Squid Game rielabora, con un successo sorprendente, l'antico tropo degli spettacoli gladiatorii, adeguandolo alla satira del capitalismo.
Come ormai arcinoto “The Squid Game” è diventata la serie più vista di Netflix di tutti i tempi. La serie sudcoreana ha avuto un successo enorme, che supera probabilmente le stesse aspettative del network, il quale non l’ha doppiata in molte lingue, a partire dall’italiano.
Un tema che ha appassionato la SF sociologica americana, che ha spesso parlato di giochi gladiatorii futuribili in capolavori degli anni ’50 come “Immortality Inc.” di Sheckley, dove in una società in cui l'immortalità è facilmente ottenibile, i giochi mortali sono tornati moralmente legittimi. Al cinema, troviamo spesso sport ultraviolenti, dove l'uccisione è la norma, come “Rollerball” (1975) oppure giochi televisivi dichiaratamente mortali come “The running man” (1987), tratto da Stephen King e interpretato da Schwarzenegger.
Negli anni 2000 tutto ciò diviene apertamente un genere, “Battle Royale”, a partire da un romanzo del giapponese Takami del 1999, incarnandosi soprattutto nell’omonimo genere videoludico basato sull’idea di una arena virtuale di tutti contro tutti.
Il concetto ha anche ispirato il fortunato ciclo di romanzi e film di “Hunger Games” di Suzanne Collins, e poco prima dello Squid, “Alice in Borderlands” (sempre disponibile su Netflix) ha sviluppato il tema del Death Game.
Qual è il punto di forza di Squid Game, allora? Diverse sono le spiegazioni tentate: innanzitutto, la ripresa dei giochi infantili trasformati in giochi mortali offre un contrasto particolarmente efficace sotto il profilo visivo, un classico in fondo dell’horror.
Ma i giochi da boomer imposti alla massa delle nuove (e non più tanto nuove) generazioni impoverite e precarie pone una critica a una società ipercompetitiva come quella sudcoreana spinta all’indebitamento compulsivo nella speranza di sfondare e raggiungere uno spesso impossibile successo.
La satira è specifica della Sud Corea, in cui tale aspetto turbocapitalistico appare accelerato alla massima potenza: ma funziona bene nel resto del mondo perché riflette una rabbia sociale a tratti quasi inconsapevole, che forse emerge nell’apprezzamento fuori scala di questo prodotto, di cui si diceva (naturalmente, Netflix è parte del sistema ipercapitalistico odierno, quindi va capito se il successo è quasi un “bug di sistema” o, più probabilmente, è funzionare a sopire eventuali spinte critiche rappresentandole in modo proiettivo: guardare Squid Game – e magari scriverne - come forma guidata di slacktivism, insomma).
Colpisce, a tale proposito, che un altro successo di Netflix di questi giorni sia “Maid” di Molly Smith Metzler, tratto da un memoir di Stephanie Land, dove si indaga – con un simmetrico stile neorealistico – un analogo meccanismo di discesa nella povertà e nell’oppressione a causa dell’indigenza, oltre che del meccanismo patriarcale che isola la protagonista e sostanzialmente vanifica (sia pure non del tutto: ma solo a prezzo della sua eccezionale capacità e resistenza personale…) i meccanismi formali che dovrebbero tutelarla (nella fiction sudcoreana non appaiono nemmeno labili come in USA e, in altri modi, qui da noi: ma del tutto assenti).
Lorenzo Fantoni, in un bell’articolo di analisi dell’opera, suggerisce di andare alle radici fino al mito del Minotauro, dove l’eliminazione di alcune vittime sacrificali all’interno di un gioco rituale si dimostra un archetipo ancestrale della nostra cultura, e spiega ulteriormente questo successo.
Oltre al mito minotaurico, in modo ancor più specifico vengono da citare i giochi gladiatorii, rito sacrale funerario etrusco divenuto gradualmente nella società romana un grande rituale laico, di enorme successo e diffusione. “Panem et circenses” divengono davvero il fondamento dell’impero, o almeno un meccanismo importante della sua struttura, anche se indubbiamente la percezione della loro rilevanza è accentuata da una certa fascinazione proibita.
Introdotti nel corso delle Guerre Puniche, i giochi hanno il loro picco di celebrità con l’approssimarsi dell’Impero. È il munifico Caio Giulio Cesare a usare in modo eclatante la grandiosità dei giochi per spianarsi la strada del consenso popolare, e da Augusto in poi l’autorità imperiale si consolida anche controllando questo intrattenimento di enorme gradimento popolare. Il declino avviene con l’avvento dell’età cristiana, nel quarto secolo, per il rifiuto di questo rituale cruento come del resto di ogni aspetto del mondo classico se non integrabile a dovere nel nuovo paradigma (e svuotato del suo senso originario); anche in ragione, ovviamente, dell’utilizzo dei cristiani nei giochi circensi.
La fascinazione per i giochi gladiatorii aumenta enormemente nell’età della cultura di massa, come dimostra anche la ricchezza di tropi correlati ai giochi gladiatorii. La pittura art-pompier di fine ‘800 è affascinata dalla romanità decadente e dai giochi gladiatorii, che ritrae in dipinti rileccati ma di notevole impatto visivo, così come in opere quali i dipinti di Gerome (vedi sopra) o “Quo Vadis?” di Sienkiewicz, sulle persecuzioni neroniane verso i cristiani, che influenzeranno il cinema peplum americano (da "Quo Vadis?" è tratto un primo film nel 1913).
In tutto il fascino per l’estetica gladiatoria (che culmina nell’ultimo grande successo del genere finora, “Il gladiatore” di Ridley Scott, un grande successo dei cinema del 2000) si respira una sottile ambivalenza. Da un lato, c’è la giustificazione per lo spettatore della condanna sociale di un sistema spietato, specialmente nelle versioni “attualizzanti” dei ludi circensi. Dall’altro, però, questa condanna (magari in sé effettiva ed efficace) può anche essere una giustificazione virtuosa che ci legittima a guardare con un certo compiacimento una versione surrogata e virtuale dei giochi gladiatorii.
In fondo, se il Frontman è il Magister dei giochi, coadiuvato dai suoi accoliti rosso-vestiti come lanisti, i membri VIP sono l’equivalente dell’Imperatore e della sua corte, e i 456 partecipanti sono gli schiavi gettati nel Colosseo per l’intrattenimento (e la schiavitù per debiti è del resto una forma diffusa nell’antichità). Manca un ruolo per rendere Squid Game una trasposizione moderna degli antichi Ludi romani: il pubblico accalcato sugli spalti del Colosseo, il vero destinatario dell’intrattenimento del “Panem et Circenses”. Magari in una nuova stagione potremo scoprire che esistono altri utenti collegati oltre ai VIP, ma non è necessario: per ora, a svolgere il ruolo dei plebei intrattenuti dall’Imperator Netflix, bastiamo perfettamente noi pubblico da casa.