelle tante cose che accadono in poco tempo. Ancora una volta Mazin e Druckmann scelgono di condensare in una puntata fatti che in una serie normale avrebbero occupato almeno due puntate. A volte va bene, a volte meno.

 

Parliamo del finale. Non sono un grande fan dello stupro come metodo narrativo per far evolvere i personaggi femminili, ma tutti gli elementi posizionati in questo episodio puntano qua. Come dicevo poco sopra, la parte in cui David imprigiona Ellie e cerca di piegarla usando due armi: la mancanza di speranza e l’elogio, mescolato con il classico “mi ricordi me”, ricevendo in cambio un dito rotto e poi anche un morso è il trigger per scatenare la sua vera natura e culminare in un ultimo tentativo di controllo.

Il tentato stupro finale però, rispetto al solito, ha delle connotazioni narrative più interessanti. Ci mostra quanto effettivamente lo stupro sia più una questione di potere che di piacere (o di piacere attraverso il potere e il controllo), ci ricorda che non riguarda l’aspetto della vittima (e questo viene fuori molto meglio nella serie rispetto all’aspetto più gentile della Ellie videoludica) e stavolta la vittima ne esce da sola (e questa era anche la grandissima forza di quella parte del gioco). Ci ricorda anche la lente con cui si vede lo stupratore, qualcuno che ama, e non c’è paura nell’amore.

 

Questo è l’episodio in cui Ellie mostra ciò che sa fare, che sa cavarsela (e che ci conferma le doti di Bella Ramsey, per l’ennesima volta, ma diamo anche un plauso a Troy Baker, con la speranza di vederlo recitare sempre più spesso), ma anche quello che probabilmente segnerà, insieme alla vicinanza con Joel, il suo sviluppo come essere umano. Quello in cui non si limita a difendersi e fuggire, ma con ogni colpo vendica l’orrore subito.

Per tornare, anzi, diventare, la "baby girl" di Joel, che quel soprannome non lo usava da tanto tempo.

E adesso via, verso il finale.

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